Nobel italiani per la letteratura: Dario Fo

Sesto appuntamento con la rubrica Nobel italiani per la letteratura. Per il momento sarà anche l’ultimo, finché non verrà assegnato un nobel per la letteratura a un altro italiano, cosa che per quest’anno passa vista la vincitrice canadese Alice Munro. Oggi parliamo di Dario Fo che, nella lista dei sei nobel italiani per la letteratura, è un autore di teatro come Pirandello.

Dato che esistono oratori balbuzienti, umoristi tristi, parrucchieri calvi, potrebbero anche esistere politici onesti.

Dario Fo

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Dario Fo (Sangiano, Varese 1926) è un attore, regista e autore drammatico italiano, famoso per i suoi spettacoli di satira politica e sociale. Compiuti gli studi all’Accademia di Brera di Milano, dal 1950 iniziò a recitare e a scrivere testi satirici per la radio e la televisione; trasferitosi a Roma, dal 1955 al 1958 lavorò come soggettista.

Con la moglie Franca Rame fondò poi un proprio gruppo teatrale, la Compagnia Dario Fo – Franca Rame (1959-1968): i brevi pezzi pungenti preparati dalla coppia per il programma televisivo di varietà Canzonissima vennero censurati così spesso che i due attori e drammaturghi nel 1963 lasciarono la RAI e ripresero a recitare in teatro. Nel 1968 costituirono il gruppo Nuova Scena, che si esibiva a prezzo politico e in luoghi volutamente alternativi rispetto alle sedi ufficiali, propugnando il ritorno del teatro alle origini popolari e rivalutandone la funzione sociale.

Riscosse molto successo Mistero buffo (1969), in cui Fo, unico attore, presentava un insieme di elaborazioni fantasiose di antichi testi, in un estroso impasto linguistico. Negli anni Settanta, schieratosi al fianco delle organizzazioni extraparlamentari, diede vita al collettivo La Comune che, tra le altre attività, s’impose per l’appassionato tentativo di dare nuova linfa al teatro di strada. Tra le più efficaci trovate di Fo si colloca l’uso del ‘grammelot’: un tipo di linguaggio teatrale in cui l’attore non pronuncia parole reali, ma emette suoni che imitano, nell’intonazione e nel ritmo, un idioma esistente (francese, inglese) e il padano, dialetto inesistente, compendio di tutti i dialetti di una Val Padana viva nell’immaginario popolare.

Ideate e interpretate spesso insieme alla moglie Franca Rame, le farse di Fo sono sempre state tanto invise all’autorità ecclesiastica e dissacranti nei confronti della morale borghese, quanto ricche di valori sociali e politici. In particolare, si ricordano Gli arcangeli non giocano a flipper (1959); Aveva due pistole dagli occhi bianchi e neri (1960); Isabella, tre caravelle e un cacciaballe (1963); Settimo ruba un po’ meno (1964); La signora è da buttare (1967); Morte accidentale di un anarchico (1970) ispirata al caso della misteriosa morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli; Tutti uniti, tutti insieme, ma scusa quello non è il padrone? (1971); Pum pum. Chi è? La polizia (1972); Il Fanfani rapito (1973); Non si paga, non si paga! (1974); Coppia aperta (1983); Johan Padan a la descoverta delle Americhe (1991); Marino libero, Marino è innocente (1998), sulla vicenda giudiziaria di Adriano Sofri, Ovidio Bompressi e Giorgio Pietrostefani, ex militanti di Lotta continua, accusati dal vecchio compagno Leonardo Marino dell’omicidio del commissario di polizia Calabresi (1972), Da Tangentopoli all’inarrestabile ascesa di Ubu-Bas (2002) e L’anomalo bicefalo (2003).

Nel 1997 Fo fu insignito del premio Nobel per la letteratura; nel 2000 gran parte dei suoi testi teatrali è stata raccolta in un unico volume, Dario Fo – Teatro, curato da Franca Rame.

Fonte: Encarta

 

 

Fermare la diffusione del sapere è uno strumento di controllo per il potere perché conoscere è saper leggere, interpretare, verificare di persona e non fidarsi di quello che ti dicono. La conoscenza ti fa dubitare. Soprattutto del potere. Di ogni potere.

Caratteristiche e stile

Le caratteristiche più note, ma certo non le sole, dell’opera di Fo sono l’anticonformismo, l’anticlericalismo e, più in generale, l’esercizio di una forte critica rivolta, attraverso lo strumento della satira, alle istituzioni (politiche, sociali, ecclesiastiche) e alla morale comune. La sua costante opposizione a ogni forma di potere costituito rende Fo non soltanto un artista “scomodo”, ma l’antitesi degli intellettuali organici, tutti presi dal compito di conservare l’egemonia culturale già esistente o di crearne una alternativa. Dario Fo è ateo – cfr. sua dichiarazione in Wikiquote aggiornata al 03 maggio 2013. (da “Dario Fo Il paese dei mezaràt” – Feltrinelli, Milano, 2004).

All’interno della sua vastissima produzione (circa settanta lavori), i personaggi dell’attualità, della storia o del mito sono presentati sempre in un’ottica rovesciata, opposta a quella comune (il gigante Golia è buono e pacifico, mentre Davide è un litigioso rompiscatole, Napoleone e Nelson si comportano come bambini che si fanno reciproci dispetti, ecc.). Già nei primi spettacoli compare, sia pure in embrione, quella satira fatta di smitizzanti ribaltamenti tanto frequente nei successivi lavori di Fo.
Tanto importante quanto la componente critica della satira di Fo è la capacità di costruire e mettere in scena delle perfette macchine per far ridere, sul modello delle farse e dei vaudeville (commedie brillanti) e con rimandi sia al filone popolare dei lazzi della Commedia dell’arte, sia alle gag del circo e del cinema muto. Questo è il tipo di produzione alla quale Fo si è dedicato dal 1957 al 1961. Si tratta di testi che, anche a distanza di anni, mantengono una straordinaria vis comica e che, inoltre, risultano godibilissimi alla lettura.
Fo torna sempre ad usare i meccanismi della farsa, fondendoli con una satira di rara efficacia. Rispetto alle prime commedie, però, col tempo si fanno più accentuati gli intenti satirici nei confronti del potere costituito. Lo spettacolo spesso si articola, secondo lo schema del “teatro nel teatro”, in una struttura a cornice, con una storia esterna che ne contiene un’altra. La commedia si inserisce in un filone demistificatorio, ossia nel tentativo di raccontare fatti e personaggi della storia e dell’attualità secondo un’ottica alternativa (magari totalmente immaginaria), priva di quella retorica e di quegli stereotipi a cui la cultura ufficiale fa ricorso tanto di frequente. Questo è un nodo centrale nella poetica di Dario Fo, come egli stesso dichiara:
« La risata, il divertimento liberatorio sta proprio nello scoprire che il contrario sta in piedi meglio del luogo comune… anzi, è più vero… o almeno, più credibile. » (da Dario Fo parla di Dario Fo, Lerici, 1977)
Un personaggio frequente nel teatro di Fo è quello del Matto a cui è permesso dire le verità scomode (vedi ad esempio Morte accidentale di un anarchico). Spesso il mondo delle commedie di Fo è popolato da personaggi “da sottobosco”, visti però in chiave positiva: ubriachi, prostitute, truffatori carichi di inventiva, matti che ragionano meglio dei sani e simili. Di certo non è estranea alla scelta di questo tipo di personaggi l’influenza degli anni vissuti a Sangiano, il paese natale, che Fo descrive così:
« Paese di contrabbandieri e di pescatori, più o meno di frodo. Due mestieri per i quali, oltre a una buona dose di coraggio, occorre molta, moltissima fantasia. È risaputo che chi usa la fantasia per trasgredire la legge ne preserva sempre una certa quantità per il piacere proprio e degli amici più intimi. »
Forse proprio qui Fo deve avere intuito che, a volte, il vero delinquente non è chi trasgredisce le legge, bensì chi la legge l’ha fatta.
Anche la burocrazia è presa di mira: in Gli arcangeli non giocano a flipper, un personaggio scopre di essere iscritto all’anagrafe come cane bracco. Pur avendo scoperto che l’errore è frutto della vendetta di un impiegato impazzito per una mancata promozione, il protagonista è costretto dalle ferree leggi della burocrazia a comportarsi da vero cane bracco, e solo dopo che, come cane randagio, sarà stato ufficialmente soppresso, potrà tornare uomo e riscuotere i soldi che gli spettano. Qui la burocrazia ha una sua logica chapliniana, per cui non ciò che esiste viene annotato sulle carte, ma ciò che le carte certificano deve esistere.
Questa surreale situazione può essere vista come variazione in chiave vaudeville, de Il fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello. Non è chiaro se la parodia sia voluta o meno, ma certo è che, dopo le accuse di eccessivo cerebralismo che Fo ha sempre mosso a Pirandello, non è da escludere una deliberata volontà parodistica. Il rapporto tra Fo autore e Fo attore può essere riassunto da ciò che egli stesso scrive in un articolo nel 1962: “Gli autori negano che io sia un autore. Gli attori negano che io sia un attore. Gli autori dicono: tu sei un attore che fa l’autore. Gli attori dicono: tu sei un autore che fa l’attore. Nessuno mi vuole nella sua categoria. Mi tollerano solo gli scenografi”.
Se c’è un testo che però non può prescindere dalla presenza scenica di Fo, questo è “Mistero buffo” (1969), lungo monologo in grammelot che imita il dialetto padano, che offre una versione smitizzata di episodi storici e religiosi, coerente con l’idea che “il comico al dogma fa pernacchi, anzi ci gioca, con la stessa incoscienza con cui il clown gioca con la bomba innescata”. Una delle idee guida dello spettacolo è che la cultura alta abbia sempre rubato a mani basse elementi della cultura popolare, rielaborandoli e spacciandoli per propri (sul rapporto tra Fo e la cultura popolare, si veda Antonio Scuderi, Dario Fo and Popular Performance, Legas 1998 e, dello stesso autore, Le cuit et le cru: il simbolismo zoomorfico nelle giullarate di Dario Fo, nel volume Coppia d’arte citato nella bibliografia conclusiva).
Figura centrale di tutto lo spettacolo è quella del giullare, in cui Fo si identifica, rifacendosi alle origini dì questa figura come quella di colui che incarnava e ritrasmetteva in chiave grottesca le rabbie del popolo. Negli anni sessanta e settanta nella società italiana personaggi come Dario Fo e Leonardo Sciascia esplicavano, tramite l’analisi dialettica della situazione politica e socio-culturale e, soprattutto, del linguaggio eufemistico e accomodante di cui si avvale tuttora la classe politica, per mostrare il marciume, le fallacie logiche, le segrete connivenze fra le classi dominanti e i favoreggiamenti che si celano sotto il perbenismo politico.
Commedie come Morte accidentale di un anarchico (questa pièce sul decesso dell’anarchico Pinelli durante un interrogatorio in seguito alla strage di piazza Fontana a Milano (12 dicembre 1969) è, insieme con la giullarata Mistero buffo, il capolavoro di Fo) non sono altro che il coerente accorpamento di tutti i dati e di tutte le comunicazioni ufficiali, sempre contrastanti e sconcertanti, se raccolti sistematicamente, e segno dell’arroganza del potere. Gli interventi di Fo sull’argomento sono tipici della Commedia dell’arte e della tradizione comica italiana così come della più feroce satira politica tedesca: la forma rende il testo umoristico e nel contempo mette a nudo i soprusi del potere e la crudeltà inarrestabile della burocrazia, la fabula vera e propria invece è desunta dalla realtà.
Il procedimento usato in questi casi è quello, già visto anche in altri autori, di portare alle estreme conseguenze l’affermazione dell’avversario fino a farla cadere. Qui tale tecnica è arricchita dal fatto che colui che la usa finge di stare dalla stessa parte di chi vuol sbugiardare. Gli elementi farseschi dovuti alla girandola di situazioni create dai continui cambi di identità del protagonista, servono a mantenere lo spettacolo, pur di argomento così drammatico, su quel registro comico, essenziale per Fo, al fine di evitare il rischio della catarsi e dell’indignazione (come in Pirandello).
Fo attualizza la tecnica e la figura del giullare come reincarnazione delle voci eretiche del passato, con una funzione fortemente polemica nel presente; sincronizza passato e presente realizzando un effetto straniante, usando il grottesco e la logica e, senza confondere i piani temporali, insinua nel presente un frammento di passato che ha una valenza negli avvenimenti politici contemporanei.
In un altro contesto l’opera di Fo può essere ricondotta a Pirandello, infatti i suoi personaggi si confrontano con una società snaturante e con una crisi esistenziale che li spinge a lottare per affermare le proprie ragioni e per smascherare le false verità imposte dall’alto. Nel novembre 2009, dopo la sentenza di Strasburgo che stabilì la rimozione dei crocefissi dalle aule scolastiche, Dario Fo si schierò a favore della Corte Europea paragonando il Cristo in croce alla svastica e alla falce e martello, ovvero a simboli ideologici da rimuovere dalla società.

La satira è un’espressione che è nata in conseguenza di pressioni, di dolore, di prevaricazione, cioè è un momento di rifiuto di certe regole, di certi atteggiamenti: liberatorio in quanto distrugge la possibilità di certi canoni che intruppano la gente.

 

La controversia sulla militanza nella Repubblica Sociale Italiana

Nel 1975, Giancarlo Vigorelli sul quotidiano Il Giorno scrisse: «Anche Fo sa di avere in pancia l’incubo dei suoi trascorsi fascisti». Fo querelò il giornalista e il quotidiano per diffamazione, e la vicenda si concluse con la pubblicazione di una rettifica. Ma il senatore Giorgio Pisanò del Movimento Sociale Italiano, storico e direttore del “Candido”, documentò il trascorso repubblichino di Dario Fo, volontario nei parà e sottufficiale delle Brigate Nere, che si distinse per i rastrellamenti casa per casa nei centri vicini al Lago di Como.
Nello stesso anno il deputato democristiano Michele Zolla presentò invano un’interrogazione al Ministro della Difesa per sapere se rispondesse a verità questo fatto. Nel 1977 Fo accusò Luigi Calabresi (da lui ribattezzato “commissario Cavalcioni”), di avere gettato dalla finestra della questura di Milano l’anarchico Pino Pinelli il giorno dopo della Strage di Piazza Fontana. In seguito attaccò il PM genovese Mario Sossi per aver fatto arrestare l’ex-comandante partigiano Giambattista Lazagna. Nello stesso anno Fo querelò per diffamazione Gianni Cerutti per aver pubblicato su II Nord un articolo che lo attaccava con parole pesanti: «A Fo non conviene ritornare a Romagnano Sesia dove qualcuno lo potrebbe riconoscere: rastrellatore, repubblichino, intruppato nel battaglione Mazzarini della Guardia Nazionale della Repubblica di Salò».
Fo risponde querelando Cerutti. Il processo di svolse a Varese dove veniva stampato Il Nord: alla prima udienza, nel febbraio 1978, Fo fu messo dinanzi ad una foto che lo vedeva con la divisa della Rsi, e si giustificò raccontando che all’età di 18 anni, nel 1944, collaborava con il padre, esponente della Resistenza nel Varesotto. Preso tre volte dai tedeschi, e sempre scappato, si era arruolato volontario nei paracadutisti di Tradate, ma lo aveva fatto per non destare sospetti, anzi d’accordo con i partigiani amici del padre. Il suo sogno era sempre stato quello di unirsi alla formazione militare Lazzarini, la banda partigiana terrore dei nazifascisti sulla riva orientale del Lago Maggiore. Nel frattempo a marzo il giornalista Luciano Garibaldi sul settimanale Gente pubblicò la foto di Dario Fo in divisa da parà repubblichino con le testimonianze di una decina di ex-camerati di Tradate tra cui Carlo Maria Milani secondo il quale Fo partecipò, con il compito di portare bombe, al rastrellamento della Val Cannobina per la riconquista dell’Ossola.
Nello stesso articolo è presente l’intervista dell’ex comandante partigiano Giacinto Lazzarini: «Le dichiarazioni di Dario Fo destano in me non poca meraviglia. Dice che la casa di suo padre era a Porto Valtravaglia, era un “centro” di resistenza. Strano. Avrei dovuto per lo meno saperlo. Poi dice che “era d’accordo con Albertoli” per raggiungere la mia formazione. Io avevo in formazione due Albertoli, due cugini, Giampiero e Giacomo. Caddero entrambi eroicamente alla Gera di Voldomino, e alla loro memoria è stata concessa la medaglia di bronzo al valor militare. Forse Fo potrà spiegare come faceva ad essere d’accordo con uno dei due Albertoli di lasciare Tradate nel gennaio 1945, quando erano entrambi caduti quattro mesi prima. Senza dire, poi, che i cugini Albertoli erano tra i più vicini a me e mai nessuno dei due mi parlò di un Dario Fo che nutriva l’intento di unirsi alla nostra formazione [..] Se Dario Fo si arruolò nei paracadutisti repubblichini per consiglio di un capo partigiano, perché non lo ha detto subito, all’indomani della Liberazione? Sarebbe stato un titolo d’onore, per lui. Perché mai tenere celato per tanti anni un episodio che va a suo merito?».
Subito dopo in un’intervista a La Repubblica Fo dichiarò: «Io repubblichino? Non l’ho mai negato. Sono nato nel ’26. Nel ’43 avevo 17 anni. Fino a quando ho potuto ho fatto il renitente. Poi è arrivato il bando di morte. O mi presentavo o fuggivo in Svizzera. Mi sono arruolato volontario per non destare sospetti sull’attività antifascista di mio padre, quindi d’accordo con i partigiani amici di mio padre». Le dichiarazioni di Milani e Lazzarini provocarono grande scalpore, tant’è che testimoniarono durante il processo di Varese contro Fo il quale, dopo un acceso confronto, li denunciò per falsa testimonianza. La querela al comandante partigiano Giacinto Lazzarini provocò non poco stupore, poiché ne la biografia “La storia di Dario Fo”, di Chiara Valentini, si legge che «il leggendario comandante Lazzarini fu l’idolo della mia vita».
Il processo di Varese durò un anno e si concluse, dopo oltre dieci udienze, il 15 febbraio 1979 con una sentenza che assolve per intervenuta amnistia il direttore de II Nord. Nel 1979 nella sentenza fu scritto: «È certo che Fo ha vestito la divisa del paracadutista repubblichino nelle file del Battaglione Azzurro di Tradate. Lo ha riconosciuto lui stesso – e non poteva non farlo, trattandosi di circostanza confortata da numerosi riscontri probatori documentali e testimoniali – anche se ha cercato di edulcorare il suo arruolamento volontario sostenendo di avere svolto la parte dell’infiltrato pronto al doppio gioco. Ma le sue riserve mentali lasciano il tempo che trovano. […] lo rende in certo qual modo moralmente corresponsabile di tutte le attività e di ogni scelta operata da quella scuola nella quale egli, per libera elezione, aveva deciso di entrare. È legittima dunque per Dario Fo non solo la definizione di repubblichino, ma anche quella di rastrellatore».
Milani fu assolto dall’accusa di falsa testimonianza con sentenza definitiva nel 1980 perché «il fatto non sussiste». La sentenza non fu appellata e così passò in giudicato. Fo dichiarerà poi nel 2000 al Corriere della Sera: «Aderii alla Rsi per ragioni più pratiche: cercare di imboscarmi, portare a casa la pelle. Ho scelto l’artiglieria contraerea di Varese perché tanto non aveva cannoni ed era facile prevedere che gli arruolati sarebbero presto stati rimandati a casa. Quando capii che invece rischiavo di essere spedito in Germania a sostituire gli artiglieri tedeschi massacrati dalle bombe, trovai un’altra scappatoia. Mi arruolai nella scuola paracadutisti di Tradate. Poi tornai nelle mie valli, cercai di unirmi a qualche gruppo di partigiani, ma non ne era rimasto nessuno».
Nel 2004 Oriana Fallaci ritornerà sulla questione, attraverso numerose interviste e in particolare scrivendo ne La Forza della Ragione: «Fui esposta al pubblico oltraggio. Istigato, questo, da un vecchio giullare [Dario Fo] della repubblica di Salò. Cioè da un fascista rosso che prima d’essere fascista rosso era stato fascista nero quindi alleato dei nazisti che nel 1934, a Berlino, bruciavano libri degli avversari». Nel 2007 viene pubblicata l’autobiografia “Il mondo secondo Fo. Conversazione con Giuseppina Manin” edita Guanda. Nel libro viene riaperta la questione, Dario Fo «ha fatto parte della Repubblica di Salò», osserva l’intervistatrice Giuseppina Manin, coautrice del libro. Dario Fo non si sottrae, e risponde che quella «parentesi» lui non l’ha «mai negata».
Ammette di essersi arruolato «per salvare la pelle». E fa notare la differenza con un altro premio Nobel, Gunter Grass, che la sua militanza nelle Waffen-SS l’ha tenuta nascosta fino al 2006. «Quello che più mi ha colpito della sua vicenda è il fatto di aver tenuto quel segreto dentro per tutto il tempo. Grass ha convissuto con la sua colpa per oltre sessant’anni». Nel 2007 Ercolina Milanesi, giornalista, collaboratrice e free-lance su diversi quotidiani nazionali, ha scritto che nel 1944-1945 era sfollata a Cittiglio (VA), ha raccontato che conosceva bene Dario Fo e ha ricordato che «Un giorno si presentò tronfio come un gallo per la divisa che portava e ci tacciò di pavidi per non esserci arruolati come lui».

Fonte: Wikipedia

 

 

Mio padre, prima dell’arrivo del nazismo, aveva capito che buttava male; perché, spiegava, quando un popolo non sa più ridere diventa pericoloso.

Nobel italiani per la Letteratura: Pirandello

Eccoci al terzo appuntamento della rubrica Nobel italiani per la Letteratura: parliamo di Luigi Pirandello, vincitore del premio nel 1934.

La fantasia abbellisce gli oggetti cingendoli e quasi irraggiandoli d’immagini care. Nell’oggetto amiamo quel che vi mettiamo di noi.

Luigi Pirandello

 

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Luigi Pirandello (Girgenti, oggi Agrigento 1867 – Roma 1936), scrittore italiano, uno dei massimi drammaturghi del Novecento. Anche se la sua fortuna critica è sempre stata molto controversa (soprattutto in Italia), Pirandello è uno dei pochi scrittori italiani del XX secolo che abbia saputo conquistarsi una fama internazionale: non tanto per il premio Nobel (1934), quanto grazie allo straordinario numero di compagnie che ne mettono in scena i drammi in molti paesi del mondo.

 

Le prime opere e i romanzi

 

Luigi Pirandello nel 1892.

Luigi Pirandello nel 1892.

Dopo aver esordito come poeta con Mal giocondo (1889), conseguì la laurea in filologia romanza all’Università di Bonn. In seguito si dedicò all’insegnamento della letteratura italiana, pubblicando nel 1894 le prime novelle, Amori senza amore. Nello stesso anno sposò Antonietta Portulano, che gli avrebbe dato tre figli. Nel 1901 pubblicò il suo primo romanzo, L’esclusa, che segna il passaggio dal modello narrativo verista allo stile ‘umoristico’, cioè a una caratteristica mescolanza di tragico e comico, che da quel momento avrebbe caratterizzato la produzione pirandelliana.

Maria Antonietta Portolano.

Maria Antonietta Portulano.

Nel 1903 lo scrittore si trovò improvvisamente in rovina e con la moglie in preda alla pazzia; risale a quest’epoca la stesura della sua migliore opera narrativa, il romanzo Il fu Mattia Pascal (1904). A questo seguirono altri romanzi, tra i quali spiccano I vecchi e i giovani (1913) e Uno, nessuno e centomila (1925-1926), che rappresenta per molti aspetti una specie di consuntivo ideologico finale.

Di ciò che posso essere io per me, non solo non potete saper nulla voi, ma nulla neppure io stesso.

Il teatro e le novelle

 

Soltanto intorno al 1910 Pirandello si decise ad affrontare anche le scene, pur avendo scritto fin dall’adolescenza testi teatrali. Dopo aver ottenuto un buon successo con Pensaci, Giacomino! e Liolà (entrambi del 1916), egli precisò i nuclei fondamentali della propria ispirazione con Così è (se vi pare) (1917) e Il giuoco delle parti (1918). L’anno decisivo per la notorietà pirandelliana fu tuttavia il 1921, quando, per la sua audacia sperimentale, il dramma Sei personaggi in cerca d’autore prima venne fischiato a Roma e poco dopo ottenne a Milano un clamoroso successo, che proseguì subito dopo in America e che continua tuttora. A questo seguì il successo della tragedia Enrico IV (1922), che consacrò definitivamente Pirandello fra i massimi drammaturghi mondiali.

Fra le numerosissime opere teatrali dello scrittore agrigentino è necessario ricordare la trilogia del ‘teatro nel teatro’, composta, oltre che da Sei personaggi in cerca d’autore, da Ciascuno a suo modo (1924) e da Questa sera si recita a soggetto (1930). La produzione novellistica pirandelliana, nucleo generatore dei suoi drammi, è raccolta nelle Novelle per un anno (1922-1937).

Luigi Pirandello con la famiglia.

Luigi Pirandello con la famiglia.

 

 

 

 

La tragedia borghese

 

Pirandello è probabilmente l’autore che meglio rappresenta il periodo che va dalla crisi successiva all’unità d’Italia all’avvento del fascismo. Pochi come lui ebbero coscienza dello scacco subito dagli ideali del Risorgimento e dei complessi cambiamenti in atto nella società italiana. Sul piano letterario il suo punto di partenza fu, come per gran parte degli autori nati nella seconda metà dell’Ottocento, il naturalismo. Fin dal primo momento però l’oggetto privilegiato, o pressoché esclusivo, delle rappresentazioni pirandelliane non fu il mondo popolare bensì la condizione della piccola borghesia. Da questa prospettiva lo scrittore seppe sviluppare una corrosiva critica di costume, cogliendo in profondità la crisi delle strutture tradizionali della famiglia patriarcale. Poiché però anch’egli apparteneva alla piccola borghesia, finì per assolutizzarne i dubbi e le sofferenze, che rappresentò come il segno di una condizione eterna di tutti gli esseri umani.

Firma di Luigi Pirandello.

Firma di Luigi Pirandello.

D’altro canto, fu proprio la direzione esistenziale e metafisica assunta dalla sua ricerca a portarlo molto vicino alle posizioni di alcuni dei più grandi scrittori europei del XX secolo. Paragonato, volta a volta, a Kafka o a Camus, a Sartre o ai drammaturghi del teatro dell’assurdo (Beckett, Ionesco), Pirandello è stato uno dei pochissimi scrittori italiani del Novecento capaci di raggiungere una fama mondiale: ancora oggi i suoi drammi sono, dopo quelli di Shakespeare, i più rappresentati in tutto il mondo.

Mangia il Governo, mangia la Provincia; mangia il Comune e il capo e il sottocapo e il direttore e l’ingegnere e il sorvegliante… Che può avanzare per chi sta sotto terra e sotto di tutti e deve portar tutti sulle spalle e resta schiacciato?

Il mondo dell’apparenza

 

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Al centro della poetica pirandelliana, delineata nel saggio l’Umorismo (1908), sta il contrasto tra apparenza e sostanza. La critica delle illusioni va di pari passo con una drastica sfiducia nella possibilità di conoscere la realtà: qualsiasi rappresentazione del mondo si rivela inadeguata all’inattingibile verità della vita, percepita come un flusso continuo, caotico e inarrestabile. In un mondo dominato dal caso e privo di senso, Pirandello conferisce alla letteratura il compito paradossale di mostrare l’inadeguatezza degli strumenti logico-linguistici di interpretazione della realtà. L’arte, espressione del dubbio sistematico, diventa così coscienza critica, dovere morale dello scrittore contro le mistificazioni e i falsi miti costruiti dagli scrittori del decadentismo, a cominciare da Gabriele d’Annunzio.

L’umorismo è un fenomeno di sdoppiamento nell’atto della concezione; è come un’erma bifronte, che ride per una faccia del pianto della faccia opposta.

Curiosità

 

  • A Luigi Pirandello è stato dedicato l’asteroide 12369 Pirandello. Si tratta di un asteroide della fascia principale. Scoperto nel 1994, presenta un’orbita caratterizzata da un semiasse maggiore pari a 2,2928839 UA e da un’eccentricità di 0,0883439, inclinata di 4,96336° rispetto all’eclittica.

  • Luigi Pirandello frequentò Arsoli per molti anni soprattutto durante i periodi estivi dove amava dissetarsi con una gassosa nell’allora bar Altieri in piazza Valeria. Il suo amore per il paese si ritrova nella definizione che egli stesso diede ad Arsoli chiamandola La piccola Parigi.

Approfondimenti

 

Leonardo Sciascia parla di Luigi Pirandello.

Nel seguente brano, che riproduce il discorso commemorativo da lui pronunciato a Palermo nel 1986 per il cinquantenario della morte di Luigi Pirandello, Leonardo Sciascia individua tre punti da cui partire per una lettura critica corretta dell’opera del grande drammaturgo e narratore suo conterraneo: la Sicilia, ossia la cultura e la tradizione da cui Pirandello prese le mosse; la religione dello scrivere invece di vivere – Pirandello diceva “la vita o la si vive o la si scrive” – e il rapporto dello scrittore con la cultura francese, in particolare con Montaigne e Pascal, che fu più importante di quello, generalmente riconosciuto, con la cultura tedesca.

Tre scrittori hanno attraversato questo secolo dando nome – il loro nome – alle nostre inquietudini, ai nostri smarrimenti, alle nostre paure e al tempo stesso, per quella catarsi o misura di contemplazione che è nelle rivelazioni dell’arte, permettendoci di viverle con temperata ansietà e disperazione: e uso questa parola – temperata – nel senso musicologico dell’accordare, dell’accordarsi, dell’accordarci; e del farsi ogni nota più pura, più cristallina, più vibrante. E sono, questi tre scrittori, Pirandello, Kafka, Borges.
In quanto al quarto cui certamente alcuni di voi stanno pensando, non è stato dimenticato: semplicemente non c’entra. O c’entra, in disparte, in quel che ha di diverso o gli manca, per aiutarci a spiegare l’elezione dei tre che abbiamo nominato: la diversa elezione, il diverso valore.
Diceva Savinio che Proust è scrittore dalla frase lunga e dal pensiero corto: e si può anche pretendere come una battuta nata dall’insofferenza e faziosità che uno scrittore legittimamente sente – e non può non sentire – nei riguardi di certi altri scrittori, e specialmente di quelli più artatamente emergenti e gridati.
Sappiamo bene che si può non badare al “pensiero corto” di Proust, presi dagli incanti della sua “frase lunga”; ma quando Savinio, alla voce Proust della Nuova enciclopedia, ci dà spiegazione della battuta che già avevamo incontrato nei Souvenirs, ecco che ci facciamo più attenti e consenzienti.
Il punto da cui parte l’incrinatura, la linea di separazione – tra Pirandello, Kafka e Borges da un lato, Proust dall’altro – è proprio quello indicato da Savinio: la mente, l’intelligenza, il pensiero: che in Proust si restringono e devolvono ad una sottospecie o sovraspecie in estinzione della società umana non solo, ma della società francese per di più – o per di meno; il che fa della Recherche – con tutta la carica moralistica che le si voglia attribuire – la grande e affascinante cronaca di una particolare e particolareggiata decadenza.
E si capisce che non intendeva Savinio, né noi intendiamo, parlare del pensiero sistematico e, per così dire, tecnico dei filosofi forti o deboli che siano; ma di un pensiero, piuttosto, che crediamo di poter definire con l’epigrafe che Stendhal pone al capitolo tredicesimo di Il rosso e il nero e che non attendibilmente – come quasi sempre capita con Stendhal – attribuisce all’abate di Saint-Réal: “Un romanzo: ecco uno specchio portato lungo una strada”.
E chi conosce Stendhal sa bene quanto questa battuta, che senz’altro possiamo dir sua, sia da collocare a ingente distanza da ogni intenzione o presentimento verista.
La strada come metafora della vita; e lo specchio come metafora della mente. Nulla di più lontano dalle cose come sono – ammesso che le cose siano – di uno specchio: e non per nulla la parola speculare si dirama nel significato che viene da specchio e nel significato che viene dal pensare.
E si noti, incidentalmente, come in questa epigrafe ci sia un vago ma irresistibile richiamo, per noi, alla macchina da presa; e qui ed ora, quasi come ad uno sviluppo del tema, nell’associarsi del romanzo al mezzo cinematografico, al Si gira… di Pirandello, poi intitolato Quaderni di Serafino Gubbio operatore, che tra le sue opere è forse la più ingiustamente trascurata.
Dunque: Pirandello, Kafka, Borges. E come Bertrand Russel diceva che tutta la filosofia occidentale non è che un’annotazione in margine a Platone, con eguale carica di spregiudicatezza, di paradosso, di estremismo, mi pare di poter dire che tutta la letteratura di questo nostro secolo è un rameggiare, uno svolgersi, un respirare (e anche un dibattersi) da questi tre scrittori.
Non c’è altro scrittore in questi nostri anni che, leggendo un suo libro – romanzo, racconti, poesie, testimonianze di vita e d’arte – ad un certo punto, e a più di un punto, non ci costringa a levar gli occhi dalla pagina per farci intenti a cogliere la provenienza e il timbro dell’eco che in quella pagina, appena avvertibile o chiaramente risonante, abbiamo sentito. Ed è l’eco di Pirandello o di Kafka o di Borges – o, in questi ultimi anni, e in certi casi, dell’intramarsi di tutti e tre.
A somiglianza di quelli astronomici, la letteratura e le arti hanno dei sistemi: ma con tutto ciò – si capisce – di cui la fluida presenza del tempo è condizione. Le stelle fisse, i pianeti, i satelliti; e con passaggi di comete e sfrecciare di meteore e meteoriti. E non che in tali sistemi si realizzino, nel volgersi e ruotare di quelli che possiamo dire i corpi minori, mimesi spurie e inautentiche (che pure vi sono, ma molto precariamente ammiccanti): vi si realizza, piuttosto, attraverso particolari intuizioni e riflessioni, in rappresentazioni di più o meno ingente originalità e vigore, il comune sentimento del tempo, dei problemi che la vita, la storia, la società pongono a quel momento e sempre in uno – indissolubilmente – al grande, immenso e quanto l’uomo eterno, problema dell’esistenza, dell’esistere. Il che può anche configurarsi nelle forme che approssimativamente possiamo dire del gioco, come a volte anche a Pirandello accade e a Borges peculiarmente. Ma non inganni il configurarsi in gioco: anche se come su una scacchiera lo scrittore affronta sempre la sua partita col mondo, con la vita, col mistero, con l’assurdo, col dolore.
A questa specie di dispositivo so bene che occorrerebbe una lunga motivazione, suscettibile – so altrettanto bene – di discussione o disapprovazione. Ma io spero che nessuno si aspetti da me – conoscendo o meno quello che finora su Pirandello ho scritto – una disamina ordinata e, come oggi si suole dire, esaustiva dell’opera. Ci vorrebbe altro; e ci vuol altro. Del resto in questo cinquantenario della morte, si sta tanto parlando di Pirandello in quelle sedi che istituzionalmente si ritengono legittimate a parlarne, che è da sperare ne venga fuori una somma finalmente attendibile; ma non priva, questa speranza, della preoccupazione che ne venga anche una saturazione e insofferenza qual quelle che si esprimono nel detto del mettiamoci una pietra sopra – o tutta una grave mora di pietre. A volte le celebrazioni, e particolarmente da noi, inconsapevolmente nascondono il desiderio e l’esortazione a dare pietre a sotterrarli ancora, gli scrittori, gli artisti, gli uomini rappresentativi di cui ufficialmente, alle scadenze temporali, viene conclamata la grandezza sempre in atto, sempre attuale.
Non dunque un discorso esegetico, vuole essere il mio, ma soltanto una breve e quasi assolutamente personale memoria di un soggiorno nell’opera pirandelliana che quasi coincide con quello che lo stesso Pirandello chiamava “l’involontario soggiorno sulla terra”, il mio involontario soggiorno sulla terra. Sui libri di Pirandello io ho passato molte ore della mia vita; e moltissime a ripensarli, a riviverli. Lo scarto tra i suoi libri e la vita è stato per me sempre minimo: e direi quasi soltanto per il fatto che i libri sono materialmente, fisicamente libri. È un paradosso, lo so: e forse nessuna poetica, nessuna estetica, potrebbe accoglierlo; ma è il miglior grado di approssimazione per esprimere quello che sento rispetto a questo mio strettamente conterraneo scrittore.
Tutto quello che ho tentato di dire, tutto quello che ho detto, è stato sempre, per me, anche un discorso su Pirandello: scontrosamente, e magari con un certo rancore, prima; cordialmente e serenamente poi.
C’era dapprima, a darmi volontà di allontanarmene e di essergli ostile, il suo fascismo: negli anni in cui l’antifascismo più urgeva ed era necessario a coloro che, come me, sotto il fascismo avevano passato i primi vent’anni della loro vita; ma c’era, soprattutto, il fatto, che sentivo come una costrizione, come un’imposizione, di non poter vedere la vita – nell’immediatezza del luogo e del tempo in cui la vivevo e nel conseguente dilagare in più vasta e dolorosa meditazione – di non poter vedere la vita altrimenti di come lui la vedeva. Sicché posso dire – come altrove ho già detto – che il mio rapporto con l’opera pirandelliana ha una qualche somiglianza col rapporto col padre: che si sconta dapprima sentendolo come ingiusta e ossessiva autorità e repressione, poi sollevandoci alla ribellione e al rifiuto; e infine liberamente e tranquillamente vagliandolo e accettandolo, più nel riscontro delle somiglianze che in quello, tipicamente adolescenziale, delle diversità.
Ho detto, e ribadisco, dell’immediatezza con cui l’opera di Pirandello, per il luogo ed il tempo in cui mi sono trovato a nascere e a vivere, si dispiegò in tutta la sua verità e profondità e sofferenza. Pirandello è nato più di mezzo secolo prima che io nascessi: ma il modo di essere, la condizione umana, la situazione economica e sociale della provincia di Girgenti non erano allora molto diverse, e si potrebbe anche dire per nulla, di quelle che mi si rivelarono appena in grado di discernerle, di coglierle, di farmene coscienza.
Pirandello ha operato per me una specie di catalizzazione, di precipitazione: la realtà mi si è fatta più reale, la verità più vera. E s’intende che questa parola – verità – altra traduzione ed esplicazione non consente, in Pirandello, che questa: la verità della “trappola”, della “pena di vivere così” – o quella, più umile e grottesca, per cui Tararà, dicendo la sua, si prende una condanna a tredici anni di reclusione, invece dell’assoluzione che avrebbe avuto mentendo.
Da ciò è venuta l’affermazione e investigazione che vado facendo da anni sul Pirandello “siciliano” e cui anche qui, lasciando ora l’autobiografia, voglio approdare. Savinio – ancora Savinio – ha scritto una volta che Pirandello aveva avuto la sfortuna che sulla sua fama si era per lo più pronunciata gente inattendibile. Grandissima la fama, ma per lo meno inattendibili le voci che l’hanno proclamata e il modo. E mi sento in dovere di ripetere il perloppiù di Savinio non dimenticando, e anzi ricordando, le attendibili pagine su Pirandello di Federico Tozzi, di Massimo Bontempelli, di Giacomo Debenedetti, dello stesso Savinio, di Gaspare Giudice, di Georges Piroué, dei due altri critici francesi – Paul Renucci e André Bouissy – che hanno curato i due volumi del teatro pubblicati nella biblioteca della Pléiade.
Aggiungerei anche, meno per lo svolgimento del discorso critico e più per le suggestioni e gli incentivi che ne vengono, le pagine sul Pirandello “religioso” del palermitano Pietro Mignosi, che significativamente furono dallo stesso Pirandello apprezzate e la cui istanza si può riassumere nell’affermazione dello scrittore, in una lettera a Silvio D’Amico, di essere “religiosissimo” e di sentire e di pensare Dio in tutto quel che pensava e sentiva.
Comunque, per schematicamente abbreviare, i punti da cui partire per un più “attendibile “ discorso su Pirandello, per una più libera e acuta lettura dell’opera sua, a me pare siano questi: 1) la Sicilia: non solo come “luogo delle metamorfosi” delle creature in personaggi, dei personaggi in creature, della vita nel teatro e del teatro nella vita – un luogo, insomma, in cui più evidente, concitato e violento si fa “el gran teatro del mundo”; ma il luogo, anche, di una cultura e di una tradizione da cui Pirandello decolla verso spazi vertiginosi (e qui bisogna tenere un certo conto della sua iniziale e poi alquanto persistente affinità al mondo realistico, fiabesco e anche “spiritistico” di Luigi Capuana); 2) la “religiosità”: che, si capisce, non ha nulla a che fare con le religioni rivelate, con la chiesa e con le chiese, anche se molto ha a che fare con l’essenza evangelica del Cristianesimo, ma che soprattutto si riconosce in quella che tout court possiamo dire la sua religione dello scrivere, dello scrivere come vivere, dello scrivere invece di vivere (“la vita” diceva “o la si vive o la si scrive”: e nella sua scelta di scriverla c’è evidentemente un religioso eroismo); 3) il suo rapporto con Montaigne, mai finora scrutato, e l’antagonistica attrattiva che certamente Pascal esercitò su di lui: e ci vorrebbe una ricerca da elaboratore elettronico – ma meglio se fatta da mente umana – per estrarre dall’opera di Pirandello i momenti diciamo pascaliani, di sentimento e sgomento cosmico particolarmente. E avendo fatto questi due nomi – Montaigne e Pascal, grandi pilastri nell’edificio della letteratura francese – ne discende in definitiva la necessità di esaminare e puntualizzare il rapporto di Pirandello con quella cultura: rapporto che finirà col rivelarsi molto più importante ed effettuale di quello, che è ormai luogo comune riconoscergli, con la cultura tedesca. Ed anche questo punto, cui ho voluto dare rilevanza a sé, in verità si appartiene al Pirandello “siciliano”, poiché il rapporto con la Francia è un dato inalienabile della cultura siciliana, e di grande intensità particolarmente lo era negli anni formativi di Pirandello.
E voglio finire con un aneddoto che riguarda il Pirandello siciliano e che, nella dilagante stupidità di oggi, che tende a relegare la Sicilia in una particolare etnia (si ha il pudore di non usare la parola “razza”: ma soltanto di non usarla), assume un grande significato. Nel 1932 Emilio Cecchi, che dirigeva la Cines, comunica a Pirandello l’intenzione di trarre un film dalla novella Lontano. Ma ha uno scrupolo: “nella novella come sta scritta, il marinaio norvegese si sente irresistibilmente attratto da una vita più vasta, e dai ricordi della patria, per il fatto di trovarsi legato, con il matrimonio, ad un ambiente meno che meschino; in fondo è in lui l’insofferenza dell’uomo appartenente a civiltà più energiche e libere, naufragato in un’isola abitata da gente ristretta, fra la quale egli sente mancarsi il fiato”.
Cecchi, scrittore che tuttora amo, era affetto da una invincibile idiosincrasia nei riguardi della Sicilia, dei siciliani: e la si può più immediatamente riscontrare nei suoi Taccuini, oltre che in questa sua lettura della novella Lontano. La novella non sta scritta come lui la leggeva; e Pirandello infatti così risponde: “Caro Cecchi, il contrasto non è tra due civiltà; ma tra due vite naturalmente diverse, quella di un uomo del Nord e quella di una donna del Sud; e il dramma che ne nasce, il dramma di restar “lontano” tra i vicini più vicini: la propria donna, il proprio figlio. Non c’è dunque da farsi scrupoli sulla natura di quelli a cui Lei mi accenna. Tutt’altro! Non era, né poteva essere nelle mie intenzioni di rappresentar barbara o di civiltà inferiore la Sicilia…”.
Naturalmente, il film non si fece. Ma queste parole di Pirandello restano, ci restano.

 

 

Leonardo Sciascia, Pirandello e la Sicilia, Adelphi, Milano 1996.

 

 
Fonti: Encarta, Wikipedia.