“Waiting Room” di Bianca Cataldi

Cari followers,

il blog ha taciuto per qualche giorno ma ora ecco per voi un post fresco fresco e abbastanza ricco. Buona lettura!

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WAITING ROOM

Bianca Rita Cataldi

Butterfly Edizioni

La trama

 

È il 1942. In una Puglia bruciata dal sole, Emilia e Angelo condividono la passione per il sapere, il desiderio di libertà e il tempo della loro giovinezza. Settant’anni dopo, seduta nella sala d’attesa di un dentista, Emilia rivela a se stessa la verità negata di una giovinezza che adesso, per la prima volta, ha il coraggio di riportare alla luce. Con una scrittura che è poesia del ricordo e caleidoscopio di emozioni, Bianca Rita Cataldi accompagna il lettore tra i sorrisi e le lacrime di una donna come noi, raccontando la storia di un amore mancato, di una generazione nell’età dell’incertezza, di un’attesa che attraversa tutta una vita.

L’autrice

 

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Bianca Rita Cataldi è nata nel 1992 a Bari, dove frequenta la facoltà di Lettere Moderne e studia pianoforte in conservatorio. Finalista al Premio Campiello Giovani nel 2009, ha esordito nel 2011 con il romanzo “Il fiume scorre in te”, pubblicato da Booksprint Edizioni. Nel gennaio 2013 ha fondato il blog/magazine culturale Prudence e da un anno collabora con la casa editrice Butterfly. Scrive recensioni letterarie per numerose case editrici sul suo blog B. among the little women. “Waiting room”, finalista della II edizione del Premio Villa Torlonia, è il suo secondo romanzo.

La mia recensione

 

Il romanzo di Bianca Cataldi si presenta come un libro davvero piacevole, ammantato di malinconia, suddiviso in capitoli brevi che favoriscono una lettura scorrevole e veloce. La voce narrante è quella di Emilia, una signora anziana che, nella sala d’attesa di un dentista, si ritrova a riflettere sulla propria vita e ricordare il suo primo amore, Angelo. L’Emilia del presente è una donna dal temperamento forte, il suo accostarsi agli eventi è spesso velato di ironia tagliente. Grazie a lei l’autrice porta sotto i riflettori anche temi importanti quali la condizione degli anziani al giorno d’oggi, lo stato di abbandono in cui talvolta versano a causa dei “giovani” troppo presi dalla propria frenetica vita, la solitudine del cuore e della mente in cui i ricordi sono più vividi della vita reale. Il racconto si dispiega tra presente e passato in flashback continui che mantengono viva l’attenzione. L’Emilia ragazza è ingenua com’era giusto che fosse alla sua età in quell’epoca. Scopriamo assieme a lei il batticuore per il primo amore, le prime carezze e i primi baci, il tutto intriso di sentimenti di una tenerezza straziante. Bellissimi sono i pensieri sulla giovinezza, puntellati da uno stile che, nonostante la giovane età dell’autrice, risulta piuttosto maturo. È proprio lo stile ciò che ho maggiormente apprezzato nel libro: piacevolmente mutevole nelle diverse situazioni descritte, raggiunge il culmine quando descrive le tribolazioni di Emilia. Le metafore sono così poetiche e armoniose che vien voglia di rileggerle ancora e ancora, anche ad alta voce per assaporarne il suono sulla lingua. Interessante è la figura della giovane scrittrice nella sala d’attesa che, in un certo senso, pare stia scrivendo la storia che Emilia rievoca nella propria mente, quasi fosse la nipote dell’anziana. Il finale risulta commovente e lascia nell’animo un senso di malinconia palpabile. Il racconto delle vicende è dunque egregiamente riuscito, impreziosito dalle perle stilistiche.

Ora parliamo invece di ciò che mi è parso assai improbabile essendo la sottoscritta una grande appassionata della storia di quel periodo. Non avrei avuto da ridire se le vicende giovanili di Emilia fossero state ambientate in un periodo “tranquillo”, ad esempio intorno al 1927-28, dieci anni dopo la fine della prima guerra mondiale e prima della grande crisi del 1929 e quando il fascismo non era ancora troppo opprimente nei confronti della popolazione “fedele” al regime. L’autrice difatti riesce a descrivere bene alcuni aspetti della vita come gli esercizi a scuola in onore del Duce, le feste in famiglia, l’atmosfera tra parenti, i modi di dire, l’uso del voi, gli abiti, le canzoni, la mentalità di un paesino del sud. Tuttavia le vicende sono ambientate in un periodo molto complesso, assai differente da quello degli anni immediatamente precedenti o successivi: il 1942. La guerra non era ancora al culmine ma la vita della popolazione non era rose e fiori. Nel libro sono tutti molto spensierati, mangiano bene, vestono bene, vanno al cinema. Nella realtà c’erano le Camicie Nere e gli assurdi divieti fascisti, c’erano tensioni anche nei piccoli paesi. C’era l’autarchia quindi non potevano essere importati beni dall’estero: il caffè era quasi introvabile, se non al mercato nero – di cui non si fa menzione neanche una volta – dove comunque costava tantissimo; il pane era pane nero. C’erano i razionamenti, non si andava per negozi a comprare ciò che si voleva: ogni cittadino aveva la tessera annonaria che dava diritto a quantità prestabilite di pane, pasta, zucchero, ecc. ma riguardava anche le stoffe, gli aghi… quindi era difficile cucire abiti di qualità. La famiglia di Emilia è benestante ma i suoi membri sono sarti e contadini. Difficile che fossero benestanti con questi mestieri, soprattutto in periodo di guerra: i sarti non avevano molto da cucire e i contadini non potevano vendere granché.

Angelo parla di “andare a prendere un gelato al cioccolato”. Dove? Non è come ora: si va in gelateria, si paga e si mangia. I miei nonni, che hanno sempre vissuto a Martina Franca, uno dei maggiori borghi pugliesi nel quale risiedo anch’io, mi hanno detto che loro non mangiavano nessun tipo di dolce, il massimo erano le arance oppure il pane umido sul quale appiccicavano un po’ di zucchero. La cioccolata l’hanno vista e conosciuta per la prima volta quando nel settembre del ’43 sono arrivati gli inglesi e gli americani. Il gelato esisteva per carità, pure il gelato al cioccolato, ma dubito che fosse reperibile a quei tempi in un piccolo paese in provincia di Bari, dove sono ambientate le vicende di Waiting room. Se si considera poi che il cibo si acquistava con la limitata tessera annonaria, sembra difficile che qualcuno potesse permettersi di andare a prendere un gelato al cioccolato. Stessa cosa per le crostatine alla frutta dal panificio. All’epoca le marmellate si facevano e consumavano maggiormente in casa, ma comunque vale ciò che ho detto per le tessere annonarie.

La madre di Emilia indossa un bracciale d’oro. Quasi impossibile: Mussolini aveva ordinato alla popolazione di donare l’oro alla patria per sostenere i costi della guerra. Chi non aveva consegnato il proprio oro – pochi visto ciò che erano capaci di fare le Camicie Nere – non lo portava certo addosso per mostrarlo in giro. Nel libro in paese ci sono tranquillamente tutti gli uomini: giovani o adulti. La cosa mi sembra strana poiché, se non tutti, perlomeno la maggior parte avrebbero dovuto essere chiamati alle armi. Della guerra che si consuma in quegli anni non si parla quasi mai se non rare volte verso la fine del libro. Sembra che non ci sia nessuna guerra e tutto ciò che essa comporta. All’inizio del ’43 nel libro si dice che sarebbe passato ancora qualche mese e poi la vita si sarebbe chiusa in faccia a Mussolini. Ma sappiamo che la vita di Mussolini non finì il 25 luglio ’43 quando venne arrestato né l’8 settembre con l’armistizio. Il 12 settembre infatti fu liberato da paracadutisti tedeschi dalla prigionia di Campo Imperatore. Dunque non terminò nemmeno la sua attività politica giacché dopo la liberazione creò l’odiata Repubblica Socialista nel nord Italia occupato dai nazisti.

Ora che ho finito di fare la pignola – non poteva non essere così riguardo a un’epoca che amo – vi dico che so per esperienza che scrivere un romanzo storico non è affatto facile, soprattutto quando ci si inoltra in periodi particolari come la guerra, in cui l’ordine delle cose viene sconvolto. Attribuisco dunque questi errori storici non alla mancata volontà dell’autrice di documentarsi ma alla difficoltà di descrivere in maniera precisa le piccole cose di tutti i giorni durante il più disastroso conflitto mondiale. I libri di storia ci insegnano i grandi avvenimenti, gli scontri tra eserciti, ma non parlano di come la gente comune si arrabattava per sopravvivere. Il mio umile consiglio all’autrice – ma anche a tutti gli autori che, affascinati dal passato, vogliono ambientarci una storia – è quello di fare ricerche approfondite e particolareggiate e di contestualizzare le informazioni: ciò che ad esempio si trovava o era possibile fare a Roma, poteva non esserlo in un paesino delle piccole province. La storia deve essere tramandata per quella che è stata realmente o perlomeno nel modo più veritiero possibile.

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Intervista all’autrice

 

Ciao Bianca, benvenuta sul mio blog. Mi fa molto piacere ospitare una mia conterranea, soprattutto giovane e talentuosa come te.

Ciao Ilaria! Grazie infinite per avermi accolta nel tuo blog e, soprattutto, per aver letto il mio romanzo con interesse e attenzione.

  • Dalla tua biografia abbiamo appreso che frequenti la facoltà di lettere e studi pianoforte, dunque hai due grandi passioni: letteratura e musica. Andando indietro nel tempo con la mente, sapresti riconoscere il momento in cui esse sono nate o l’evento che le ha scatenate? A quale delle due sei più legata?

L’amore per la musica nasce da un dispetto. Mi spiego: abbiamo in casa un vecchio Zimmermann verticale sul quale hanno suonato mio nonno, un po’ mia madre, mia sorella ed io. Quando era mia sorella a studiare musica, io ero veramente piccola e andavo lì da lei per disturbarla mentre studiava e per spingere i tasti a caso. Lei si arrabbiava e mi diceva che non potevo toccare lo strumento perché l’avrei sicuramente rotto, non essendo in grado di suonarlo. Così, a nove anni, andai da mia madre e le dissi che volevo iniziare a studiare pianoforte e, da quel giorno in poi, nessuno mi impedì più di strimpellare a mio piacimento. Lo “strimpellare” è diventato studio vero quando sono entrata in Conservatorio, esperienza che ancora continua e che si concluderà tra un paio d’anni con l’agognato diploma. Per quanto riguarda la letteratura credo che il Primo Motore Immobile sia stata mia madre con tutte le fiabe che mi leggeva. Lei è un’insegnante elementare di italiano e ti lascio immaginare quanto questo abbia influito sul mio modo di guardare ai libri e alla cultura in genere: mi ha insegnato ad amare ciò che gli altri bambini ritenevano noioso e poi, spontaneamente, alla lettura ha fatto seguito la scrittura, come in una naturale evoluzione. Non riesco ad immaginare le due cose separatamente e credo che, in generale, tutti i lettori siano anche un po’ scrittori: altrimenti, come potrebbero raffigurarsi nella mente ciò che l’autore di un libro ha scritto o ha nascosto tra le righe? Tra musica e letteratura, comunque, scelgo sicuramente la seconda: è un campo della cultura nel quale sento di potermi muovere senza urtare continuamente contro gli spigoli.

  • Ti piace parlare con gli altri della cultura, immagino, giacché hai creato un blog/magazine culturale e pubblichi recensioni letterarie sul tuo blog. Vuoi parlarci di Prudence e B. among the little women?

Parto dal più recente, Prudence. Si tratta, come hai giustamente detto, di un “blog/magazine”. La doppia definizione dipende dal fatto che non ci sentiamo ancora pronti per assegnarci il titolo di “magazine”, né ne abbiamo le competenze, ma crediamo che definirci soltanto un “blog” sia riduttivo. Siamo un gruppo di amici che ogni mese si siede intorno a un tavolino tondo del bar Stradivari e discute del prossimo tema da trattare, fumando e bevendo una cioccolata calda. Crediamo fermamente che la cultura vada condivisa liberamente, in ogni suo ambito, senza prezzi da pagare o barriere ideali da rispettare. Scriviamo articoli che non hanno un orientamento ben preciso, né politico né sessuale, e speriamo che il nostro progetto possa crescere sempre di più, giorno dopo giorno. Colgo l’occasione per ringraziare tutta la Redazione perché è composta da persone meravigliose che scrivono cose meravigliose e che meritano decisamente di essere lette e conosciute. Passando a B. among the little women: si tratta del mio blog personale, quello sul quale riporto le mie recensioni, le mie opinioni su ciò che mi circonda, le mie “visioni fuggitive”. Detesto ammetterlo ma so di essere una persona molto pigra e questo si evince dal mio blog: riconosco che dovrei curarlo di più, arricchirlo, renderlo più funzionale. Prometto che lo farò col tempo… esami permettendo!

  • Prima di raccontarci del libro che ho recensito qui sul blog, parlaci un po’ del tuo primo romanzo.

Il fiume scorre in te è il frutto acerbo dei miei sedici/diciassette anni, nonché la medicina con la quale ho curato me stessa dalla fine del primo amore. Adesso, ripensandoci, mi viene in mente un sottotitolo che gli calzerebbe a pennello: “Cronaca di un disamore”. Perché è di questo che si tratta: di una relazione che si accartoccia su se stessa, di un progressivo smettere di amare. Dani, accompagnata dal fedele Massimo, viaggia su un treno che la porta indietro nel tempo e, più precisamente, nel passato di Alessandro, l’uomo che ama e che l’ha abbandonata. Nel corso del viaggio, Dani scoprirà tutto ciò che Alessandro le ha nascosto e, per di più, sarà costretta a scegliere se perdonarlo e proseguire il viaggio o se fermarsi e condannare il suo amore per sempre. È un romanzo particolare e ancora adesso non riesco a spiegare con esattezza di che genere si tratti. Di una cosa sono assolutamente certa: è il mio libro del cuore, il mio primo sforzo quasi-letterario e, malgrado tutte le sue piccole grandi ingenuità, non cambierò mai una virgola di ciò che ho scritto perché tra quelle pagine ci sono io tutta intera. Io com’ero.

  • Waiting room. Un titolo che sinceramente all’inizio, leggendo la trama del libro, mi ha un po’ mandato in confusione. Tuttavia più si va avanti nella lettura più se ne comprende il significato, finché nelle ultime pagine si capisce che è azzeccatissimo. Ti è venuta in mente prima l’ambientazione e il suo significato e solo in un secondo momento il titolo oppure il contrario? C’è un messaggio per il lettore nascosto in queste due parole?

Forse non ci crederai, ma non ricordo assolutamente il momento in cui ho pensato al titolo. Credimi, non lo ricordo: è come se fosse sempre stato lì, insieme alle storie che mia nonna mi raccontava quand’ero bambina. Ricordo bene, però, che a un certo punto ho capito che non potevo riferire semplicemente una storia vera: dovevo ampliarla, darle un significato che valesse non solamente per la protagonista ma per tutti coloro che, leggendo, si sarebbero identificati con lei. Ho improvvisamente visto la sala d’attesa del primo capitolo come una metafora della vita che Emilia aveva vissuto e ho capito che quella ragazza senza nome che vedevo al suo fianco ero io mentre scrivevo, anch’io perennemente in attesa del futuro, che m’infilavo nella storia come Hitchcock nei suoi film e ho pensato che quel titolo provvisorio, quel “Waiting room”, sarebbe stato perfetto per esprimere l’angoscia dell’aspettare, il suo corrodere lento, il bianco abbacinante di un ritorno sperato e mai avvenuto.

  • Questo è il tuo primo romanzo con connotazioni storiche. Ti è piaciuta l’esperienza? La ripeterai oppure pensi di indirizzarti verso altri generi?

Diciamo che il romanzo storico non è esattamente pane per i miei denti. È anche vero, però, che non siamo noi a scegliere le nostre storie: sono le storie che ci chiedono di essere raccontate. Se la storia che bussa alla tua porta viene dritta dritta dagli anni ’40, o dagli anni ’60, o dal 1800… tu non puoi chiederle di tornare indietro. Devi rimboccarti le maniche e procacciarti i mezzi per raccontarla. Sicuramente ho commesso moltissime ingenuità in questo mio primo “esperimento storico”, ma non escludo di riprovarci in futuro con maggiore impegno e un bel po’ di studio in più! Il mio prossimo romanzo, comunque, sarà sicuramente ambientato nel nostro tempo e sarà a tematica lgbt: ho steso una bozza ma mi serve ancora molto tempo per trasformarla in un qualcosa che meriti l’appellativo di “romanzo”.

  • Emilia e Angelo. Due giovani il cui futuro, stretto dalle morse di una comunità che segue tradizioni e leggi non scritte, non ha nulla di certo. Ti sei ispirata a qualcuno in particolare per creare questi personaggi?

Ebbene sì! Angelo è la “versione vintage” dell’uomo che amo con le sue piccole fissazioni, il suo naso dantesco e quella follia genuina che gli vedo negli occhi ogni volta che lo guardo. Emilia, invece, è mia nonna così come appare nelle fotografie color seppia, con quello sguardo fiero, i fianchi larghi e la determinazione cocciuta che l’ha guidata per tutta la vita e che ancora la guida, giorno dopo giorno.

  • Emilia resterà per tutta la vita in attesa di quell’amore che se ne è andato durante la giovinezza. Si tratta dunque di un sentimento forte, forgiato nell’anima forse proprio grazie all’innocenza che lo ha visto nascere. Dal passato giungono spesso memorie di amori sbocciati ma mai vissuti che però non sono stati dimenticati. Considerando il mondo in cui viviamo oggi, secondo te una donna – o un uomo – potrebbe vivere nel ricordo di un amore per tutta la vita? È la società a mettere difficoltà e imposizioni sul tragitto di un sentimento che dovrebbe essere imperituro oppure ciò che accade dipende unicamente da ognuno di noi, dalla maniera di vivere e percepire l’amore?

Sicuramente i tempi sono cambiati e, cambiando, hanno trasformato anche il nostro modo d’amare. C’è un adagio arabo che recita “Gli uomini assomigliano più al loro tempo che ai loro padri”, ed è la verità. Certo, credo che ancora oggi si possa amare una sola persona per tutta la vita: mi è capitato spesso di ascoltare i racconti di amici e conoscenti che non hanno mai dimenticato un amore e che hanno atteso per anni, come Emilia, un ritorno che non è mai avvenuto. Inutile dire, però, che amori così duraturi sono sempre più rari, e noi siamo sempre più pronti a ricominciare, ripartire da zero, ricostruirci una vita. Il che, detto per inciso, non è un male se si sta attenti a non prendersi in giro e a non far soffrire inutilmente l’altro. Viviamo in un tempo in cui non è più possibile “piangersi addosso”. Ricordo che il mio primo romanzo terminava proprio su questa frase, “Smetto di piangermi addosso”, ed è così: andiamo di fretta e va di fretta anche il dolore, tentiamo di eliminarlo al più presto consumandolo in distrazioni, lanciandoci nuovamente nel futuro come saette. Ripeto, non è necessariamente un male ma non è nemmeno necessariamente un bene: ognuno di noi merita di avere il suo angolo di dolore e di riflessione sofferta perché è questo che ci fa crescere, forse più di ogni altra cosa. 

  • Ciò che mi è maggiormente piaciuto di Waiting room è lo stile. Molto poetico, ricco di metafore originali e mai scontate, direi maturo nonostante la tua giovane età. Ti sei esercitata nel corso degli anni per migliorarlo oppure l’hai scoperto all’improvviso senza nemmeno sapere di esserne dotata?

Da un lato credo che il mio stile sia sempre stato qui, da qualche parte dentro di me, sin da quand’ero bambina, ma allo stato grezzo. Per molto tempo ho scritto “sbrodolando”, lasciandomi prendere dalla furia del raccontare e riempiendo le pagine di descrizioni inutili e metafore sovrabbondanti. Il tempo, la lettura di un numero spaventoso di libri e le critiche sincere mi stanno insegnando ad asciugare la mia scrittura e a perfezionarmi. Un percorso, questo, che credo sarà senza fine, come ogni educazione.

  • Credo tu sappia bene quanto me che i campi artistici, soprattutto in Italia, sono un settore per niente facile per chi non ha fama pregressa o conoscenze. Tuttavia se la passione è più forte degli ostacoli, non si abbandona il campo. In quale arte, tra letteratura e musica, impegnerai più energie? In quale, avendo successo, ti sentiresti più realizzata?

Sicuramente darò l’anima per la letteratura perché sono nata in una casa piena di libri e non riesco ad immaginare la mia vita senza la parola scritta. La musica è una compagna di vita, un’amica/nemica fedele che mi aspetta tra le corde del pianoforte, ma non è la mia strada. So di non essere una pianista, ma so anche che senza la musica non avrei imparato l’arte dell’organizzazione, dell’impegno, del sacrificio. Se adesso posso restare in piedi tutta la notte per preparare un esame o per scrivere un racconto è anche perché lo studio del pianoforte mi ha insegnato che è il sudore a farci andare avanti, e che senza fatica non si può conquistare nulla che valga la pena di essere conquistato.

Augurandoti il successo che meriti, ti ringrazio per questa piacevole chiacchierata.

Grazie a te, Ilaria! In bocca al lupo per tutto ciò che scrivi e che merita assolutamente di essere letto!