Ciao a tutti!
Eccomi con la recensione di un genere di libri che io adoro.
SPOSE DI GUERRA
Helen Bryan
AmazonCrossing
Trama
Recensione
Ciao a tutti!
Eccomi con la recensione di un genere di libri che io adoro.
Ciao amici,
in questo nostro nuovo appuntamento vi propongo un saggio. Non si tratta però di un noioso saggio filosofico. Parliamo di donne seducenti e di uomini spietati.
Si chiamavano Clara, Nadia, Magda, Felismina, Jang Qing, Elena, Caterina, Mira… Sono state spose, amanti, muse, ammiratrici… Si sono innamorate di un uomo crudele, violento e tirannico, l’hanno convinto che era bello, affascinante, onnipotente. A volte l’hanno dominato, a volte sono state tradite e ingannate. Alcune di loro sono state quasi più feroci del loro uomo. Spesso l’hanno seguito fino alla morte. Hanno tutte contribuito a plasmare le personalità più potenti e terribili del XX secolo. Del resto, uno degli ingredienti fondamentali del successo politico dei grandi dittatori è proprio il fascino esercitato sulle donne, che li inondavano di lettere d’amore. Come aveva capito Adolf Hitler, “l’importante è conquistare le donne, il resto arriva dopo”. Diane Ducret ricostruisce gli incontri, le strategie seduttive, gli amori, il peso politico, il destino delle donne che hanno intrecciato le loro vite con quelle di Mussolini, Lenin, Stalin, Salazar, Bokassa, Mao, Ceausescu, Hitler, fino a entrare nel loro letto. “Le donne dei dittatori” esplora così i meccanismi più profondi e segreti del rapporto che lega sesso e potere. E, raccontandoci la storia da un’angolatura inedita, ci aiuta a capire l’attualità.
Diane Ducret è un’autrice francese. Giornalista e ricercatrice, ha studiato molto e viaggiato molto.
“Le donne dei dittatori” non è un elenco di eventi storici né un insieme di biografie delle mogli e compagne degli uomini più crudeli del Novecento. È piuttosto una raccolta di testimonianze armonicamente riunite a formare delle storie che paiono quasi dei romanzi, ma che sono vicende di vita vera intervallate da pensieri e modi di dire degli uomini in questione affinché meglio si possa comprenderne l’animo.
È interessante notare come uomini diversi si siano circondati di donne diverse, talune che li hanno aiutati nella carriera politica, altre che li hanno infastiditi, altre ancora che hanno dato vita a un vero e proprio amore. Per non parlare del grande successo riscosso dai dittatori presso le grandi folle femminili: ad esempio, sapevate che Hitler ha ricevuto molte più lettere d’ammirazione rispetto ai più importanti personaggi in vista del secolo scorso compresi attori e cantanti? Raccapricciante, penserete. Eppure è vero. Dunque questi uomini hanno compreso l’importanza di raccogliere consensi tra la popolazione femminile nonostante all’epoca di riferimento la donna non avesse un così importante ruolo civile nella società. Che dire allora? Che dietro un grande uomo si nasconde sempre una grande donna?
“Le donne dei dittatori” tratta della vita sentimentale di Lenin, Stalin, Salazar, Bokassa, Mao, Ceauşescu, Mussolini e Hitler. Personalmente mi ha interessato più leggere dei dittatori “vicini” geograficamente. È stato curioso apprendere delle infinite amanti di Mussolini, di quelle che per prime hanno creduto in lui e l’hanno forgiato come simbolo nazionale, senza le quali non sarebbe diventato il Duce, come ad esempio Margarita Sarfatti o Ida Dalser; del matrimonio di facciata con Rachele Guidi e della passione sconfinata e della tenerezza con Clara Petacci. Ancora, per un Hitler che rinnegava il matrimonio e l’ha contratto solo poco prima della morte con la bella Eva Braun, vi sono state importanti donne quali Angelika Raubal e Magda Goebbels, la prima adorata nipote per cui egli nutriva quasi un desiderio incestuoso, la seconda unica donna con cui abbia condiviso profondamente le idee politiche e gli ideali, moglie di Joseph Goebbels su sua richiesta. Che dire invece di Mao con le sue quattro mogli? E di Stalin, la cui prima e seconda moglie hanno avuto vite brevissime e ugualmente tragiche?
Un libro che scava nelle profondità dell’animo di personaggi conosciuti solo tramite i libri di storia e ne indaga le passioni e i tradimenti, le tenerezze e i legami che hanno costituito la loro forza, svelandone la crudeltà e il cinismo o l’affetto. Un’opera per la quale mi complimento con l’autrice per la freschezza e la limpidezza con cui vengono affrontati gli argomenti e presentate le storie, quasi – come dicevo prima – con la suspense e il fascino degni di un romanzo.
Valutazione:
Eccoci al terzo appuntamento con la rubrica Pillole di arte martinese. Oggi introduco l’argomento Palazzi, ovviamente quelli del centro storico. I termini sottolineati sono spiegati nel glossario in fondo all’articolo.
Ancor prima di inoltrarsi tra i vicoli, passeggiando su Corso Vittorio Emanuele – chiamato in dialetto u r’ng e antica direttrice stradale che divideva i territori di Taranto e Monopoli – è possibile ammirare diversi palazzi.
Il palazzo martinese in stile rocaille presenta una facciata molto semplice, caratterizzata da pochi ma significativi elementi decorativi. La struttura geometrica è ripartita in verticale da lesene o paraste e orizzontalmente da cornici o architravi in pietra a vista. Le finestre che colmano gli spazi tra questi elementi esibiscono incorniciatura in pietra con riccioli fogliacei, cartigli, cherubini e conchiglie; tramite le decorazioni tipiche del rococò francese si tenta di proiettare all’esterno la ricchezza degli interni. Sovente il portale d’ingresso è sormontato da una loggia che crea effetti chiaroscurali e profondità. Il cortile che si apre al di là del portale indica una prosecuzione nel palazzo della spazialità della strada, in un continuo scambio tra interni ed esterni. Alcuni palazzi erano dotati di piccole scuderie per cavalli e carrozze, ricavate nella struttura stessa della costruzione proprio di fronte all’ingresso.
Un elenco dei palazzi che scopriremo di volta in volta:
Rocaille: motivo decorativo a conchiglie o volute, tipico del rococò francese. Da ciò prende il nome lo stile dei palazzi martinesi.
Lesena: pilastro lievemente sporgente da un muro, con funzione ornamentale.
Parasta: pilastro portante parzialmente sporgente da una parete.
Cherubino: immagine dipinta o scolpita raffigurante un angelo.
Cartiglio: motivo ornamentale raffigurante un rotolo di carta in parte svolto, spesso sorretto da una figura e contenente un’iscrizione.
Architrave: elemento della trabeazione che poggia sopra i capitelli delle colonne, i pilastri o gli stipiti.
Devo ammettere che questa rubrica mi sta appassionando parecchio, anche perché, rileggendo gli appunti del corso di guida turistica di cui vi dicevo nel primo appuntamento, mi stanno venendo in mente idee particolari per altri romanzi storici… ma lasciamo perdere, parliamo di ciò che è realmente accaduto a Martina Franca. Nel primo post – che potete leggere qui – vi ho dato giusto un’infarinatura della storia della città, stavolta invece ne parliamo in maniera un po’ più approfondita ma non eccessiva. Negli articoli successivi – alternati a quelli delle altre rubriche – vi illustrerò di volta in volta i monumenti, i palazzi, le chiese, insomma tutto. Buona lettura!
Martina Franca nacque come città attorno al 1310 quando il principe di Taranto Filippo I d’Angiò fece cingere con mura e torri di difesa i quattro casali di Montedoro, San Martino, Santa Teresa e San Pietro dei Greci, sorti molto tempo prima sul colle di San Martino. La trasformazione dell’antico casale sprovvisto di mura in terra fornita di un sistema difensivo fu la consacrazione definitiva dell’importanza strategica che quel vasto agglomerato umano – che da Taranto andava a Monopoli – andava conquistando.
Di quelle fortificazioni, che sul finire dello stesso secolo venivano completate con la costruzione del Castello (1388) ordinata da Raimondello Orsini del Balzo, oggi rimane ben poco. Restano intatte le quattro porte: di Santo Stefano (oggi Sant’Antonio), di Santa Maria (oggi del Carmine), di San Nicola (oggi San Francesco) e di San Pietro (oggi porta Stracciata). Delle torri di difesa – dodici tonde e dodici quadrate – sono chiaramente individuabili lungo il perimetro della città antica quelle di Angelucco, San Pietro, Mulini di San Nicola, delle Seti, dell’Annunziata, del Forno. La muraglia, rifatta nel ’500 e resistita per alcuni tratti fin oltre la metà del secolo scorso, è invece completamente scomparsa. Del castello degli Orsini restano la fantasiosa raffigurazione fatta dal pittore Nicola Gliri ai piedi della Madonna d’Itria su una tela conservata in San Martino, e il ricordo dell’antico toponimo “Largo del Castello” dell’attuale piazza Roma.
La recinzione dei quattro villaggi venne accompagnata da una lunga serie di privilegi che furono alla base del primo sviluppo urbanistico della città. Determinante fu la garanzia del possesso delle terre occupate entro un raggio di tre chilometri intorno alle mura, che il principe tarantino assicurò a coloro che si fossero trasferiti nella nuova città. Questo primo privilegio (15 gennaio 1317) agì da esca. Dagli agglomerati sparsi nella campagna circostante e dai vicini casali si verificò una vera e propria ondata migratoria verso la terra fortificata dove le nuove abitazioni finirono col saldare e amalgamare i quattro villaggi preesistenti in un solo agglomerato. La struttura di queste costruzioni, con il tetto detto a pignon, si ispirava a quella dei trulli di campagna.
Martina Franca nacque dunque come città demaniale, cioè libera dal gioco feudale, e la demanialità venne accettata e vissuta dagli abitanti della nuova terra come una naturale condizione di libertà e uguaglianza.
Il 6 luglio del 1478 Ferrante I d’Aragona affidò ad alcuni cittadini l’amministrazione dell’Universitas civium; col dettato del 5 ottobre 1485 si consentì a coloro che avevano occupato le terre demaniali di recintarle per sempre.
L’epoca demaniale cessò definitivamente nel 1507 quando iniziò quella ducale. La nuova condizione di città feudale venne subita dai martinesi in termini drammatici – il Duca la comprò per seimila ducati. L’arrivo dei Caracciolo dette la spinta decisiva alla trasformazione della società martinese sia sul piano economico con la divisione in classi, sia sul piano politico col raggruppamento delle famiglie facoltose in due fazioni: la ducale o zelante, schieratasi subito dalla parte dei nuovi signori, e l’universalista, rappresentante le aspirazioni rivendicative del popolo.
Nacquero e prosperarono quelle tipiche aziende agricole che sono le masserie, autentiche unità produttive autonome poste nel cuore dei latifondi costituiti in massima parte da pascoli; si accentuarono le differenze di classe tra il ceto dei ricchi, quello dei piccoli proprietari e quello dei nullatenenti.
La nuova situazione non poteva non riflettersi anche nel tessuto urbano. Comparve il cosiddetto impianto a ’nchiostra, costituito da vari corpi di fabbrica a pianta rettangolare disposto intorno a un cortile comune, la ’nchiostra appunto, dove erano sistemati i servizi comuni. La ricchezza dell’emergente borghesia terriera si concretizzò nelle case dominicali, costituite dall’appartamento padronale e da numerosi locali disposti intorno al cortile o al giardino, di cui modelli significativi giunti fino a noi nella loro originaria struttura sono la Casa Simeone e la Casa Cappellari.
Le mura furono in parte abbattute dopo il 1860 per permettere lo sviluppo urbano della città al di là del centro storico ormai insufficiente a contenere l’aumento demografico.
Il territorio di Martina Franca costituisce il cuore della Murgia dei Trulli, un tempo ricoperta da foreste di piante d’alto fusto sempreverdi (fragno e roverella) e da un rigoglioso sottobosco che permettevano l’allevamento dei caprini e coltivazioni foraggiere ad esso annesse. A questa attività si affiancò, fino a diventare massicciamente sostitutiva verso la fine del 1800, la viticoltura. A livello artigianale invece prosperò la lavorazione della pietra e del ferro battuto. Con l’arrivo dei Caracciolo la città divenne culturalmente molto attiva.
Certe volte mi vengono idee improvvise e le metto subito in atto. Forse questo post sarà l’articolo inaugurale di una nuova rubrica: Pillole di arte martinese, dove per martinese si intende di Martina Franca, la splendida città barocca in cui vivo. La storia della città, la sua arte, il centro storico, mi hanno sempre affascinata, tant’è che ho fatto ricerche per conto mio, ho girovagato più volte per ore nel centro storico e ho partecipato a un corso di guida turistica specializzato sulla città – in italiano, inglese, tedesco. In Italia abbiamo il 60% del patrimonio artistico mondiale ma purtroppo esso non viene sempre valorizzato come dovrebbe; grazie a questo mio piccolo spazio pubblico, ho deciso di fare la mia parte per far conoscere le meraviglie di una città colma d’arte come è Martina Franca. E poi per i lettori di Tregua nell’ambra credo sarà una cosa interessante conoscere più da vicino i luoghi in cui si muovono i personaggi.
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Martina Franca (TA) è situata a 431 m su un rilievo delle Murge meridionali, in bella posizione pressoché equidistante dal mar Ionio a sud e dal mar Adriatico a nord.
Il centro si formò attorno al X secolo con l’unirsi di più casolari sparsi, da uno dei quali, Casale di San Martino, avrebbe derivato il nome; l’appellativo di Franca ha come probabile origine la franchigia concessa nel 1294 da Filippo I d’Angiò. Al dominio angioino seguì, agli inizi del Cinquecento, quello del casato napoletano dei Caracciolo, che istituirono il territorio in ducato, protrattosi sino ai primi dell’Ottocento.
Per dotarsi di una nuova residenza, nel 1668 il duca Petracone V avviò la costruzione dell’enorme Palazzo Ducale, ultimato nel secolo successivo; fu l’inizio di una straordinaria attività edilizia, in ambito sia civile sia religioso, che cambiò volto all’intero abitato, conferendo a Martina Franca una veste eccezionalmente scenografica.
Tra le testimonianze più significative della città settecentesca si ricordano, in forme per lo più barocche, la collegiata di San Martino, il Palazzo della Corte o dell’Università, la chiesa di San Domenico, la chiesa della Madonna del Carmine, molti palazzi tra cui il Palazzo Motolese e il Palazzo Grassi.
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E va bene, sarà che sto diventando sempre più sentimentale? Ma proprio non sono riuscita a impedire agli occhi di velarsi di lacrime leggendo questa recensione di “Tregua nell’ambra”. Grazie di cuore.
Questa è la storia del ricordo, del cambiamento, della vita che va avanti e con una mano prende, ma con l’altra da.
La recensione di Francesca Rossi dal blog “Divine Ribelli”: http://www.divineribelli.blogspot.it/2013/04/recensione-di-tregua-nellambra-di.html