Lettere d’amore, Il Corriere della Sera: corrispondenze appassionate dei grandi dell’Ottocento e del Novecento – #1 Pablo Neruda

 

Il Corriere della Sera inaugura una nuova collana di libri dal titolo “Lettere D’amore”, in edicola dal 15 luglio al prezzo  di € 6,90 + il prezzo del quotidiano.

Si tratta di 20 volumi con le corrispondenze appassionate dei grandi dell’Ottocento e del Novecento, da Neruda a Kafka, da Einstein a Frida Kalho, da Pessoa a Edith Piaf.

Grazie a Corriere della Sera possiamo conoscere letterati, artisti, scienziati, personaggi in una nuova e sorprendente veste, quella di innamorati. Un viaggio in un sentimento forte, che da sempre smuove animi e continenti. Storie di attesa, di tenerezza, desiderio, di assenza e di follia. Perché chiunque abbia amato ha affidato almeno una volta nella vita la propria passione, i propri tormenti e le proprie illusioni a una lettera.

Il Corriere della Sera ha inoltre lanciato un’iniziativa collegata alla collana.

Sul  proprio sito, nella  sezione “cultura”,  la redazione ha pensato di dedicare uno spazio ai propri lettori, spazio nel quale condividere le proprie dichiarazioni, lettere d’amore, messaggi inviati, ricevuti o semplicemente i messaggi d’amore che più li ha emozionati. Questa è una cosa davvero interessante a mio parere anche a livello sociale, pedagogico – non dite poi che la formazione accademica non influenza l’approccio alle cose di una persona, perché nel mio caso è proprio così! Per esempio: come si è evoluta la comunicazione amorosa ai tempi del web? Passate a dare un’occhiata, cliccando qui.

La prima uscita: Pablo Neruda

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Che gioia vedere questo prato verde, queste montagne oscurate dalla nebbia del crepuscolo, e sentirmi io, in prima persona, libero da tanta stupidità, agile e solo. Ah! Se ci fossi tu, Albertina!

La prima uscita, in edicola martedì 15 luglio, è “Lettere d’amore ad Albertina Rosa” di Pablo Neruda, uno dei primi e segreti amori del poeta cileno.

L’amore tra i due risale al 1921 quando i giovani si trasferiscono a Santiago del Cile per frequentare i corsi dell’università. Per il poeta che viene dalla provincia è la scoperta di un amore cittadino, concreto, sessuale, fiorito nella misera vita studentesca. La passione divorante si riversa subito sulla carta e s’incendia soprattutto durante le vacanze, quando i due innamorati si separano per far ritorno alle rispettive famiglie. Il tempo e gli eventi non sembrano spezzare il legame: l’ultima lettera del poeta cileno è del luglio 1932, due anni dopo il suo matrimonio con Maria Antonieta Agenaar Vogelzanz e quattro anni prima di quello di Albertina con il poeta Ángel Cruchaga Santa María, amico intimo di Neruda. Le strade dei due si dividono ma in queste pagine l’amore di gioventù resta vivo per sempre.

Per molti anni ci si è chiesto chi fosse “Mariposa”, la “farfalla” cui sono dedicati alcuni dei versi d’amore più celebri di Pablo Neruda. Il mistero fu svelato due anni dopo la morte del poeta, quando Albertina Rosa Azócar Soto decise di pubblicare le lettere ricevuta da Neruda.

Il testo in italiano ora edito segue fedelmente gli originali e vale a documentare un momento particolarmente rilevante della biografia di Pablo Neruda.

La tua bella lettera lilla merita il mio inchiostro color ala di cocorita. Per fare il mio dovere con te, ti rispondo immediatamente, di giorno. Ma alla luce bianchissima del giorno non mi viene in mente niente niente che sia degno di Arabella. Per lo più vorrei parlarti nei baci. Così riuscirei a spiegarti il mio bisogno di te, la mia sete di te. Il desiderio di averti al mio fianco.

 

 

L’autore

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Pablo Neruda, pseudonimo di Ricardo Neftalí Reyes Basoalto (Parral 1904 – Santiago 1973), fu un poeta cileno, ritenuto tra le voci più significative del XX secolo. Figlio di un ferroviere, cominciò a comporre versi fin dall’adolescenza. Alla sua prima raccolta pubblicata in volume, Crepuscolario (1923), ancora legata alle forme estetizzanti del decadentismo, seguirono nel 1924 le Venti poesie d’amore e una canzone disperata, grazie alle quali Neruda si affermò come il più famoso giovane poeta dell’America latina. Nelle composizioni di Residenza sulla terra (1933), scritte dopo alcuni anni di servizio diplomatico in Estremo Oriente, il poeta diede vita a immagini cupe e disperate di un mondo distrutto dalla civiltà moderna. Se con quest’opera la sua poesia si orientò verso l’espressionismo e il surrealismo, in seguito la sua produzione sarebbe approdata a uno stile realista, sobrio ed essenziale.

Trascorso un periodo in Spagna all’epoca della guerra civile, Neruda ritornò in Cile, si iscrisse al Partito comunista e fu eletto senatore, ma nel 1948 dovette riparare in esilio a seguito di un processo politico intentatogli dal presidente del Consiglio Gonzales Videla. Il primo frutto di questi anni difficili fu Canto generale (1950), poema epico che celebra la storia e la natura dell’America latina dal presente al lontano passato precolombiano. In Italia tra il 1951 e il 1952, compose I versi del capitano (1952) e Le uve e il vento (1954), mentre dal 1952 al 1957, dopo esser tornato in Cile, compose le Odi elementari, in cui fece assurgere a dignità poetica gli oggetti più umili e gli aspetti più semplici del vivere quotidiano. Sostenitore di Salvador Allende, con l’avvento al potere dei socialisti ottenne la carica di ambasciatore del Cile in Francia. Tornato in patria nel 1972, dopo aver ricevuto, nel 1971, il premio Nobel per la letteratura e il premio Lenin per la pace, morì pochi giorni dopo il colpo di stato di Pinochet, che segnò la fine del governo Allende e l’instaurazione della dittatura.

Fonte: Encarta

 

Le prossime uscite

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La seconda uscita, in edicola il 22 luglio, invece è “Da qualche parte nel profondo” di Rainer Maria Rilke e Lou Andreas Salomé. Il poeta, drammaturgo e scrittore austriaco conosce a Monaco la Salomè, scrittrice e saggista tedesca di origine russa e amica di Nietzsche. Nelle numerose lettere che si scambiarono, selezionate in questa raccolta, il poeta praghese si appoggia a Lou nello smarrimento del periodo parigino, nel ricorrente dubbio creativo, nella paura della malattia, riconoscendola come unica interlocutrice attenta e presente nei momenti decisivi del suo tormentato percorso.

Una collezione preziosa, da non perdere.

Vi lascio l’indirizzo dello store del Corriere, dove potete prenotare una singola copia o addirittura tutte:

Buona lettura!

Nobel italiani per la letteratura: Dario Fo

Sesto appuntamento con la rubrica Nobel italiani per la letteratura. Per il momento sarà anche l’ultimo, finché non verrà assegnato un nobel per la letteratura a un altro italiano, cosa che per quest’anno passa vista la vincitrice canadese Alice Munro. Oggi parliamo di Dario Fo che, nella lista dei sei nobel italiani per la letteratura, è un autore di teatro come Pirandello.

Dato che esistono oratori balbuzienti, umoristi tristi, parrucchieri calvi, potrebbero anche esistere politici onesti.

Dario Fo

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Dario Fo (Sangiano, Varese 1926) è un attore, regista e autore drammatico italiano, famoso per i suoi spettacoli di satira politica e sociale. Compiuti gli studi all’Accademia di Brera di Milano, dal 1950 iniziò a recitare e a scrivere testi satirici per la radio e la televisione; trasferitosi a Roma, dal 1955 al 1958 lavorò come soggettista.

Con la moglie Franca Rame fondò poi un proprio gruppo teatrale, la Compagnia Dario Fo – Franca Rame (1959-1968): i brevi pezzi pungenti preparati dalla coppia per il programma televisivo di varietà Canzonissima vennero censurati così spesso che i due attori e drammaturghi nel 1963 lasciarono la RAI e ripresero a recitare in teatro. Nel 1968 costituirono il gruppo Nuova Scena, che si esibiva a prezzo politico e in luoghi volutamente alternativi rispetto alle sedi ufficiali, propugnando il ritorno del teatro alle origini popolari e rivalutandone la funzione sociale.

Riscosse molto successo Mistero buffo (1969), in cui Fo, unico attore, presentava un insieme di elaborazioni fantasiose di antichi testi, in un estroso impasto linguistico. Negli anni Settanta, schieratosi al fianco delle organizzazioni extraparlamentari, diede vita al collettivo La Comune che, tra le altre attività, s’impose per l’appassionato tentativo di dare nuova linfa al teatro di strada. Tra le più efficaci trovate di Fo si colloca l’uso del ‘grammelot’: un tipo di linguaggio teatrale in cui l’attore non pronuncia parole reali, ma emette suoni che imitano, nell’intonazione e nel ritmo, un idioma esistente (francese, inglese) e il padano, dialetto inesistente, compendio di tutti i dialetti di una Val Padana viva nell’immaginario popolare.

Ideate e interpretate spesso insieme alla moglie Franca Rame, le farse di Fo sono sempre state tanto invise all’autorità ecclesiastica e dissacranti nei confronti della morale borghese, quanto ricche di valori sociali e politici. In particolare, si ricordano Gli arcangeli non giocano a flipper (1959); Aveva due pistole dagli occhi bianchi e neri (1960); Isabella, tre caravelle e un cacciaballe (1963); Settimo ruba un po’ meno (1964); La signora è da buttare (1967); Morte accidentale di un anarchico (1970) ispirata al caso della misteriosa morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli; Tutti uniti, tutti insieme, ma scusa quello non è il padrone? (1971); Pum pum. Chi è? La polizia (1972); Il Fanfani rapito (1973); Non si paga, non si paga! (1974); Coppia aperta (1983); Johan Padan a la descoverta delle Americhe (1991); Marino libero, Marino è innocente (1998), sulla vicenda giudiziaria di Adriano Sofri, Ovidio Bompressi e Giorgio Pietrostefani, ex militanti di Lotta continua, accusati dal vecchio compagno Leonardo Marino dell’omicidio del commissario di polizia Calabresi (1972), Da Tangentopoli all’inarrestabile ascesa di Ubu-Bas (2002) e L’anomalo bicefalo (2003).

Nel 1997 Fo fu insignito del premio Nobel per la letteratura; nel 2000 gran parte dei suoi testi teatrali è stata raccolta in un unico volume, Dario Fo – Teatro, curato da Franca Rame.

Fonte: Encarta

 

 

Fermare la diffusione del sapere è uno strumento di controllo per il potere perché conoscere è saper leggere, interpretare, verificare di persona e non fidarsi di quello che ti dicono. La conoscenza ti fa dubitare. Soprattutto del potere. Di ogni potere.

Caratteristiche e stile

Le caratteristiche più note, ma certo non le sole, dell’opera di Fo sono l’anticonformismo, l’anticlericalismo e, più in generale, l’esercizio di una forte critica rivolta, attraverso lo strumento della satira, alle istituzioni (politiche, sociali, ecclesiastiche) e alla morale comune. La sua costante opposizione a ogni forma di potere costituito rende Fo non soltanto un artista “scomodo”, ma l’antitesi degli intellettuali organici, tutti presi dal compito di conservare l’egemonia culturale già esistente o di crearne una alternativa. Dario Fo è ateo – cfr. sua dichiarazione in Wikiquote aggiornata al 03 maggio 2013. (da “Dario Fo Il paese dei mezaràt” – Feltrinelli, Milano, 2004).

All’interno della sua vastissima produzione (circa settanta lavori), i personaggi dell’attualità, della storia o del mito sono presentati sempre in un’ottica rovesciata, opposta a quella comune (il gigante Golia è buono e pacifico, mentre Davide è un litigioso rompiscatole, Napoleone e Nelson si comportano come bambini che si fanno reciproci dispetti, ecc.). Già nei primi spettacoli compare, sia pure in embrione, quella satira fatta di smitizzanti ribaltamenti tanto frequente nei successivi lavori di Fo.
Tanto importante quanto la componente critica della satira di Fo è la capacità di costruire e mettere in scena delle perfette macchine per far ridere, sul modello delle farse e dei vaudeville (commedie brillanti) e con rimandi sia al filone popolare dei lazzi della Commedia dell’arte, sia alle gag del circo e del cinema muto. Questo è il tipo di produzione alla quale Fo si è dedicato dal 1957 al 1961. Si tratta di testi che, anche a distanza di anni, mantengono una straordinaria vis comica e che, inoltre, risultano godibilissimi alla lettura.
Fo torna sempre ad usare i meccanismi della farsa, fondendoli con una satira di rara efficacia. Rispetto alle prime commedie, però, col tempo si fanno più accentuati gli intenti satirici nei confronti del potere costituito. Lo spettacolo spesso si articola, secondo lo schema del “teatro nel teatro”, in una struttura a cornice, con una storia esterna che ne contiene un’altra. La commedia si inserisce in un filone demistificatorio, ossia nel tentativo di raccontare fatti e personaggi della storia e dell’attualità secondo un’ottica alternativa (magari totalmente immaginaria), priva di quella retorica e di quegli stereotipi a cui la cultura ufficiale fa ricorso tanto di frequente. Questo è un nodo centrale nella poetica di Dario Fo, come egli stesso dichiara:
« La risata, il divertimento liberatorio sta proprio nello scoprire che il contrario sta in piedi meglio del luogo comune… anzi, è più vero… o almeno, più credibile. » (da Dario Fo parla di Dario Fo, Lerici, 1977)
Un personaggio frequente nel teatro di Fo è quello del Matto a cui è permesso dire le verità scomode (vedi ad esempio Morte accidentale di un anarchico). Spesso il mondo delle commedie di Fo è popolato da personaggi “da sottobosco”, visti però in chiave positiva: ubriachi, prostitute, truffatori carichi di inventiva, matti che ragionano meglio dei sani e simili. Di certo non è estranea alla scelta di questo tipo di personaggi l’influenza degli anni vissuti a Sangiano, il paese natale, che Fo descrive così:
« Paese di contrabbandieri e di pescatori, più o meno di frodo. Due mestieri per i quali, oltre a una buona dose di coraggio, occorre molta, moltissima fantasia. È risaputo che chi usa la fantasia per trasgredire la legge ne preserva sempre una certa quantità per il piacere proprio e degli amici più intimi. »
Forse proprio qui Fo deve avere intuito che, a volte, il vero delinquente non è chi trasgredisce le legge, bensì chi la legge l’ha fatta.
Anche la burocrazia è presa di mira: in Gli arcangeli non giocano a flipper, un personaggio scopre di essere iscritto all’anagrafe come cane bracco. Pur avendo scoperto che l’errore è frutto della vendetta di un impiegato impazzito per una mancata promozione, il protagonista è costretto dalle ferree leggi della burocrazia a comportarsi da vero cane bracco, e solo dopo che, come cane randagio, sarà stato ufficialmente soppresso, potrà tornare uomo e riscuotere i soldi che gli spettano. Qui la burocrazia ha una sua logica chapliniana, per cui non ciò che esiste viene annotato sulle carte, ma ciò che le carte certificano deve esistere.
Questa surreale situazione può essere vista come variazione in chiave vaudeville, de Il fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello. Non è chiaro se la parodia sia voluta o meno, ma certo è che, dopo le accuse di eccessivo cerebralismo che Fo ha sempre mosso a Pirandello, non è da escludere una deliberata volontà parodistica. Il rapporto tra Fo autore e Fo attore può essere riassunto da ciò che egli stesso scrive in un articolo nel 1962: “Gli autori negano che io sia un autore. Gli attori negano che io sia un attore. Gli autori dicono: tu sei un attore che fa l’autore. Gli attori dicono: tu sei un autore che fa l’attore. Nessuno mi vuole nella sua categoria. Mi tollerano solo gli scenografi”.
Se c’è un testo che però non può prescindere dalla presenza scenica di Fo, questo è “Mistero buffo” (1969), lungo monologo in grammelot che imita il dialetto padano, che offre una versione smitizzata di episodi storici e religiosi, coerente con l’idea che “il comico al dogma fa pernacchi, anzi ci gioca, con la stessa incoscienza con cui il clown gioca con la bomba innescata”. Una delle idee guida dello spettacolo è che la cultura alta abbia sempre rubato a mani basse elementi della cultura popolare, rielaborandoli e spacciandoli per propri (sul rapporto tra Fo e la cultura popolare, si veda Antonio Scuderi, Dario Fo and Popular Performance, Legas 1998 e, dello stesso autore, Le cuit et le cru: il simbolismo zoomorfico nelle giullarate di Dario Fo, nel volume Coppia d’arte citato nella bibliografia conclusiva).
Figura centrale di tutto lo spettacolo è quella del giullare, in cui Fo si identifica, rifacendosi alle origini dì questa figura come quella di colui che incarnava e ritrasmetteva in chiave grottesca le rabbie del popolo. Negli anni sessanta e settanta nella società italiana personaggi come Dario Fo e Leonardo Sciascia esplicavano, tramite l’analisi dialettica della situazione politica e socio-culturale e, soprattutto, del linguaggio eufemistico e accomodante di cui si avvale tuttora la classe politica, per mostrare il marciume, le fallacie logiche, le segrete connivenze fra le classi dominanti e i favoreggiamenti che si celano sotto il perbenismo politico.
Commedie come Morte accidentale di un anarchico (questa pièce sul decesso dell’anarchico Pinelli durante un interrogatorio in seguito alla strage di piazza Fontana a Milano (12 dicembre 1969) è, insieme con la giullarata Mistero buffo, il capolavoro di Fo) non sono altro che il coerente accorpamento di tutti i dati e di tutte le comunicazioni ufficiali, sempre contrastanti e sconcertanti, se raccolti sistematicamente, e segno dell’arroganza del potere. Gli interventi di Fo sull’argomento sono tipici della Commedia dell’arte e della tradizione comica italiana così come della più feroce satira politica tedesca: la forma rende il testo umoristico e nel contempo mette a nudo i soprusi del potere e la crudeltà inarrestabile della burocrazia, la fabula vera e propria invece è desunta dalla realtà.
Il procedimento usato in questi casi è quello, già visto anche in altri autori, di portare alle estreme conseguenze l’affermazione dell’avversario fino a farla cadere. Qui tale tecnica è arricchita dal fatto che colui che la usa finge di stare dalla stessa parte di chi vuol sbugiardare. Gli elementi farseschi dovuti alla girandola di situazioni create dai continui cambi di identità del protagonista, servono a mantenere lo spettacolo, pur di argomento così drammatico, su quel registro comico, essenziale per Fo, al fine di evitare il rischio della catarsi e dell’indignazione (come in Pirandello).
Fo attualizza la tecnica e la figura del giullare come reincarnazione delle voci eretiche del passato, con una funzione fortemente polemica nel presente; sincronizza passato e presente realizzando un effetto straniante, usando il grottesco e la logica e, senza confondere i piani temporali, insinua nel presente un frammento di passato che ha una valenza negli avvenimenti politici contemporanei.
In un altro contesto l’opera di Fo può essere ricondotta a Pirandello, infatti i suoi personaggi si confrontano con una società snaturante e con una crisi esistenziale che li spinge a lottare per affermare le proprie ragioni e per smascherare le false verità imposte dall’alto. Nel novembre 2009, dopo la sentenza di Strasburgo che stabilì la rimozione dei crocefissi dalle aule scolastiche, Dario Fo si schierò a favore della Corte Europea paragonando il Cristo in croce alla svastica e alla falce e martello, ovvero a simboli ideologici da rimuovere dalla società.

La satira è un’espressione che è nata in conseguenza di pressioni, di dolore, di prevaricazione, cioè è un momento di rifiuto di certe regole, di certi atteggiamenti: liberatorio in quanto distrugge la possibilità di certi canoni che intruppano la gente.

 

La controversia sulla militanza nella Repubblica Sociale Italiana

Nel 1975, Giancarlo Vigorelli sul quotidiano Il Giorno scrisse: «Anche Fo sa di avere in pancia l’incubo dei suoi trascorsi fascisti». Fo querelò il giornalista e il quotidiano per diffamazione, e la vicenda si concluse con la pubblicazione di una rettifica. Ma il senatore Giorgio Pisanò del Movimento Sociale Italiano, storico e direttore del “Candido”, documentò il trascorso repubblichino di Dario Fo, volontario nei parà e sottufficiale delle Brigate Nere, che si distinse per i rastrellamenti casa per casa nei centri vicini al Lago di Como.
Nello stesso anno il deputato democristiano Michele Zolla presentò invano un’interrogazione al Ministro della Difesa per sapere se rispondesse a verità questo fatto. Nel 1977 Fo accusò Luigi Calabresi (da lui ribattezzato “commissario Cavalcioni”), di avere gettato dalla finestra della questura di Milano l’anarchico Pino Pinelli il giorno dopo della Strage di Piazza Fontana. In seguito attaccò il PM genovese Mario Sossi per aver fatto arrestare l’ex-comandante partigiano Giambattista Lazagna. Nello stesso anno Fo querelò per diffamazione Gianni Cerutti per aver pubblicato su II Nord un articolo che lo attaccava con parole pesanti: «A Fo non conviene ritornare a Romagnano Sesia dove qualcuno lo potrebbe riconoscere: rastrellatore, repubblichino, intruppato nel battaglione Mazzarini della Guardia Nazionale della Repubblica di Salò».
Fo risponde querelando Cerutti. Il processo di svolse a Varese dove veniva stampato Il Nord: alla prima udienza, nel febbraio 1978, Fo fu messo dinanzi ad una foto che lo vedeva con la divisa della Rsi, e si giustificò raccontando che all’età di 18 anni, nel 1944, collaborava con il padre, esponente della Resistenza nel Varesotto. Preso tre volte dai tedeschi, e sempre scappato, si era arruolato volontario nei paracadutisti di Tradate, ma lo aveva fatto per non destare sospetti, anzi d’accordo con i partigiani amici del padre. Il suo sogno era sempre stato quello di unirsi alla formazione militare Lazzarini, la banda partigiana terrore dei nazifascisti sulla riva orientale del Lago Maggiore. Nel frattempo a marzo il giornalista Luciano Garibaldi sul settimanale Gente pubblicò la foto di Dario Fo in divisa da parà repubblichino con le testimonianze di una decina di ex-camerati di Tradate tra cui Carlo Maria Milani secondo il quale Fo partecipò, con il compito di portare bombe, al rastrellamento della Val Cannobina per la riconquista dell’Ossola.
Nello stesso articolo è presente l’intervista dell’ex comandante partigiano Giacinto Lazzarini: «Le dichiarazioni di Dario Fo destano in me non poca meraviglia. Dice che la casa di suo padre era a Porto Valtravaglia, era un “centro” di resistenza. Strano. Avrei dovuto per lo meno saperlo. Poi dice che “era d’accordo con Albertoli” per raggiungere la mia formazione. Io avevo in formazione due Albertoli, due cugini, Giampiero e Giacomo. Caddero entrambi eroicamente alla Gera di Voldomino, e alla loro memoria è stata concessa la medaglia di bronzo al valor militare. Forse Fo potrà spiegare come faceva ad essere d’accordo con uno dei due Albertoli di lasciare Tradate nel gennaio 1945, quando erano entrambi caduti quattro mesi prima. Senza dire, poi, che i cugini Albertoli erano tra i più vicini a me e mai nessuno dei due mi parlò di un Dario Fo che nutriva l’intento di unirsi alla nostra formazione [..] Se Dario Fo si arruolò nei paracadutisti repubblichini per consiglio di un capo partigiano, perché non lo ha detto subito, all’indomani della Liberazione? Sarebbe stato un titolo d’onore, per lui. Perché mai tenere celato per tanti anni un episodio che va a suo merito?».
Subito dopo in un’intervista a La Repubblica Fo dichiarò: «Io repubblichino? Non l’ho mai negato. Sono nato nel ’26. Nel ’43 avevo 17 anni. Fino a quando ho potuto ho fatto il renitente. Poi è arrivato il bando di morte. O mi presentavo o fuggivo in Svizzera. Mi sono arruolato volontario per non destare sospetti sull’attività antifascista di mio padre, quindi d’accordo con i partigiani amici di mio padre». Le dichiarazioni di Milani e Lazzarini provocarono grande scalpore, tant’è che testimoniarono durante il processo di Varese contro Fo il quale, dopo un acceso confronto, li denunciò per falsa testimonianza. La querela al comandante partigiano Giacinto Lazzarini provocò non poco stupore, poiché ne la biografia “La storia di Dario Fo”, di Chiara Valentini, si legge che «il leggendario comandante Lazzarini fu l’idolo della mia vita».
Il processo di Varese durò un anno e si concluse, dopo oltre dieci udienze, il 15 febbraio 1979 con una sentenza che assolve per intervenuta amnistia il direttore de II Nord. Nel 1979 nella sentenza fu scritto: «È certo che Fo ha vestito la divisa del paracadutista repubblichino nelle file del Battaglione Azzurro di Tradate. Lo ha riconosciuto lui stesso – e non poteva non farlo, trattandosi di circostanza confortata da numerosi riscontri probatori documentali e testimoniali – anche se ha cercato di edulcorare il suo arruolamento volontario sostenendo di avere svolto la parte dell’infiltrato pronto al doppio gioco. Ma le sue riserve mentali lasciano il tempo che trovano. […] lo rende in certo qual modo moralmente corresponsabile di tutte le attività e di ogni scelta operata da quella scuola nella quale egli, per libera elezione, aveva deciso di entrare. È legittima dunque per Dario Fo non solo la definizione di repubblichino, ma anche quella di rastrellatore».
Milani fu assolto dall’accusa di falsa testimonianza con sentenza definitiva nel 1980 perché «il fatto non sussiste». La sentenza non fu appellata e così passò in giudicato. Fo dichiarerà poi nel 2000 al Corriere della Sera: «Aderii alla Rsi per ragioni più pratiche: cercare di imboscarmi, portare a casa la pelle. Ho scelto l’artiglieria contraerea di Varese perché tanto non aveva cannoni ed era facile prevedere che gli arruolati sarebbero presto stati rimandati a casa. Quando capii che invece rischiavo di essere spedito in Germania a sostituire gli artiglieri tedeschi massacrati dalle bombe, trovai un’altra scappatoia. Mi arruolai nella scuola paracadutisti di Tradate. Poi tornai nelle mie valli, cercai di unirmi a qualche gruppo di partigiani, ma non ne era rimasto nessuno».
Nel 2004 Oriana Fallaci ritornerà sulla questione, attraverso numerose interviste e in particolare scrivendo ne La Forza della Ragione: «Fui esposta al pubblico oltraggio. Istigato, questo, da un vecchio giullare [Dario Fo] della repubblica di Salò. Cioè da un fascista rosso che prima d’essere fascista rosso era stato fascista nero quindi alleato dei nazisti che nel 1934, a Berlino, bruciavano libri degli avversari». Nel 2007 viene pubblicata l’autobiografia “Il mondo secondo Fo. Conversazione con Giuseppina Manin” edita Guanda. Nel libro viene riaperta la questione, Dario Fo «ha fatto parte della Repubblica di Salò», osserva l’intervistatrice Giuseppina Manin, coautrice del libro. Dario Fo non si sottrae, e risponde che quella «parentesi» lui non l’ha «mai negata».
Ammette di essersi arruolato «per salvare la pelle». E fa notare la differenza con un altro premio Nobel, Gunter Grass, che la sua militanza nelle Waffen-SS l’ha tenuta nascosta fino al 2006. «Quello che più mi ha colpito della sua vicenda è il fatto di aver tenuto quel segreto dentro per tutto il tempo. Grass ha convissuto con la sua colpa per oltre sessant’anni». Nel 2007 Ercolina Milanesi, giornalista, collaboratrice e free-lance su diversi quotidiani nazionali, ha scritto che nel 1944-1945 era sfollata a Cittiglio (VA), ha raccontato che conosceva bene Dario Fo e ha ricordato che «Un giorno si presentò tronfio come un gallo per la divisa che portava e ci tacciò di pavidi per non esserci arruolati come lui».

Fonte: Wikipedia

 

 

Mio padre, prima dell’arrivo del nazismo, aveva capito che buttava male; perché, spiegava, quando un popolo non sa più ridere diventa pericoloso.

Anniversario della nascita di Oscar Wilde

Oggi 16 ottobre ricorre l’anniversario della nascita di Oscar Wilde, centocinquantanove anni fa.

Oscar Wilde

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Oscar Wilde (Dublino 1854 – Parigi 1900), scrittore irlandese, è stato uno dei maggiori esponenti del decadentismo (vedi approfondimento in fondo all’articolo).

La vita

Dopo gli studi classici al Trinity College di Dublino, Wilde frequentò l’università di Oxford, dove subì l’influsso della poetica di Walter Pater e John Ruskin. Spirito eccentrico e dandy di rara eleganza, cominciò a far parlare di sé negli ambienti mondani e fu preso di mira dalla rivista umoristica ‘Punch’, che ne mise in ridicolo vezzi e atteggiamenti. Per il suo acume e il fascino della sua conversazione brillante, ebbe tuttavia anche numerosi estimatori.

Alla pubblicazione del primo volume di poesie nel 1881, seguì un fortunato ciclo di conferenze negli Stati Uniti. Tornato in Inghilterra, Wilde si stabilì a Londra e nel 1884 sposò una facoltosa irlandese, dalla quale ebbe due figli. Nel 1895, all’apice della carriera, fu al centro di uno dei processi più chiacchierati del secolo, quello che lo vide imputato di sodomia, uno scandalo senza pari nell’Inghilterra vittoriana. Condannato a due anni di lavori forzati, ne uscì finanziariamente rovinato e psicologicamente provato. Trascorse gli ultimi anni della vita a Parigi sotto falso nome (Sebastian Melmoth) e, poco prima della morte, avvenuta per meningite, si convertì al cattolicesimo.

Dorian Gray

Alla prima fase produttiva di Wilde appartengono due volumi di fiabe scritte per i figli (Il principe felice, 1888; La casa dei melograni, 1891) e la raccolta di racconti Il delitto di lord Arthur Savile (1891). Il suo unico romanzo, Il ritratto di Dorian Gray (1891), è una storia melodrammatica di decadenza morale che si distingue per il brillante stile epigrammatico. Wilde non risparmia al lettore alcun particolare del declino del protagonista verso un abisso di corruzione, ma il finale rivela una presa di posizione dell’autore contro la degradazione dell’individuo; ciononostante, la critica lo accusò di immoralità.

Il teatro

Le opere teatrali più interessanti di Wilde sono le quattro commedie Il ventaglio di Lady Windermere (rappresentato per la prima volta nel 1892), Una donna senza importanza (1893), Un marito ideale (1895) e L’importanza di chiamarsi Ernesto (1895), tutte contraddistinte da un intreccio abilmente congegnato e dialoghi brillanti. Pur senza una solida preparazione drammaturgica alle spalle, Wilde dimostrò con queste opere un autentico talento naturale per la tecnica teatrale e una felice predisposizione alla farsa: le sue commedie sono un fuoco d’artificio di trovate e paradossi divenuti celebri. A queste si contrappone Salomé, dramma serio sul tema della passione ossessiva, originariamente scritto in francese, che, censurato in patria, fu rappresentato a Parigi nel 1896, con l’interpretazione della celebre attrice Sarah Bernhardt. Nel 1905 il compositore tedesco Richard Strauss ne trasse l’opera omonima.

Le ultime opere

Durante la prigionia, Wilde compose l’epistola De Profundis (pubblicata postuma nel 1905), amara confessione delle sue colpe passate. La ballata del carcere di Reading (1898) fu scritta dopo il rilascio e consegnata alle stampe in forma anonima. Considerata il suo capolavoro poetico, essa descrive con lingua magnificamente cadenzata la crudezza della vita dei reclusi e la loro disperazione. Per molti anni ancora dopo la morte, la figura di Oscar Wilde dovette portare il marchio infamante impostole dal puritanesimo vittoriano.

Curiosità

Oscar Wilde fu anche scrittore di fiabe per bambini, raccolte nei volumi Il principe felice e La casa dei melograni.

Cronologia opere

 

1878 Ravenna Poema
1880 Vera o i nichilisti Dramma romantico; rappresentato per la prima volta nel 1883
1881 Poesie Raccolta di poesie
1883 La duchessa di Padova Dramma romantico; rappresentato per la prima volta nel 1893
1888 Il principe felice e altre fiabe Raccolta di fiabe
1889 La decadenza della menzogna Saggio
1891 La casa dei melograni
L’anima dell’uomo sotto il socialismo
Il delitto di Lord Arthur Savile e altri racconti
Il ritratto di Dorian Gray
Intenzioni
Raccolta di fiabe
Saggio politico

Racconti

Romanzo
Raccolta di saggi

1892 Il ventaglio di Lady Windermere Commedia
1893 Una donna senza importanza Commedia
1894 Salomé Dramma; rappresentato per la prima volta nel 1896
1895 Un marito ideale
L’importanza di chiamarsi Ernesto
Commedia
Commedia
1898 La ballata del carcere di Reading Poema
1905 De Profundis Epistola; pubblicata postuma e solo in parte, pubblicata in versione integrale nel 1949

Leggiamo alcuni versi…

 

Ballata del carcere di Reading

Narratore, poeta, commediografo, Oscar Wilde sostenne il principio dell’indipendenza dell’arte da ogni scopo estraneo all’arte stessa. I versi qui riprodotti sono tratti dalla Ballata del carcere di Reading (1898), poema dell’amarezza e del rimpianto, ispirato dall’esperienza della prigionia.

 

E il lancinante rimorso e i sudori di sangue,

nessuno li conobbe al pari di me:

perché colui che vive più di una vita

deve morire anche più d’una morte.

Approfondimenti

 

Decadentismo

Corrente letteraria europea che ebbe origine in Francia e si sviluppò in Europa tra gli anni Ottanta dell’Ottocento e il primo decennio del Novecento. Trova un corrispettivo nella corrente artistico-architettonica che prese nomi diversi a seconda del paese in cui fiorì: Liberty in Italia, Art Nouveau in Francia, Jugendstil in Germania. Il termine ‘decadentismo’ nacque con l’accezione negativa di ‘decadenza’, sentita come il declino non soltanto letterario di un’intera civiltà, e ancora prima di diventare il titolo di una rivista letteraria francese (‘Le Décadent’, fondata nel 1886) era stato utilizzato dalla critica per definire l’opera di quegli scrittori che manifestavano un’insubordinazione al gusto e alla morale della borghesia, divenuta classe egemone e garante dello statu quo dopo l’esaurirsi della spinta rivoluzionaria del 1848. Due opere, in particolare, avevano suscitato grande scandalo in Francia a metà Ottocento: I fiori del male di Charles Baudelaire e Madame Bovary di Gustave Flaubert, entrambe del 1857.

Le radici filosofiche del decadentismo

Nato in un’epoca di spinte materiali e intellettuali contraddittorie, che vide rinnovamento del sistema produttivo e stagnazione economica, repressione delle masse popolari e attenzione per la questione sociale, il decadentismo ha radici filosofiche nelle correnti irrazionalistiche che, alla fine dell’Ottocento, convivevano con il razionalismo positivistico dal quale era nata la letteratura naturalistica (la raccolta collettiva Le serate di Médan fu pubblicata nel 1880). Due i grandi nomi della riflessione sulla componente irrazionale dell’agire umano: Henri Bergson, che conferì nuovo valore all’intuizione e concepì il tempo non come unità di misura dello scorrere dei fatti ma come dimensione soggettiva e psichica; e Friedrich Nietzsche, che nella Nascita della tragedia (1871) diede risalto e visibilità alla dimensione ‘dionisiaca’ (in opposizione a quella ‘apollinea’) dell’uomo, cioè a quanto vi è di cieco, irrazionale, animale nel comportamento umano.

Il culto della bellezza

In netto contrasto con i processi di democratizzazione contemporanei sostenuti dai socialisti (e in Italia, in ambito letterario, con le posizioni democratiche degli scapigliati milanesi, che pure partivano dallo stesso spirito antiborghese), il decadentismo ha aspirazioni aristocratiche, che si esprimono nel gusto estetizzante. Sul piano artistico l’estetismo si traduce nella ricerca di raffinatezza esasperata ed estenuata, non di rado con incursioni nel mondo antico o in paesi lontani per attingervi la bellezza che manca nel mondo circostante. D’altra parte l’idea della superiorità assoluta dell’esperienza estetica induce l’artista a tentare di trasformare la vita stessa in opera d’arte, dedicandosi al culto della bellezza in assoluta libertà materiale e spirituale, in polemica contrapposizione con la volgarità del mondo borghese.

C’è un libro che si può considerare il manifesto del decadentismo: Controcorrente (1884) di Joris-Karl Huysmans. Il romanzo racconta lo squisito stile di vita del protagonista, Des Esseintes, un sofisticato e perfezionista intenditore d’arte che vive in campagna isolato dal mondo. In Inghilterra Oscar Wilde costruì un personaggio altrettanto individualista nel Ritratto di Dorian Gray (1891), dove un cultore delle apparenze, innamorato della propria eccezionale bellezza, tenta di conservare per sempre la gioventù. L’elemento estetizzante è fondamentale anche nei Ritratti immaginari (1887) di Walter Pater.

In ambito poetico, il movimento trova dei precursori nei parnassiani, fautori in Francia di un classicismo estetizzante e di un’arte fine a se stessa, ed ebbe alcuni maestri riconosciuti: oltre a Baudelaire, Stéphane Mallarmé, teorico di una poesia simbolista pura e astratta, ‘perfetta’; Paul Verlaine, che nel 1873 rivendicò in un sonetto il fatto di essere egli stesso ‘l’Impero alla fine della decadenza’; e Arthur Rimbaud, incarnazione del ‘poeta maledetto’, che tradusse nelle sue forme più estreme l’opposizione alla società circostante.

Fonte: Encarta

Arte, letteratura, cinema e fotografia

Letteratura e gastronomia

pizz

Stavolta parliamo sì di letteratura ma anche di gastronomia. Sebbene quest’ultima sia sempre stata presente in romanzi e racconti, ho osservato nell’ultimo periodo un incremento esponenziale dell’attenzione generale in questo senso. Sono sempre più i blog che ne parlano, analizzando gli elementi gastronomici nei libri e intervistando gli autori che hanno perlomeno sfiorato l’argomento culinario nei loro scritti.

Vista la grande varietà di sentimenti e situazioni che spesso troviamo descritti nei libri, sono convinta che le tradizioni culinarie siano allo stesso modo importanti. Forse la cosa è più valida per alcuni generi di romanzi e molto meno in altri.

Analizziamo quest’ultimo pensiero più da vicino. Uno dei generi di romanzi in cui secondo me è quasi “necessario” parlare di gastronomia è lo storico. Perché? Be’, perché in un romanzo storico, indipendentemente dalla trama, si parlerà certo di una società e un luogo specifico, nonché delle tradizioni e dei modi di vivere. Leggere di ciò che cucina il protagonista, senza ovviamente la freddezza di un manuale di cucina, non può far altro che aggiungere realismo alla storia. Per non parlare del valore “patriottico”, in special modo della nostra bella Italia e della sua rinomata dieta mediterranea. Diverso è il discorso per generi letterari quali ad esempio l’horror. Del resto poco potrebbe importare al lettore come il protagonista prepara un buon sughetto per la cena se il killer sta uscendo dall’armadio, no?

E voi cosa ne pensate? Vi piace trovare di tanto in tanto in una lettura una ricetta? Quale genere secondo voi non si sposa affatto con questo tipo di dettagli?

Nel frattempo vi lascio il link all’intervista “culinaria” su Tregua nell’ambra per scoprire quale piatto tipico vi consiglia la protagonistahttp://thelunchgirls.blogspot.de/2013/04/ilaria-goffredo-tregua-ambra-romanzo.html

Cime tempestose

Salve amici, eccoci qui con una nuova recensione. Vi parlo di un libro che ho appena terminato di leggere.

CIME TEMPESTOSE – Emily Brontë

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Il mio amore per Heathcliff è simile alle rocce eterne ai piedi degli alberi; fonti di poca gioia visibile ma necessarie. Io sono Heathcliff; lui è sempre nella mia mente, non come un piacere, così come io non sono sempre un piacere per me, ma come il mio stesso essere.

Heathcliff è uno zingaro trovato dal signor Earnshaw durante un viaggio; questi lo accoglie in casa sua dove il bambino si trova a combattere le prevaricazioni di Hindley – figlio maggiore di Earnshaw – , mitigate dall’affetto di Cathy, sua sorella.

I caratteri di Heathcliff e Cathy sono somiglianti; entrambi paiono freddi e distaccati con tutti, egoisti; in verità con il passare degli anni si rendono conto di essere indispensabili l’uno per l’altra. Alla morte di Earnshaw, Hindley degrada Heathcliff a garzone di stalla, cosa che lo porta ad allontanarsi da Cathy. Questa difatti ama il benessere; ragion per cui cede presto alle avance del ricco Edgar Linton. Heathcliff, frustrato dal fatto di non essere in grado di offrire a Cathy ciò che desidera, parte in cerca di fortuna, diventando ricco. Al ritorno però scopre che Cathy ed Edgar sono convolati a nozze. Seguiranno vendette e dissapori, menzogne e tradimenti, brevi istanti di passione e una morte che non ha pietà per nessuno.

In verità avevo sempre sentito parlare dei protagonisti di questo romanzo come personaggi non “buoni” come quasi sempre è per i protagonisti di un romanzo sentimentale; questa la ragione per cui non mi ero ancora decisa a leggerlo. Tuttavia devo dire che, nonostante Heathcliff e Cathy vantino davvero caratteristiche discutibili, la narrazione dell’autrice le fa apparire come accettabili, di importanza minore rispetto all’amore che provano l’uno per l’altra. La storia mi è piaciuta molto e meriterebbe pure un 10 se non fosse che la scrittura alle volte è pesante, persino tediosa in certi tratti. Forse questo è l’unico difetto giacché Emily Brontë possiede rare abilità nell’intrecciare vicende e personaggi; geniale il modo di narrare dal punto di vista della governante – sempre presente nelle scene importanti – che, dopo anni, racconta la storia al nuovo affittuario di Heathcliff.

In Italia il romanzo è stato tradotto per la prima volta nel 1926 con il titolo de “La tempestosa”, titolo molto azzeccato dato il carattere “tempestoso”, irascibile, infantile, a volte isterico di Cathy. Leggendo questa opera, una serie di finezze nascoste tra le righe danno quasi l’impressione di essere a teatro e assistere in prima persona ad uno spettacolo. Il ché potrebbe essere sia un pregio che un difetto, a seconda delle preferenze personali e di come ci si ponga nei confronti della voce narrante.

Il romanzo oscilla tra gli elementi eroici del romanticismo, come la passione folle, ad elementi gotici, come la presenza di spettri e un pizzico di paranormale. L’amore è una contraddizione continua, narrato come un sentimento feroce, prepotente, crudo, proprio come il personaggio di Heathcliff. A fargli da contro altare c’è Cathy, che pare dominarlo, anche dopo la morte.

Un romanzo di spessore, accettabile ai giorni nostri ma che fece scalpore all’epoca della scrittrice.

Da “Cime tempestose” sono stati tratti numerosi film, alcuni dei quali molti recenti. Io ho visto quello del 1939. Tralasciando la qualità di immagini e audio, l’adattamento mi è parso gradevole, emozionante, con il sapore antico dei film d’epoca adattissimo in questo caso, anche se il personaggio di Cathy nel film risulta un po’ piatto. Del resto credo sia difficile riuscire a dar vita ad una donna che, sotto lo strato di civilizzazione, è assolutamente indomita e selvaggia.

Valutazione:

5

Il mio romanzo in finale

Amici… che gioia immensa! Il mio romanzo TREGUA NELL’AMBRA è tra i finalisti del concorso nazionale ilmioesordio feltrinelli 😀
http://temi.repubblica.it/ilmiolibro-holden/ilmioesordio-romanzo-lista-finalisti/

Quali dovrebbero essere secondo voi i compiti di uno scrittore?

Mi spiego meglio.

Uno scrittore scrive storie che piacciono ai suoi lettori, giusto? Preferibilmente capaci di emozionare e lasciare un segno. Io vi chiedo dunque: oltre questo dovrebbe anche lanciare dei messaggi tra le righe, proprio attraverso il potente mezzo che ha tra le mani? Oppure, dovrebbe tramandare la memoria del passato? O far emergere nuove idee e speranze per il futuro? Cosa ne pensate?