2 giugno: non solo sinonimo di scampagnate

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Ok, apro quest’articolo con un breve aneddoto.

Ho imparato il significato reale della festa del 2 giugno in prima media e da allora non l’ho più dimenticato. Il fatto è che non è stato un libro di storia a imprimermi nella mente ciò che ricordo ma la professoressa di italiano e storia che, picchiettando gli enormi anelli d’oro e gemme sulla cattedra, ripeteva incessantemente il significato della festa della Repubblica, e come si era storicamente arrivati a quel giorno. All’epoca devo dire che quel rumore ridondante e la voce squillante di lei non erano proprio accolti a braccia aperte, ma valutando la questione in seguito, devo riconoscere che il metodo della prof. ha funzionato.

Parliamo allora un po’ della festività del 2 giugno, e vale la pena farlo perché negli ultimi anni feste dal significato storico vengono spesso ricordate solo per il modo in cui occupiamo quel tempo libero: per esempio il 25 aprile e il 2 giugno sono associati più alle scampagnate che si usano fare che a ciò che successe in quelle date decenni fa.

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Le elezioni politiche italiane del 2 giugno 1946, furono le prime elezioni della storia italiana dopo il periodo di dittatura fascista, che aveva interessato il Paese nel ventennio precedente. Immaginate dunque, dopo vent’anni di dittatura e una guerra devastante appena conclusa, quanto la gente avesse non solo la voglia ma una vera e propria necessità di scrollarsi di dosso gli orrori e la mancanza di libertà patiti per così tanto tempo. Immaginate come si accostò alla possibilità di decidere finalmente del futuro del proprio Paese.

Si votò per l’elezione di un’Assemblea Costituente cui sarebbe stato affidato il compito di redigere la nuova carta costituzionale, come stabilito con il Decreto Legislativo Luogotenenziale n. 151 del 25 giugno 1944. Contemporaneamente si tenne un referendum istituzionale per la scelta fra Monarchia e Repubblica. Uno degli elementi più importanti fu il fatto che il Referendum fu a suffragio universale, votarono cioè gli uomini di tutti i ceti sociali e per la prima volta in Italia anche le donne. Una grande conquista soprattutto per quelle donne che avevano supportato la Resistenza o combattuto loro stesse al fianco dei partigiani e che in generale avevano patito gli ideali maschilisti del regime fascista.

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La Repubblica vinse il confronto con la Monarchia e l’Italia rinacque sotto nuove spoglie, quelle che conosciamo oggi (anche se nel corso degli anni si è un po’ perso il senso di ciò per cui combatterono i nostri nonni). Contemporaneamente la famiglia regnante, i Savoia, fu esiliata. Analizzando le azioni dell’ultimo re d’Italia durante l’avvento del fascismo (il re praticamente “consegnò” a Mussolini il governo del Paese e in seguito non fece molto per imporsi o rimediare al danno) non c’è da stupirsi che la scelta del popolo ricadde sulla Repubblica. Inoltre (e qui mi concedo il lusso di fare un po’ di ironia, ma non troppa) assistendo ora alle illuminanti apparizioni televisive e pubblicitarie (sob!) del principe Emanuele Filiberto di Savoia, direi che i nonni furono proprio saggi a togliere le redini del Paese ai Savoia.

In definitiva comunque auguro a voi tutti una serena festa della Repubblica facendo, perché no, una bella scampagnata, ma tenendo sempre a mente il retaggio di Paese e cittadini che ci portiamo dietro.

L’arte della guerra – Sun Tzu

Ciao a tutti e buon inizio di settimana. Questa volta voglio proporvi la lettura non di un romanzo, ma di un saggio.

 

L’ARTE DELLA GUERRA

Sun Tzu

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 Composto in Cina ben 500 anni prima della nascita di Cristo, questa “Arte della guerra” rappresenta il più antico trattato di strategia militare. Il suo contenuto ha influenzato ampiamente nei secoli la filosofia orientale, e oggi questo testo viene utilizzato nelle scuole di management in tutto il mondo. Perché Sun Tzu non si limita a dare precetti per sconfiggere i nemici sul campo di battaglia. Ma ci insegna a gestire i conflitti in modo profondo e non distruttivo, perché anche nella nostra vita quotidiana “la miglior battaglia è quella che vinciamo senza combattere”.

Recensione

 

E così sii,

veloce come il vento,

lento come una foresta,

assali e devasta come il fuoco,

sii immobile come una montagna,

misterioso come lo yin,

rapido come il tuono.

 

“L’arte della guerra” è un saggio d’arte bellica scritto centinaia d’anni orsono da un grande generale orientale di nome Sun Wu. Il testo si presenta in righe brevi e concise, chiare e dal ritmo serrato che non danno spazio a tentennamenti. Sono descritte strategie sulle modalità d’attacco del nemico in diverse situazioni morfologiche, nonché le qualità che dovrebbe avere un buon generale, la maniera migliore di interagire con i propri soldati. All’epoca lo scritto fu redatto come manuale di guerra – difatti troviamo anche considerazioni su carri e cavalli, cose che certo non si usano più in guerra al giorno d’oggi – ma la sua valenza non è solo bellica. Interpretato non letteralmente, il saggio può essere adattato a centinaia di situazioni della vita reale quali il rapporto con il partner o la gestione delle relazioni lavorative; può essere preso come esempio per elaborare ottime strategie di marketing e aiutare a districarsi abilmente dalle più disparate vicende. Troviamo nelle parole del generale orientale un qualcosa di trascendentale che eleva il testo a una dimensione filosofica. Per questa ragione si presta bene alla lettura da parte di ogni genere di lettori con massime valide in passato quanto nel presente. E non è escluso che ufficiali odierni lo utilizzino per chiarirsi le idee su una strategia d’attacco. Certamente se un testo è sopravvissuto così splendidamente per centinaia di anni un valore l’avrà. Vi invito a leggerlo per scoprirlo e chissà che non vi aiuti nelle piccole guerre quotidiane.

Valutazione:

4

Approfondimenti

Chi era Sun Tzu?

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Sun Tzu è stato un generale e filosofo cinese, vissuto probabilmente fra il VI e il V secolo a.C.. A lui si attribuisce uno dei più importanti trattati di strategia militare di tutti i tempi, L’arte della guerra.

Il suo nome di nascita era Sun Wu, ma era conosciuto al di fuori della sua famiglia anche col nome di cortesia Changqing. Sun Tzu ha avuto un significativo impatto sulla storia cinese e asiatica, sia come autore dell’Arte della Guerra che attraverso le leggende. Tra il XIX e XX secolo il libro di Sun Tzu è cresciuto in popolarità nel mondo occidentale e ha trovato utilizzo in vari ambiti nella cultura sia asiatica che occidentale.

Sunzi è un appellativo che significa Maestro Sun. Il nome Sunzi è un titolo onorifico attribuito all’autore Sun Wu. Nel nome Sun Wu, il carattere 武 (Wu) è lo stesso presente in 武术 (wǔshù), arti marziali.

Secondo gli Annali delle primavere e degli autunni, Sunzi nacque nello stato Qi, nella Cina settentrionale, mentre secondo lo Shi Ji il suo luogo di nascita è nello stato di Wu. Entrambe le fonti tuttavia concordano sul fatto che visse durante il tardo Periodo delle primavere e degli autunni, cioè tra il 722 e il 481 a.C.
Secondo la tradizione, apparteneva all’aristocrazia minore, che aveva perso i suoi domini come risultato del consolidamento degli stati egemoni durante il Periodo delle primavere e degli autunni. Passato alle dipendenze del re dello stato di Wu come consigliere militare, verso la fine del VI secolo a.C., lo aiutò a portare a termine la conquista dello stato di Chu. In seguito alla presunta partecipazione ad un complotto venne evirato e mandato in esilio, dove scrisse il suo saggio. Il luogo della sua morte resta sconosciuto.

L’attribuzione dell’Arte della guerra a Sunzi è stata contestata da molti studiosi. Nel 1972 furono scoperti alcuni testi incisi su bambù nei pressi di Linyi, nello Shandong. Queste versioni, datate intorno al 134-118 a.C., hanno confermato l’esistenza a quell’epoca di molte parti dell’opera già note e hanno fatte conoscere nuove parti fino ad allora sconosciute.

Le due più note versioni cinesi dell’Arte della guerra erano state fino a quel momento la fonte delle traduzioni nelle altre lingue. Solo dopo le nuove scoperte archeologiche si è aggiunta una versione più completa, edita a Taipei. Questa versione è diventata la fonte delle traduzioni più recenti e complete.

Alcuni storici moderni hanno rilevato presunti anacronismi fra il periodo in cui tradizionalmente sarebbe vissuto Sunzi e la cultura militare del suo tempo; l’ampiezza delle armate menzionate nel testo e la loro organizzazione, gli accenni all’impiego della balestra, entrata in uso verso la fine del V secolo a.C., i riferimenti alla teoria dei Cinque Elementi e certi usi linguistici, secondo queste interpretazioni, sposterebbero la datazione dell’Arte della guerra tra il 400-320 a.C., nel Periodo dei regni combattenti.

 

Fonte: Wikipedia

La poesia del bianco e nero, l’impatto dei colori #7 – V-J Day

Ciao amici,

ecco per voi un articolo della rubrica La poesia del bianco e nero, l’impatto dei colori (no, non me ne ero dimenticata!).

Lo scatto ricolorato di oggi è il famosissimo bacio nel V-J day a Times Square: un marinaio americano che bacia una giovane donna, il 14 agosto 1945 a Times Square, subito dopo aver saputo che il Giappone era capitolato e la guerra finita.

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Fonte: Wired.it

La foto fu scattata dal noto Alfred Eisenstaedt e fu pubblicata sulla rivista “Life“. Nel corso degli anni molti si sono spacciati per i protagonisti della foto, ma solo qualche anno fa uno specialista di arte forense, Lois Gibson, stabilì con l’ausilio di metodologie scientifiche che il marinaio era Glenn McDuffie e l’infermiera Edith Shain.

Ma perché il bacio?

Glenn McDuffie racconta che, mentre era in metro, apprese della resa del Giappone. Era così felice che uscì dalla stazione e corse per strada: un’infermiera lo vide e gli sorrise, così lui si lanciò per abbracciarla e baciarla, senza dire una parola.

Così quel bacio improvviso tra sconosciuti divenne il simbolo della felicità e del sollievo di una generazione che si liberava dal peso della guerra.

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La foto è diventata una statua di bronzo: alta 8 metri e pesante 13 tonnellate, la statua denominata “Unconditional Surrender” realizzata da Seward Johnson per il settantesimo anno dalla fine del conflitto fa bella mostra di sé davanti al museo del Memoriale di Caen, capoluogo del dipartimento del Calvados in Francia.

Chi era il fotografo?

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Alfred Eisenstaedt (Dierschau 1898-1995) fu un fotografo statunitense di origine tedesca. Negli anni Venti, insieme a un gruppo di fotografi tedeschi (Erich Salomon, Felix H. Man e Martin Munkacsi), Eisenstaedt fu praticamente il fondatore del fotogiornalismo, collaborando con la Pacific and Atlantic Picture Agency che di lì a poco sarebbe diventata la Associated Press, una delle più importanti agenzie di stampa del mondo.

Emigrato negli Stati Uniti nel 1935, sviluppò presto il suo interesse per i reportage, lavorando per ‘Life’ fin dal primo numero nel novembre del 1936 e realizzando per questa rivista più di mille servizi in quarant’anni di attività. Con la sua Leica 35 mm ritrasse personalità di primo piano sulla scena politica e culturale mondiale, tra cui John Fitzgerald Kennedy, Winston Churchill, Albert Einstein, ma anche stelle del cinema come Marlene Dietrich, Marilyn Monroe, Sophia Loren. Immortalò avvenimenti storici cruciali, quali il primo incontro tra Adolf Hitler e Benito Mussolini nel 1933; fu a Hiroshima al seguito dell’imperatore Hirohito sui luoghi del bombardamento atomico.

Tra le sue foto più famose, si ricorda quella del marinaio che bacia una ragazza a Times Square il giorno della celebrazione della vittoria nella seconda guerra mondiale (V-J Day, Times Square, 1945). Il suo ultimo lavoro, 95 for 95, riunisce novantacinque immagini esposte in occasione del suo novantacinquesimo compleanno. Tra i numerosi riconoscimenti ricevuti da Eisenstaedt figurano la National Medal of the Arts, l’International Understanding Award for Outstanding Achievement, il Photographic Society of America Achievement Award.

Fonti: Encarta, Wikipedia, Wired

Accadde oggi: nel 1745 nasce Alessandro Volta

Buongiorno a tutti!

Oggi ricordiamo il 270° anniversario della nascita di Alessandro Volta, famoso fisico il cui volto era presente sulla vecchia buona banconota da diecimila lire.

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Alessandro Volta

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Alessandro Volta (Como 1745-1827) fu un fisico italiano, da cui prese il nome l’unità di misura della differenza di potenziale elettrico, il volt. Di nobile famiglia, Volta ricevette un’educazione umanistica, ma cominciò sin dalla prima giovinezza a compiere esperimenti scientifici. Divenuto professore di fisica alla Scuola Reale di Como nel 1774, l’anno seguente progettò l’elettroforo, un apparecchio che generava cariche di elettricità statica. Dal 1776 al 1777 si dedicò alla chimica, studiando l’elettricità nell’atmosfera e conducendo esperimenti per provocare l’accensione dei gas mediante una scintilla elettrica contenuta in un recipiente chiuso. Nel 1779 divenne professore di fisica sperimentale all’Università di Pavia, di cui divenne rettore nel 1785. Volta si dedicò in quell’epoca soprattutto allo studio dei gas, identificando il metano, ma nel contempo proseguì le sue ricerche sull’elettricità introducendo la nozione di ‘tensione elettrica’.

In questo dipinto conservato presso il Museo di Storia della Scienza di Firenze, il fisico Alessandro Volta è rappresentato mentre illustra all'Accademia Francese la pila da lui stesso costruita. Tale apparecchio, costituito da lastre di ferro e zinco alternate e immerse in una soluzione salina, rappresentò una importante scoperta nello studio dei fenomeni elettrici.

In questo dipinto conservato presso il Museo di Storia della Scienza di Firenze, il fisico Alessandro Volta è rappresentato mentre illustra all’Accademia Francese la pila da lui stesso costruita. Tale apparecchio, costituito da lastre di ferro e zinco alternate e immerse in una soluzione salina, rappresentò una importante scoperta nello studio dei fenomeni elettrici.

Nel corso di una disputa sull’origine dei fenomeni elettrici intrattenuta con l’abate Luigi Galvani, lo scienziato mise a punto la cosiddetta ‘pila di Volta’, una sorta di antenata della batteria elettrica, composta di una serie di piastre di ferro e zinco alternate con pezzi di stoffa imbevuti di una soluzione salina, che produceva un flusso di elettricità costante. In onore delle sue ricerche nel campo dell’elettricità, Napoleone lo nominò conte nel 1801.

 

 

Approfondimenti

Pile e accumulatori

Le pile sono dispositivi elettrochimici capaci di trasformare energia chimica in energia elettrica. Sono utilizzati come generatori di elettricità, ad esempio per alimentare strumenti meccanici o elettronici quali registratori, apparecchi radio e orologi o per avviare l’impianto elettrico delle automobili.

Le pile propriamente dette sono irreversibili, in quanto soggette a esaurimento: dopo la trasformazione dell’energia chimica in energia elettrica, infatti, i componenti di tipo chimico non possono essere riportati nella loro condizione originaria. Gli accumulatori, invece, sono reversibili: facendo fluire corrente elettrica in senso opposto a quello del normale funzionamento, infatti, il sistema chimico può essere riportato allo stato iniziale.

Il primo modello di pila elettrica fu ideato e costruito da Alessandro Volta nel 1800. Era sostanzialmente una successione di elementi voltaici impilati (da cui il nome di pila), ciascuno dei quali costituito da un disco di zinco, uno di rame e da un panno imbevuto di acqua acidulata. L’alternanza di conduttori di prima e di seconda specie (metalli e soluzioni elettrolitiche) garantiva l’insorgenza di una differenza di potenziale ai capi della pila, in accordo con le leggi di Volta e l’Effetto Volta.

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Effetto Volta

L’Effetto Volta è un fenomeno fisico che consiste nell’insorgenza di una differenza di potenziale elettrico in corrispondenza della giunzione tra due conduttori diversi posti a contatto. L’effetto prende il nome dello scienziato italiano Alessandro Volta, che lo osservò e lo descrisse intorno al 1800.

La spiegazione fisica dell’effetto Volta coinvolge il concetto di lavoro di estrazione: come è noto, per estrarre un elettrone da un metallo è necessario fornire dall’esterno un valore minimo di energia, specifico per il particolare metallo considerato. Quando vengono posti a contatto due metalli con lavoro di estrazione diverso, gli elettroni di conduzione del metallo con lavoro di estrazione minore tendono a passare nel metallo adiacente. Si viene così a creare uno squilibrio tra le cariche dei due metalli, e quindi una differenza di potenziale. Quantitativamente, questa differenza di potenziale risulta pari alla differenza (espressa in volt) tra i valori del lavoro di estrazione per i due metalli considerati. Così, in corrispondenza della giunzione tra un filo di zinco (lavoro di estrazione = 3,4 eV) e un filo di rame (lavoro di estrazione pari = 4,4 eV), la differenza di potenziale che insorge per effetto Volta è di 1 V.

Leggi di Volta

Alessandro Volta formalizzò le sue scoperte enunciando tre leggi empiriche: la prima afferma appunto che, ponendo a contatto due metalli diversi mantenuti alla stessa temperatura, si ottiene una differenza di potenziale elettrico che non dipende dall’area di contatto e dalla geometria dei due metalli, ma solo dalla loro natura chimica.

La seconda legge estende il ragionamento al caso di un contatto tra più metalli in serie: in questo caso, la differenza di potenziale ai capi della serie di conduttori dipende soltanto dalla natura chimica dei due metalli estremi e non viene minimamente influenzata dalla presenza degli altri metalli intermedi; così, se i due metalli estremi sono della stessa natura, la differenza di potenziale ai capi della catena di conduttori è nulla.

La terza legge completa il quadro prendendo in considerazione anche conduttori diversi dai metalli, come le soluzioni elettrolitiche: secondo questa legge, ai capi di una serie di conduttori che inizi e finisca con lo stesso metallo, insorge una differenza di potenziale soltanto se nella serie è compreso anche un conduttore di tipo elettrolitico.

 

Fonte: Encarta, Wikipedia

 

 

Bestseller inizialmente respinti #3 – Le cronache di Narnia

Eccoci al terzo appuntamento con la nuova rubrica Bestseller inizialmente respinti. Negli scorsi appuntamenti abbiamo parlato di Agatha Christie e J. K. Rowling che si sono viste rifiutare più volte libri che poi sono diventati successi mondiali.

Oggi invece portiamo l’attenzione su C. S. Lewis, autore de Le cronache di Narnia. L’autore pubblicò diversi libri prima di arrivare a proporre la pubblicazione della celebre saga. Inizialmente rifiutata più volte, quando finalmente ottiene un contratto di pubblicazione la saga è talmente richiesta da essere tradotta in 47 lingue e vendere 100 milioni di copie. In casi come questo penso sempre a come si sentono poi gli editori che hanno rifiutato la pubblicazione. Poveretti.

 

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C. S. Lewis

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Clive Staples Lewis, in breve C. S. Lewis (Belfast, 29 novembre 1898 – Oxford, 22 novembre 1963), è stato uno scrittore e filologo britannico.
Fu docente di lingua e letteratura inglese all’Università di Oxford, dove divenne amico di J. R. R. Tolkien col quale – insieme anche a Charles Williams ed altri – fondò il circolo informale di discussione letteraria degli Inklings.
È noto al grande pubblico soprattutto come autore del ciclo di romanzi Le cronache di Narnia.
Le vicende biografiche di Lewis si possono ritrovare tematizzate nelle sue opere: si veda ad esempio la morte della madre avvenuta quando Lewis aveva solo 10 anni o la complessa evoluzione intellettuale del giovane Lewis sfociata nella conversione al cristianesimo anglicano, per non parlare dell’amicizia con i membri del club degli Inklings J.R.R. Tolkien e Charles Williams.

Nel 1919, appena congedato dal servizio militare, Lewis pubblica la raccolta di poesie Spirits in Bondage. Nel 1926 pubblica un poema narrativo intitolato Dymer sotto lo pseudonimo Cluve Hamilton. I due libri hanno un esito editoriale deludente.
Il primo libro che dà a Lewis una certa fama – anche se venne stroncato dalla critica – è invece Le due vie del pellegrino (Pilgrim’s Regress) pubblicato nel 1933. Si tratta di un racconto allegorico che descrive l’esperienza autobiografica di Lewis stesso, il passaggio dalla fede dell’infanzia all’ateismo e il successivo ritornare al cristianesimo dopo un breve passaggio attraverso la filosofia idealistica.
Fondamentali per capire la visione del mondo di Lewis sono i tre romanzi di fantascienza. La trilogia spaziale (Space Trilogy) venne scritta in seguito ad una scommessa con l’amico Tolkien. Lewis si impegnò a scrivere un “viaggio nello spazio”, mentre Tolkien doveva scrivere una storia incentrata su un “viaggio nel tempo”. Al centro di entrambe le opere doveva esserci il concetto del Mito e della sua riscoperta. Tolkien non portò a termine il suo “viaggio”, un romanzo intitolato La strada perduta che riprendeva la mitologia del Silmarillion, mentre Lewis andò oltre, realizzando tra il 1938 e il 1945 la trilogia composta dai volumi Lontano dal pianeta silenzioso, Perelandra e Quell’orribile forza.
Nel 1945 Lewis pubblica Il grande divorzio, un sogno o visione ispirato alla Divina Commedia di Dante. Lewis immagina di viaggiare nell’oltretomba guidato da George MacDonald e di incontrare le anime dei defunti che devono dimostrare di aver superato il pregiudizio fondamentale che le mantiene prigioniere dell’Inferno: l’idea per cui “Io sono mio”.

IL PENSIERO

Nei romanzi di Lewis è sempre presente una visione filosofica abbastanza complessa anche se non esposta organicamente. Comprenderne i fondamenti è importante per cogliere a fondo anche gli altri aspetti delle sue opere. Poiché una parte importante della vita dell’autore è stata occupata dal percorso personale che lo ha portato dall’ateismo alla convinzione che esiste un Dio personale e che questo Dio è quello rivelato dal cristianesimo, l’analisi delle motivazioni razionali che stanno alla base della fede di Lewis è importante per comprenderne il pensiero. Ma un posto altrettanto importante (o forse più importante) va assegnato ad altre tematiche a cui Lewis dedica spazio nelle sue opere, e cioè il tema del desiderio come elemento essenziale costitutivo dell’esperienza umana e il tema della fondamentale continuità e affinità tra le religioni e i miti precristiani e la verità rivelata nel cristianesimo.

LE CRONACHE DI NARNIA

Il successo arride a Lewis con la serie di fiabe moderne, scritte tra il 1950 ed il 1956, che compongono la saga de Le cronache di Narnia.
Essa è composta da sette libri pubblicati in epoche differenti e narra la storia del mondo di Narnia. Si tratta di un luogo fantastico, in cui gli animali parlano, la magia è comune e il bene è in lotta con il male. Oltre ai numerosi temi cristiani, la serie prende in prestito anche personaggi ed idee della mitologia greca e romana, dai racconti tradizionali britannici e dalle fiabe irlandesi.
Secondo alcune fonti, il nome di Narnia era conosciuto a Lewis fin dall’infanzia, tanto che nel suo atlante latino era sottolineata, nella cartina d’Italia, la città di Narnia ora chiamata Narni.
Dal libro la casa di produzione Walden Media ha sviluppato un ciclo di film. Il primo episodio, Le cronache di Narnia: il leone, la strega e l’armadio, è uscito nel 2005, il secondo, Il principe Caspian, nel 2008 ed il terzo, Il viaggio del veliero, nel 2010.
Il ciclo di Narnia ha subito anche pesanti critiche, prevalentemente da parte di oppositori che ne hanno criticano l’ideologia di fondo; in particolare, lo scrittore Philip Pullman in un articolo pubblicato su The Guardian nel 1998espone le sue perplessità sulle modalità con cui Lewis introduce idee religiose e filosofiche in opere per l’infanzia. Lo stesso Pullman ha pubblicato tra il 1995 e il 2000 un ciclo di tre romanzi fantasy che secondo alcuni sarebbero una replica, ugualmente colma di idee filosofiche e religiose, alle cronache di Narnia.

Nel 2007 Michael Ward ha pubblicato Planet Narnia in cui sostiene che l’intera opera letteraria di Lewis è una forma di allegoria in cui sono codificati riferimenti al pensiero cosmologico medievale. Questi riferimenti fanno delle Cronache di Narnia qualcosa di simile alla Divina Commedia di Dante per cui la lettura del significato dell’opera è possibile solo con un’adeguata esegesi che viene fornita dall’autore. Il libro di Ward è un saggio accademico per il pubblico specialista ma da esso lo stesso autore ha ricavato nel 2010 un saggio divulgativo dal titolo The Narnia Code che è stato usato dalla BBC come soggetto di un documentario trasmesso in Italia da BBC Knowledge nel 2011.

Diversi film sono stati tratti dai libri.

 

 

Fonte: Wikipedia

Accadde oggi: nel 1828 nasce Lev Tolstoj

Oggi ricordiamo l’anniversario della nascita di uno dei grandi della letteratura: Lev Tolstoj.

 

Lev Tolstoj

 

La caratteristica che distingue la vera arte da quella contraffatta è una sola e indubitabile: il contagio dell’arte. […] non sarà un’opera d’arte se non suscita nell’uomo quel sentimento, completamente differente dagli altri, di gioia nell’unione spirituale con un altro (l’autore) e con altri ancora (gli ascoltatori o spettatori) che contemplano la stessa opera d’arte.

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Lev Nikolaevič Tolstoj (Jasnaja Poljana, Tula 1828 – Astapovo, Rjazan 1910) fu un romanziere russo, uno dei maggiori autori della letteratura mondiale. Orfano a due anni della madre e a nove del padre, fu allevato dalla zia, che affidò la sua educazione a precettori tedeschi e francesi. Nel 1844 si iscrisse all’Università di Kazan, dove frequentò prima i corsi di lingue orientali e poi di giurisprudenza, senza tuttavia concludere gli studi. Dopo un breve quanto inefficace tentativo di migliorare le condizioni dei contadini che, in stato di servitù, lavoravano nella proprietà familiare di Jasnaja Poljana, Tolstoj si trasferì a Mosca dove prese a frequentare l’alta società, con l’ingenuo proposito, come annotava nel diario, di migliorarne i costumi.

 

Poiché i piaceri sono pochi e tutti alla fine annoiano e i desideri sono infiniti, ciò significa che per quanto un uomo sia ricco e in buona salute non sarà mai soddisfatto, anzi al contrario, più diverrà ricco più sarà annoiato, perché più numerosi sono i godimenti che uno ha e meno essi lo rallegrano.

 

Nel 1851 si unì al reggimento del fratello, di stanza nel Caucaso, esperienza che in seguito gli avrebbe dato lo spunto per il romanzo breve I cosacchi (1863), in cui il languore sofisticato di un giovane moscovita viene contrapposto al semplice vigore di chi vive in armonia con la natura. Fece tuttavia il suo esordio letterario con una trilogia autobiografica (Infanzia, 1852; Adolescenza, 1854; Giovinezza, 1856) in cui tracciava senza retorica o sentimentalismi il processo di crescita comune a ogni giovane. Il favore della critica si rinnovò con i successivi Racconti di Sebastopoli (1855-56), ritratto amaro del falso eroismo degli alti ranghi militari e dell’abnegazione coraggiosa dei soldati semplici sullo sfondo della guerra di Crimea, nella quale egli stesso combatté.

Nel 1856 Tolstoj cominciò a interessarsi di pedagogia e, durante alcuni viaggi all’estero (1857 e 1861), visitò le scuole elementari in Francia e in Germania per documentarsi e avviare un progetto educativo rivolto ai figli dei contadini di Jasnaja Poljana. Negli anni successivi al 1862 scrisse i suoi due maggiori romanzi, Guerra e pace (1865-1869) e Anna Karenina (1875-1877).

 

L’uomo ama, non perché sia suo interesse amar questo o quello, ma perché l’amore è l’essenza dell’anima sua; perché non può non amare.

 

 

Le opere

 

1852 Infanzia Racconto
1853 L’incursione Racconto
1854 Adolescenza Racconto
1855-56 Racconti di Sebastopoli Racconti
1856 Giovinezza Racconto
1859 La felicità domestica Racconto
1863 I cosacchi Romanzo
1865-69 Guerra e pace Romanzo
1875-77 Anna Karenina Romanzo
1880-82 Confessione Saggio sulla religione
1886 La morte di Ivan Il’ic Racconto
1888 La potenza delle tenebre Dramma
1887-89 La sonata a Kreutzer Racconto
1894 Il regno di Dio è in voi Saggio sulla religione
1895 Padrone e servitore Racconto
1898 Che cos’è l’arte? Saggio sull’estetica
1899 Resurrezione Romanzo

 

 

I capolavori

 

Ritenuto uno dei maggiori romanzi mai scritti, Guerra e pace è una grandiosa descrizione epica della società russa fra il 1805 e il 1815, negli anni cioè che di poco precedettero e seguirono l’invasione napoleonica. Capolavoro del realismo, fa agire centinaia di personaggi, alcuni dei quali storici, e descrive le battaglie di quegli anni, ma è soprattutto la cronaca della vita di cinque famiglie aristocratiche. I personaggi sono tratteggiati con grande concretezza e analizzati con acuta introspezione. La figura di Nataša Rostova, ad esempio, che alla vita chiede amore, matrimonio e figli, esprime la visione ottimistica dell’autore sullo scorrere della vita umana, ed esemplifica in termini narrativi la sua concezione del processo storico, secondo la quale la storia è soprattutto il risultato di forze anonime e accadimenti individuali, non il succedersi di eventi grandiosi determinati da figure carismatiche. La consapevolezza degli orrori della guerra e delle manchevolezze umane non soffoca il fondamentale ottimismo che pervade il romanzo né il suo messaggio, ispirato dalla felicità personale di Tolstoj in quegli anni creativi, che è quello di appassionato amore per la vita in tutte le sue manifestazioni.

Anna Karenina è uno dei capolavori psicologici moderni, in cui venne raggiunta una nuova compattezza narrativa. La visione esuberante di Guerra e pace cede qui a toni pessimistici e il conflitto interiore dei protagonisti rimane irrisolto. La passione adultera di Anna per il giovane ufficiale Vronskij, entro la cornice dell’alta società di San Pietroburgo, è in netto contrasto con l’amore, consacrato dal matrimonio, di Kitty e Constantin Levin, i quali impersonano la radicata convinzione di Tolstoj della superiorità della vita rurale, a contatto con la natura, rispetto al mondo urbano, fatuo e superficiale. Ciò non impedisce all’autore di manifestare profonda pietà per la sua eroina, condannata alla sofferenza e infine al suicidio per aver violato le regole sociali e morali.

 

Per quanto riguarda le trasposizioni cinematografiche dei libri di Tolstoj, ho apprezzato molto l’ultimo film su Anna Karenina (2013). L’impostazione delle scene infatti è particolare e tutti i personaggi sembrano muoversi su un palcoscenico, in un omaggio alle metafore di Tolstoj.

 

 

 

Fonte: Encarta

Nuova rubrica: Best seller inizialmente respinti #1 – Christie

Eccomi qui amici con una nuova interessante rubrica. Essendo autrice e lettrice, sono spesso a contatto con scrittori emergenti che faticano a farsi largo nel sovraffollato mondo dell’editoria. Spesso non importa quanto bene essi scrivano o quanto sia originale la loro storia: se non si ha la giusta “spinta” è difficile fare il salto e pubblicare con un grande editore (soprattutto qui in Italia). La vita dello scrittore emergente è densa di ostacoli e molti si lasciano buttare giù, finendo per mollare. Ma avete mai pensato a quanti libri best seller siano stati inizialmente respinti e rifiutati da editori e agenti letterari? La percentuale è molto più alta di quanto pensiate e soprattutto i rifiuti riguardano libri che, grazie alla perseveranza dei loro autori, hanno avuto giustizia e venduto infine milioni di copie. Durante le tappe di questa rubrica spulceremo un po’ tra i rifiuti più clamorosi della storia dell’editoria. Pronti per partire?

 

L’autrice che inaugura la rubrica è Agatha Christie. Chi non la conosce? Eppure l’inizio della carriera letteraria della famosa giallista non fu rose e fiori. Sopportò ben 5 anni di continui rifiuti prima di ottenere un contratto editoriale. Ebbe così l’occasione di dimostrare il proprio valore: i suoi libri sono tra i più venduti di tutti i tempi. Pare che soltanto William Shakespeare abbia venduto di più. Conosciamo meglio lei e le sue opere.

Agatha Christie

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Dama Agatha Mary Clarissa Miller, Lady Mallowan, nota come Agatha Christie (Torquay, 1891 – Wallingford, 1976), è stata una scrittrice britannica. Tra le sue opere si annoverano, oltre ai romanzi gialli che l’hanno resa celebre, anche alcuni romanzi rosa pubblicati sotto lo pseudonimo di Mary Westmacott.

Carriera

Giallista di fama mondiale, scrisse sempre i suoi romanzi con grande abilità, creando un’atmosfera intrigante attraverso personaggi e ambienti di facile riconoscibilità: descrizioni accurate, senso della suspense e della sintesi, ambientazioni realistiche dettagliate, personaggi mai privi di spessore o di caratterizzazione. I suoi personaggi maggiori sono famosi in tutto il mondo: i più celebri, protagonisti di buona parte della sua produzione letteraria e di una serie corposissima di adattamenti cinematografici e televisivi, sono l’investigatore belga Hercule Poirot e la simpatica vecchietta, nonché acuta indagatrice, Miss Marple. Ancora oggi i suoi romanzi sono pubblicati con successo in tutto il mondo. È la scrittrice inglese più tradotta. Nella lingua originale e in 44 lingue differenti i suoi libri contano complessivamente all’incirca due miliardi di copie vendute.

Biografia

Figlia di padre statunitense e madre britannica, Agatha cresce in una famiglia borghese e non frequenta alcuna scuola ma viene istruita dalla madre, Clara Boehmer, donna della buona società, nonché dalla nonna e dalle governanti di casa. Il padre, Fred Miller, agente di cambio, muore nel 1901; Agatha trascorre l’adolescenza tra lo studio e la vita di società all’interno della famiglia.

Nel frattempo si appassiona alla musica e, nel 1906, va a Parigi per studiare canto: vuole diventare una cantante lirica, ma gli studi non le danno molte soddisfazioni, e decide così di tornare in Inghilterra. Conosce Archibald Christie, colonnello della Royal Flying Corps, con cui si fidanza.

Durante la prima guerra mondiale, Agatha lavora presso l’ospedale di Torquay, e lì impara molto sui veleni e sui medicinali, cosa che le tornerà molto utile quando, ispirata da queste conoscenze, deciderà di scrivere romanzi gialli stimolata anche da una sorta di scommessa che aveva fatto con sua sorella la quale riteneva che non sarebbe riuscita a diventare una scrittrice di detective story. Il 24 dicembre 1914 si sposa con Archibald con una cerimonia semplice e da questo matrimonio nascerà nel 1919 la sua unica figlia, Rosalind.

In pieno conflitto mondiale inizia a scrivere il suo primo romanzo: The Mysterious Affair at Styles (Poirot a Styles Court); che ha come ambientazione la prima guerra mondiale ma che verrà però pubblicato solo successivamente, nel 1920. L’ispirazione di inventare un personaggio da romanzo giallo venne a Christie, oltre che dalla sua conoscenza sui veleni appresa al dispensario, dalla lettura dei libri che i degenti, rispediti al fronte, lasciavano in ospedale: libri che davano vita a personaggi ricchi di suggestione come l’Arsenio Lupin di Maurice Leblanc o il giornalista-investigatore Joseph Rouletabille, uscito dalla penna di Gaston Leroux. Le venne così l’idea di inventare a sua volta un personaggio che fosse abile come lo Sherlock Holmes di Conan Doyle ma che non gli somigliasse troppo, sia nell’aspetto che nella conduzione delle indagini.

Con un finanziamento del British Museum nel 1923 parte insieme al marito per un viaggio intorno al mondo; nello stesso anno firma un contratto con la rivista “Sketch” per scrivere dodici racconti che abbiano come protagonista Hercule Poirot.

Nel 1926 la vita di Christie è scossa da due eventi per certi versi traumatizzanti: muore sua madre e suo marito chiede il divorzio. Agatha improvvisamente scompare dalla sua casa, vagabondando in stato di amnesia (qualcuno però malignerà che potrebbe essersi trattato di una montatura pubblicitaria); il caso desta grande scalpore e dopo una decina di giorni Agatha, che viene ritrovata ad Harrogate, località termale dell’Inghilterra settentrionale, dove soggiornava in un albergo del posto registrata con il nome dell’amante del marito, non sa dare alcuna spiegazione al riguardo. Il suo biografo nel 2001 ha riscoperto un documento, secondo il quale Christie scappò e si nascose nell’hotel dove venne poi ritrovata, nella speranza che il marito Archie venisse incolpato dell’omicidio e dell’occultamento del cadavere della moglie; il tutto fatto perché Archie la tradiva con la sua segretaria.

Sempre nel 1926 parte per le isole Canarie con la figlia Rosalind. Dopo il divorzio Agatha conserverà comunque il cognome del marito, ma solo per ragioni commerciali.

Nei tre anni successivi la sua produzione letteraria sembra conoscere una certa stasi qualitativa e di vendite; poi, durante un viaggio in treno verso Bagdad, trova l’ispirazione per Assassinio sull’Orient Express, considerato uno dei suoi capolavori. Durante lo stesso viaggio fece la conoscenza dell’archeologo Max Mallowan, di molti anni più giovane, che sposerà poco tempo dopo (1930). Nell’hotel Pera Palace di Istanbul, la stanza in cui la Christie aveva alloggiato per qualche tempo durante il suo viaggio in Oriente è stata trasformata in un piccolo museo di cimeli e ricordi della scrittrice.

Nello stesso anno, Christie inizia anche la stesura di La morte nel villaggio, il primo romanzo con protagonista Miss Marple, una vecchietta tranquilla e assennata che vive nel paese in apparenza molto tranquillo di St. Mary Mead; fragile di aspetto, ma esperta di criminologia e di natura umana, Jane Marple alterna l’attività investigativa al lavoro a maglia.

All'attrice inglese Margaret Rutherford è legata l'immagine cinematografica di Miss Marple, il personaggio di eccentrica investigatrice creato dalla scrittrice Agatha Christie.

All’attrice inglese Margaret Rutherford è legata l’immagine cinematografica di Miss Marple, il personaggio di eccentrica investigatrice creato dalla scrittrice Agatha Christie.

Nel 1949 diventa di pubblico dominio lo pseudonimo di Mary Westmacott, col quale Christie firmò diversi romanzi di carattere sentimentale destinati, seppur di un certo interesse, a riscuotere un successo inferiore.

Dal 1952 viene ininterrottamente rappresentata in un teatro londinese una sua commedia, The Mousetrap (Trappola per topi), ispirata a un racconto della raccolta Three Blind Mice and Other Stories. Christie ha scritto altri diciassette lavori teatrali. L’ultimo romanzo che ha come protagonista Hercule Poirot (Sipario) venne pubblicato poco prima della morte dell’autrice; è proprio in quel romanzo che Agatha decide di far morire il suo famoso investigatore. La notizia della morte di Poirot era peraltro apparsa sulla prima pagina del Times il 6 agosto dello stesso anno.

Agatha Christie è scomparsa il 12 gennaio 1976 a Wallingford nella sua casa di campagna; verrà sepolta nel cimitero di Cholsey, nell’Oxfordshire. Nella stessa tomba, due anni dopo, verrà tumulata anche la salma del marito. In vita Agatha Christie ha guadagnato più di 20 milioni di sterline.

La britannica Agatha Christie (a sinistra) e la neozelandese Ngaio Marsh (a destra), qui ritratte al Savoy Hotel di Londra nel 1960, sono considerate tra le maggiori scrittrici di romanzi polizieschi del XX secolo. Agatha Christie è la creatrice dei celeberrimi Hercule Poirot e Miss Marple, mentre il personaggio più famoso creato da Ngaio Marsh è l'ispettore Roderick Alleyn, coadiuvato nelle indagini dall'ispettore Fox.

La britannica Agatha Christie (a sinistra) e la neozelandese Ngaio Marsh (a destra), qui ritratte al Savoy Hotel di Londra nel 1960, sono considerate tra le maggiori scrittrici di romanzi polizieschi del XX secolo. Agatha Christie è la creatrice dei celeberrimi Hercule Poirot e Miss Marple, mentre il personaggio più famoso creato da Ngaio Marsh è l’ispettore Roderick Alleyn, coadiuvato nelle indagini dall’ispettore Fox.

 

Curiosità

  • Nel 1954 Agatha Christie viene premiata con il “Grand Master of the Mystery Writers of America”, famoso premio letterario americano.
  • Agatha Christie ha scritto anche una propria autobiografia, pubblicata postuma nel 1976 (La mia vita), dove non fa parola della sua scomparsa del 1926.
  • Nel 1979 uscì un film sulla vita dell’autrice, Il segreto di Agatha Christie con protagonista Vanessa Redgrave, incentrato proprio sulla misteriosa ‘fuga’ del ’26 dopo la scoperta dei tradimenti del marito.
  • Il personaggio di Hercule Poirot è talmente famoso che persino in Nicaragua è stato emesso un francobollo con l’effigie del celebre investigatore.
  • Dai suoi romanzi sono stati tratti moltissimi film e sceneggiati televisivi, adattamenti che però Agatha, in alcuni casi, non ha mostrato di gradire.

 

I romanzi preferiti dall’autrice

In risposta alla lettera di un ammiratore giapponese, nel 1972 Agatha Christie stilò la sua personale (e per certi versi sorprendente) classifica:

  • Dieci piccoli indiani
  • L’assassinio di Roger Ackroyd
  • Un delitto avrà luogo
  • Assassinio sull’Orient Express
  • Miss Marple e i 13 problemi
  • Verso l’ora zero
  • Nella mia fine è il mio principio
  • E’ un problema
  • Le due verità
  • Il terrore viene per posta

 

 

Fonti: Encarta, Wikipedia

 

E voi quali libri avete letto di Agatha Christie? Quali sono i vostri preferiti?

La poesia del bianco e nero, l’impatto dei colori #6 – Luther King

Ciao amici,

oggi posto un articolo per la rubrica La poesia del bianco e nero, l’impatto dei colori, potete leggere gli altri articoli qui.

La fotografia ricolorata di questo appuntamento ha come protagonista Martin Luther King ed è stata scattata il 28 agosto del 1963 davanti al Lincoln Memorial di Washington, al termine di una marcia di protesta per i diritti civili, mentre il leader pacifista pronunciava il celebre discorso dal titolo I have a dream.

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Fonte: Wired

 

Alla fine non ricorderemo le parole dei nostri nemici ma i silenzi dei nostri amici.

 

Chi era Martin Luther King?

Martin Luther King (Atlanta 1929 – Memphis 1968) nato Michael King è stato un pastore protestante e uomo politico statunitense, uno dei più importanti leader del movimento dei neri americani per i diritti civili e principale sostenitore della resistenza non violenta alla segregazione razziale. Ordinato pastore nel 1947, durante gli studi si imbatté nelle opere di Gandhi, le cui idee divennero il nucleo della sua filosofia di protesta non violenta. Nel 1954 accettò la nomina di pastore di una chiesa battista a Montgomery (Alabama). In quello stesso anno, la Corte Suprema degli Stati Uniti decretò illegittima la segregazione razziale nelle scuole statali e, in attesa di quella decisione, la segregazione venne sfidata in tutti i luoghi pubblici degli stati del Sud.

Nel 1955 King guidò il boicottaggio dei mezzi pubblici di Montgomery: lo scopo era quello di protestare per l’arresto di Rosa Parks, una donna di colore che si era rifiutata di cedere il proprio posto a un passeggero bianco. Nel corso della protesta, durata 381 giorni, King fu arrestato e imprigionato, e fu minacciato di morte più volte. Il boicottaggio terminò nel 1956 con la sentenza della Corte che dichiarava illegale la segregazione razziale sui trasporti pubblici della città: l’evento rappresentò una grande vittoria per il movimento di protesta non violenta e il prestigio di Luther King aumentò notevolmente.

La vera misura di un uomo non si vede nei suoi momenti di comodità e convenienza bensì tutte quelle volte in cui affronta le controversie e le sfide.

Recatosi in India nel 1959, egli comprese più chiaramente la satyagraha, il principio della persuasione non violenta sostenuto da Gandhi, che King era deciso a utilizzare quale principale strumento di protesta sociale. L’anno seguente rinunciò al suo incarico a Montgomery per diventare pastore della chiesa battista di Ebenezer, ad Atlanta, ciò che gli permise di dedicarsi più attivamente alla direzione del nascente movimento per i diritti civili. In quello stesso periodo la leadership nera, che in precedenza si era limitata a promuovere cause e a proporre la riconciliazione, stava subendo una profonda trasformazione e chiedeva il cambiamento ‘con ogni mezzo possibile’. Emersero nuovi movimenti e gruppi più radicali, come i Black Muslims di Malcolm X, il Black Power e le Black Panthers, portatori di differenti ideologie e metodi di lotta contro il razzismo. Tuttavia il prestigio di King garantiva che la non violenza, per quanto non universalmente accettata, restasse il metodo ufficiale di resistenza.

Nel 1963 Luther King condusse un’intensa campagna per i diritti civili a Birmingham, in Alabama, e altre in tutto il Sud, che aveva come obiettivi l’iscrizione dei neri nelle liste elettorali, l’abolizione della segregazione razziale, il miglioramento della qualità dell’istruzione e degli alloggi. Durante queste dimostrazioni non violente, il leader fu arrestato più volte. Il 28 agosto 1963 guidò la storica marcia su Washington e pronunciò il famoso discorso che iniziava con le parole ‘I have a dream‘ (Ho un sogno). Nel 1964 fu insignito delpremio Nobel per la pace. Il 4 aprile del 1968 venne assassinato a Memphis, nel Tennessee, da un sicario; le circostanze della sua morte permangono tuttora oscure.

Abbiamo imparato a volare come gli uccelli, a nuotare come i pesci, ma non abbiamo imparato l’arte di vivere come fratelli.

 

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Il Centro Martin Luther King, che si trova nella città di Atlanta, in Georgia, è il centro di documentazione del Movimento per la difesa non violenta dei diritti della popolazione nera. Al suo interno si trova una chiesa battista, nella quale è sepolto Martin Luther King.

 

Fonte: Encarta

 

 

I have a dream

 

 

 

Per comprendere meglio il clima che si respirava in quegli anni consiglio di vedere il film The Butler – Un maggiordomo alla casa bianca.

 

Lettere d’amore, Il Corriere della Sera: #3 Sibilla Aleramo e Dino Campana

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Cari amici, state seguendo le uscite della collana Lettere d’amore de Il Corriere della Sera? Vi ricordo che al prezzo  di € 6,90 + il prezzo del quotidiano potrete acquistare in edicola, ogni martedì, 20 volumi con le corrispondenze appassionate dei grandi dell’Ottocento e del Novecento, da Neruda a Kafka, da Einstein a Frida Kalho, da Pessoa a Edith Piaf. Abbiamo parlato della prima uscita, dedicata a Pablo Neruda, in questo articolo, e della seconda, dedicata a Rainer Maria Rilke e Lou Andreas Salomé, in questo articolo. Se perdete qualche volume potete ordinarlo direttamente qui.

 

Domani in edicola la terza uscita tutta italiana.

Quel viaggio chiamato amore, di Sibilla Aleramo e Dino Campana

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Per molti anni Sibilla Aleramo conservò gelosamente la corrispondenza che testimoniava la sua storia d’amore con Dino Campana, insieme ad alcuni versi e scritti del poeta marradese, qualche cartolina e una copia dedicata dei Canti. I problemi di salute mentale di Campana, responsabili della fine della relazione tra i due, non hanno in realtà influito sui sentimenti della Aleramo dapprincipio, che si prestò anche economicamente al sostegno dell’amante. Tuttavia, man mano che il tempo passava, divenne chiaro quanto una relazione del genere fosse insostenibile. Non si trattò di un abbandono repentino da parte della Aleramo, ma della maturazione di una consapevolezza. Senza fantasticherie macabre, questo libro ci guida in una storia d’amore così estrema, forte, in punta di piedi compiendo un viaggio, “un viaggio chiamato amore” come lo definì Campana stesso.

Qualche verso di Sibilla Aleramo:

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Sibilla Aleramo

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Sibilla Aleramo è lo pseudonimo di Rina Faccio (Alessandria 1876 – Roma 1960), poetessa e scrittrice italiana. Autodidatta, si impegnò con intensità nelle problematiche della condizione femminile, tanto da essere definita femminista ante litteram. Sempre attiva nella vita sociale e politica, affiancò il poeta Giovanni Cena nel suo impegno filantropico e sociale nell’Agro romano, firmò nel 1925 il manifesto degli intellettuali antifascisti, militò a partire dal primo dopoguerra nel Partito comunista. Ebbe una vita sentimentale inquieta: si sposò nel 1893, ma dopo pochi anni lasciò la famiglia; intrecciò relazioni sentimentali con letterati e artisti, tra cui Vincenzo Cardarelli, Scipio Slataper, Giovanni Boine, Umberto Boccioni. Una relazione particolarmente intensa e drammatica fu quella con Dino Campana, di cui rimane la testimonianza dello scambio epistolare raccolto e pubblicato nel 1958 (Lettere). Il suo primo romanzo, Una donna (1906), di carattere autobiografico, riscontrò grande successo ed è ancora oggi considerato una delle sue prove più convincenti. I suoi scritti, sia in prosa sia in versi, possono essere ricondotti all’inquietudine che scaturisce dall’indagine autobiografica nel difficile rapporto con il mondo, caratteristiche riconducibili all’orizzonte espressionistico della letteratura vociana. Tra le sue opere si ricordano per la prosa Il passaggio (1919), Amo dunque sono (1927), Il frustino (1932), Dal mio diario 1940-44 (1945), Gioie d’occasione e altre ancora (1954); nel 1947 pubblicò la raccolta di poesie Selva d’amore, insignita del premio Viareggio, nella quale confluirono le prove poetiche degli anni precedenti, e ancora le poesie di Aiutatemi a dire del 1951 e di Luci della mia sera del 1956.

Dino Campana

dino-campanaDino Campana (Marradi, Firenze 1885 – Castel Pulci, Firenze 1932) fu un poeta italiano. Maestro elementare, frequentò le facoltà di chimica a Bologna e di farmacia a Firenze. Nel 1906, in seguito a disturbi nervosi che l’avrebbero perseguitato tutta la vita, fu ricoverato una prima volta nel manicomio di Imola. Dimesso anche se non guarito, iniziò una vita vagabonda tra Europa e America meridionale. Per sopravvivere fece i mestieri più umili e vari (poliziotto, meccanico, venditore di stelle filanti); a Saint-Gilles, in Francia, venne arrestato per vagabondaggio.

Verso la fine del 1912 cominciò a comporre i versi e le prose liriche che costituiscono il primo nucleo dei Canti orfici, una raccolta di straordinaria novità nel panorama della poesia italiana. Il manoscritto, intitolato Il più lungo giorno, che aveva sottoposto al giudizio di Giovanni Papini e Ardengo Soffici, fu perso da quest’ultimo durante un trasloco. Il testo dell’edizione del 1914 (stampata a sue spese) fu perciò ricostruito da Campana sulla base degli appunti preparatori, che erano numerosi per via della sua abitudine di scrivere e modificare ossessivamente le poesie. Campana riprese poi a girovagare, non solo in Italia. Nel 1917 venne arrestato per vagabondaggio a Novara e nel gennaio dell’anno seguente fu ricoverato nell’ospedale psichiatrico dove rimase fino alla morte, a Castel Pulci, nei pressi di Firenze.

La novità della sua poesia, legata più alle esperienze straniere che alla tradizione italiana, la sua formazione irregolare e da autodidatta, e la sua esistenza disordinata misero subito in difficoltà la critica che ne tentava un’inquadramento all’interno di schemi interpretativi. Nacque così un ‘mito’ che impedì a lungo una corretta valutazione della sua opera, considerata solo oggi di primissimo piano. Si tratta di una poesia sperimentale ma non avanguardistica, di una ricerca, cioè, nuova ma non deliberatamente provocatoria nei confronti del pubblico. Campana racconta esperienze visionarie in versi musicali in cui la componente coloristica è fondamentale. Ma ciò avviene non per un’operazione preliminare, fredda e programmatica: la sua è una poesia spontanea e vissuta, legata strettamente all’esistenza irregolare dell’autore (il tema del viaggio è centrale), che ricorre a figurazioni potenti, alla schietta rappresentazione di immagini primitive e ossessive. Il riferimento all’antica religione greca dei misteri che compare nel titolo della sua opera più famosa richiama la volontà di cantare e rivelare gli aspetti più profondi e segreti del reale.

Fonte: Encarta

 

 

Non perdete la quarta uscita, in edicola martedì prossimo:

Lettere alla fidanzata, di Fernando Pessoa.

Lettere d’amore, Il Corriere della Sera: #2 Rainer Maria Rilke e Lou Andreas Salomé

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Continuano le uscite della collana Lettere d’amore con Il Corriere della Sera, al prezzo  di € 6,90 + il prezzo del quotidiano. 20 volumi con le corrispondenze appassionate dei grandi dell’Ottocento e del Novecento, da Neruda a Kafka, daEinstein a Frida Kalho, da Pessoa a Edith Piaf. Vi ho parlato della prima uscita, dedicata a Pablo Neruda, in questo articolo. E se perdete qualche volume potete ordinarlo direttamente qui.

Oggi in edicola la seconda uscita.

Da qualche parte nel profondo, di Rainer Maria Rilke e Lou Andreas Salomé

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Si tratta della corrispondenza, compresa tra il 1897 e il 1926, tra il poeta e drammaturgo austriaco Rilke e la scrittrice e saggista tedesca Salomé.

Nelle numerose lettere che si scambiarono, selezionate in questa raccolta, il poeta si appoggia alla Salomé nello smarrimento del periodo parigino, nel ricorrente dubbio creativo, nella paura della malattia, riconoscendola come unica interlocutrice attenta e presente nei momenti decisivi del suo tormentato percorso. Non mancano pagine intrise di poesia:

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Rainer Maria Rilke

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Rainer Maria Rilke (Praga 1875 – Valmont, Montreux 1926) fu un poeta austro-tedesco di origine boema; il nitore, la musicalità e il rigoroso simbolismo del suo verso fanno di lui uno dei più importanti lirici moderni. Dopo un’infanzia solitaria e segnata dall’infelice esperienza dell’Accademia militare, studiò letteratura e storia dell’arte presso le università di Praga, Monaco e Berlino. Esordì come poeta con una raccolta di liriche d’amore intitolata Vita e canti (1894). Nel 1897 conobbe Lou Andreas-Salomé, con la quale fece due viaggi in Russia, dove incontrò Tolstoj. Tali esperienze trovarono espressione poetica in Storie del buon Dio (1900-1904). Dopo il 1900 Rilke purificò la sua poesia dallo sfumato lirismo che aveva in parte mutuato dai simbolisti francesi ed elaborò lo stile preciso e concreto che contraddistingue i componimenti del Libro delle immagini (1902, ampliato nel 1906) e del Libro d’ore (1905).

Trasferitosi a Parigi, nel 1902 conobbe lo scultore Auguste Rodin e lavorò come suo segretario dal 1905 al 1906. Da Rodin, Rilke imparò a considerare il lavoro dell’artista un’esperienza capace di trascendere l’angoscia della morte. Il frutto poetico di questo periodo fu raccolto in Nuove poesie (2 volumi, 1907-1908). Fino allo scoppio della prima guerra mondiale Rilke fece numerosi viaggi in Europa e in Africa, soggiornando dal 1910 al 1912 nel castello di Duino, nei pressi di Trieste, dove compose le prime due delle dieci Elegie duinesi (1923). Con la sua più celebre opera in prosa, un romanzo in forma di diario iniziato a Roma nel 1904 dal titolo I quaderni di Malte Laurids Brigge (1910), narrò con immagini altamente simboliche e ricche di spunti autobiografici le esperienze di vita parigina di un giovane scrittore danese.

Rilke risiedette a Monaco per quasi tutta la durata della prima guerra mondiale e nel 1919 si trasferì in Svizzera dove, con l’eccezione di qualche visita occasionale a Parigi e Venezia, rimase fino al termine dei suoi giorni, completando le Elegie duinesi e componendo i Sonetti a Orfeo (1923); questi due cicli poetici, considerati l’apice della sua produzione, cantano l’unità della vita e della morte, presentando la morte come trasformazione della vita in un’impalpabile realtà interiore.

Lou Andreas Salomé

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Lou Andreas Salomé (San Pietroburgo 1861 – Gottinga 1937) fu una scrittrice e psicoanalista tedesca. Frequentò l’università di Zurigo e cominciò presto a scrivere versi. Nel 1882 si recò a Roma, dove conobbe il filosofo Paul Rée e, attraverso di lui, Friedrich Nietzsche. Dopo il matrimonio, nel 1887, con il professore universitario Friedrich Carl Andreas, continuò a viaggiare e a scrivere, ed ebbe relazioni con personaggi in vista del mondo culturale, fra cui il poeta Rainer Maria Rilke. Nel 1911 conobbe Sigmund Freud e divenne sua confidente nonché discepola. Negli ultimi decenni della sua vita rimase accanto ad Andreas ed esercitò la psicoanalisi.

Benché sia autrice di otto romanzi, nei quali trattò temi quali la religione, il sesso e la psicologia femminile, è ricordata soprattutto per la sua opera saggistica. La monografia (1892) dedicata alle eroine di Henrik Ibsen e quella (1894) sulle opere di Nietzsche ricevettero il plauso della critica. Tra le altre opere figurano Il mio ringraziamento a Freud (1931) e Uno sguardo sulla mia vita (1951).

Fonte: Encarta

 

 

La terza uscita, in edicola martedì prossimo, sarà tutta italiana:

Quel viaggio chiamato amore – Lettere 1916-18, di Sibilla Aleramo e Dino Campana.

 

Lettere d’amore, Il Corriere della Sera: corrispondenze appassionate dei grandi dell’Ottocento e del Novecento – #1 Pablo Neruda

 

Il Corriere della Sera inaugura una nuova collana di libri dal titolo “Lettere D’amore”, in edicola dal 15 luglio al prezzo  di € 6,90 + il prezzo del quotidiano.

Si tratta di 20 volumi con le corrispondenze appassionate dei grandi dell’Ottocento e del Novecento, da Neruda a Kafka, da Einstein a Frida Kalho, da Pessoa a Edith Piaf.

Grazie a Corriere della Sera possiamo conoscere letterati, artisti, scienziati, personaggi in una nuova e sorprendente veste, quella di innamorati. Un viaggio in un sentimento forte, che da sempre smuove animi e continenti. Storie di attesa, di tenerezza, desiderio, di assenza e di follia. Perché chiunque abbia amato ha affidato almeno una volta nella vita la propria passione, i propri tormenti e le proprie illusioni a una lettera.

Il Corriere della Sera ha inoltre lanciato un’iniziativa collegata alla collana.

Sul  proprio sito, nella  sezione “cultura”,  la redazione ha pensato di dedicare uno spazio ai propri lettori, spazio nel quale condividere le proprie dichiarazioni, lettere d’amore, messaggi inviati, ricevuti o semplicemente i messaggi d’amore che più li ha emozionati. Questa è una cosa davvero interessante a mio parere anche a livello sociale, pedagogico – non dite poi che la formazione accademica non influenza l’approccio alle cose di una persona, perché nel mio caso è proprio così! Per esempio: come si è evoluta la comunicazione amorosa ai tempi del web? Passate a dare un’occhiata, cliccando qui.

La prima uscita: Pablo Neruda

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Che gioia vedere questo prato verde, queste montagne oscurate dalla nebbia del crepuscolo, e sentirmi io, in prima persona, libero da tanta stupidità, agile e solo. Ah! Se ci fossi tu, Albertina!

La prima uscita, in edicola martedì 15 luglio, è “Lettere d’amore ad Albertina Rosa” di Pablo Neruda, uno dei primi e segreti amori del poeta cileno.

L’amore tra i due risale al 1921 quando i giovani si trasferiscono a Santiago del Cile per frequentare i corsi dell’università. Per il poeta che viene dalla provincia è la scoperta di un amore cittadino, concreto, sessuale, fiorito nella misera vita studentesca. La passione divorante si riversa subito sulla carta e s’incendia soprattutto durante le vacanze, quando i due innamorati si separano per far ritorno alle rispettive famiglie. Il tempo e gli eventi non sembrano spezzare il legame: l’ultima lettera del poeta cileno è del luglio 1932, due anni dopo il suo matrimonio con Maria Antonieta Agenaar Vogelzanz e quattro anni prima di quello di Albertina con il poeta Ángel Cruchaga Santa María, amico intimo di Neruda. Le strade dei due si dividono ma in queste pagine l’amore di gioventù resta vivo per sempre.

Per molti anni ci si è chiesto chi fosse “Mariposa”, la “farfalla” cui sono dedicati alcuni dei versi d’amore più celebri di Pablo Neruda. Il mistero fu svelato due anni dopo la morte del poeta, quando Albertina Rosa Azócar Soto decise di pubblicare le lettere ricevuta da Neruda.

Il testo in italiano ora edito segue fedelmente gli originali e vale a documentare un momento particolarmente rilevante della biografia di Pablo Neruda.

La tua bella lettera lilla merita il mio inchiostro color ala di cocorita. Per fare il mio dovere con te, ti rispondo immediatamente, di giorno. Ma alla luce bianchissima del giorno non mi viene in mente niente niente che sia degno di Arabella. Per lo più vorrei parlarti nei baci. Così riuscirei a spiegarti il mio bisogno di te, la mia sete di te. Il desiderio di averti al mio fianco.

 

 

L’autore

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Pablo Neruda, pseudonimo di Ricardo Neftalí Reyes Basoalto (Parral 1904 – Santiago 1973), fu un poeta cileno, ritenuto tra le voci più significative del XX secolo. Figlio di un ferroviere, cominciò a comporre versi fin dall’adolescenza. Alla sua prima raccolta pubblicata in volume, Crepuscolario (1923), ancora legata alle forme estetizzanti del decadentismo, seguirono nel 1924 le Venti poesie d’amore e una canzone disperata, grazie alle quali Neruda si affermò come il più famoso giovane poeta dell’America latina. Nelle composizioni di Residenza sulla terra (1933), scritte dopo alcuni anni di servizio diplomatico in Estremo Oriente, il poeta diede vita a immagini cupe e disperate di un mondo distrutto dalla civiltà moderna. Se con quest’opera la sua poesia si orientò verso l’espressionismo e il surrealismo, in seguito la sua produzione sarebbe approdata a uno stile realista, sobrio ed essenziale.

Trascorso un periodo in Spagna all’epoca della guerra civile, Neruda ritornò in Cile, si iscrisse al Partito comunista e fu eletto senatore, ma nel 1948 dovette riparare in esilio a seguito di un processo politico intentatogli dal presidente del Consiglio Gonzales Videla. Il primo frutto di questi anni difficili fu Canto generale (1950), poema epico che celebra la storia e la natura dell’America latina dal presente al lontano passato precolombiano. In Italia tra il 1951 e il 1952, compose I versi del capitano (1952) e Le uve e il vento (1954), mentre dal 1952 al 1957, dopo esser tornato in Cile, compose le Odi elementari, in cui fece assurgere a dignità poetica gli oggetti più umili e gli aspetti più semplici del vivere quotidiano. Sostenitore di Salvador Allende, con l’avvento al potere dei socialisti ottenne la carica di ambasciatore del Cile in Francia. Tornato in patria nel 1972, dopo aver ricevuto, nel 1971, il premio Nobel per la letteratura e il premio Lenin per la pace, morì pochi giorni dopo il colpo di stato di Pinochet, che segnò la fine del governo Allende e l’instaurazione della dittatura.

Fonte: Encarta

 

Le prossime uscite

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La seconda uscita, in edicola il 22 luglio, invece è “Da qualche parte nel profondo” di Rainer Maria Rilke e Lou Andreas Salomé. Il poeta, drammaturgo e scrittore austriaco conosce a Monaco la Salomè, scrittrice e saggista tedesca di origine russa e amica di Nietzsche. Nelle numerose lettere che si scambiarono, selezionate in questa raccolta, il poeta praghese si appoggia a Lou nello smarrimento del periodo parigino, nel ricorrente dubbio creativo, nella paura della malattia, riconoscendola come unica interlocutrice attenta e presente nei momenti decisivi del suo tormentato percorso.

Una collezione preziosa, da non perdere.

Vi lascio l’indirizzo dello store del Corriere, dove potete prenotare una singola copia o addirittura tutte:

Buona lettura!

Viva la Repubblica

 

Quanto ci sarebbe da dire sul nostro caro Paese, soprattutto riguardo agli avvenimenti degli ultimi anni. Tra alti e bassi, tuttavia dovremmo sempre essere fieri della nostra patria e della Repubblica. Inoltre, considerando le fantastiche performance televisive e pubblicitarie del principe Emanuele Filiberto, è un bene che la monarchia sia stata abolita.

 

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2 giugno 1946.
Con il referendum sulla forma istituzionale dello Stato, indetto a suffragio universale (per la prima volta votarono anche le donne), il popolo italiano scelse la repubblica. Nella foto, un gruppo di cittadini in piazza del Duomo, a Milano, apprende la notizia da un quotidiano.

Fonte: Encarta

Giornata mondiale contro l’omofobia

La Giornata internazionale contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia (o IDAHOBIT, acronimo di International Day Against Homophobia, Biphobia and Transphobia) è una ricorrenza promossa dall’Unione europea che si celebra dal 2007 il 17 maggio di ogni anno.

L’obiettivo della giornata è quello di promuovere e coordinare eventi internazionali di sensibilizzazione e prevenzione per contrastare il fenomeno dell’omofobia, della bifobia e della transfobia.

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Ideata da Louis-Georges Tin, curatore del Dictionnaire de l’homophobie (Presses Universitaires de France, 2003), la prima Giornata internazionale contro l’omofobia ha avuto luogo il 17 maggio 2005, a 15 anni esatti dalla rimozione dell’omosessualità dalla lista delle malattie mentali nella classificazione internazionale delle malattie pubblicata dall’Organizzazione mondiale della sanità.

Nel 2007, in seguito ad alcune dichiarazioni di autorità polacche contro la comunità LGBT, l’Unione europea ha istituito ufficialmente la giornata contro l’omofobia sul suo territorio. Alcuni estratti del testo approvato.

Nel 2009 la campagna IDAHO viene incentrata sulla transfobia, ed in particolare sugli atti di violenza contro le persone transgender. Il nome ufficiale diventa pertanto “Giornata Internazionale contro l’omofobia e la transfobia”.

Fonte: Wikipedia

Il sangue nero dei Romanov – Dora Levy Mossanen

Salve amici, come va?

Vi parlo della mia ultima lettura e colgo l’occasione per augurare a tutti buona Pasqua.

 

 

IL SANGUE NERO DEI ROMANOV

Dora Levy Mossanen

Newton Compton

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Trama

Darja ha 104 anni ed è ancora una donna bellissima e dal fascino misterioso. Vive in un antico e fatiscente palazzo e intorno a lei svolazza sempre un nugolo di farfalle. Nessuno sa con certezza chi sia in realtà: l’unico indizio relativo al suo passato è un preziosissimo ciondolo, un uovo Fabergé tempestato di diamanti e pietre preziose da cui non si separa mai. Ha dei poteri soprannaturali e racconta di essere stata la tutrice del piccolo Aleksej, l’erede al trono dei Romanov. È passato quasi un secolo da quando la Rivoluzione ha annegato nel sangue il fasto e la ricchezza degli zar: i membri della famiglia reale sono stati uccisi, il loro nome dannato, i simboli del potere distrutti, eppure pare che Aleksej sia scampato all’eccidio… Darja non lo ha mai dimenticato e quando riceve una convocazione urgente da parte dell’Associazione della nobiltà russa le sue speranze riprendono corpo… “Il sangue nero dei Romanov” è una storia densa di magia e di avventura, amore e speranza, in cui rivive l’atmosfera lussureggiante di una corte opulenta e ricca di meraviglie, ma destinata a un inevitabile tramonto.

L’autrice

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Dora Levy Mossanen è nata in Israele e si è trasferita in Iran quando aveva nove anni. All’inizio della rivoluzione islamica, la sua famiglia fu costretta a lasciare l’Iran. Si stabilì a Los Angeles. Ha conseguito una laurea in Letteratura Inglese presso la University of California Los Angeles e un Master di Laurea scrittura professionale presso la University of Southern California. La Mossanen è autrice di numerosi bestseller tradotti in varie lingue. Scrive per l’ Huffington Post e per il Jewish Journal.

Recensione

Era da un po’ che non leggevo di storie sulla Russia dei primi del Novecento, ambientazione che ho sempre adorato, perciò questo libro ha incontrato da subito il mio favore. La protagonista del romanzo, Darja, è tra l’altro un personaggio particolare, una sorta di veggente e guaritrice che svolge un ruolo importante alla corte degli zar. Le vicende degli imperatori di Russia sono narrate in chiave affettiva, quindi molto di parte, da Darja; per gran parte della narrazione combaciano con ciò che ho letto in altri romanzi con la stessa ambientazione. Fulcro dell’intera vicenda è lo zarevič Aleksej Romanov, malato di emofilia.

Le atmosfere della corte imperiale sono descritte con dovizia di particolari e talvolta anche in maniera un po’ lenta, tuttavia interessante risulta il contrasto tra l’inizio del Novecento e gli anni Novanta dello stesso secolo in cui ritroviamo Darja ormai centenaria. Un romanzo che non eccelle ma non delude, una pellicola che mostra un mondo che non c’è più, una visione filtrata da una veggente che vede tutto color rosso sangue.

Valutazione:

3

Approfondimenti

Romanov

Dinastia che regnò in Russia dal 1613 fino alla Rivoluzione russa del 1917. I Romanov erano discendenti di un aristocratico moscovita la cui figlia, Anastasia Romanovna, sposò lo zar Ivan IV il Terribile. Michele III (1613-1645) fu il primo dei Romanov ad ascendere al trono di Russia. Gli succedettero Alessio I (1645-1676), Teodoro III (1676-1682), Pietro il Grande (1682-1725), Caterina I (1725-1727), Pietro II (1727-1730), Anna Ivanovna (1730-1740), Ivan VI (1740-1741), Elisabetta (1741-1762), Pietro III (1762), Caterina la Grande (1762-1796), Paolo I (1796-1801), Alessandro I (1801-1825), Nicola I (1825-1855), Alessandro II (1855-1881), Alessandro III (1881-1894) e Nicola II (1894-1917).

Salito al trono durante la guerra di Crimea, lo zar Alessandro II firmò il trattato di Parigi (1856) che pose fine al conflitto e si impegnò in una serie di riforme volte a modernizzare il paese. La più importante fu l'abolizione della servitù della gleba, nel 1861.

Salito al trono durante la guerra di Crimea, lo zar Alessandro II firmò il trattato di Parigi (1856) che pose fine al conflitto e si impegnò in una serie di riforme volte a modernizzare il paese. La più importante fu l’abolizione della servitù della gleba, nel 1861.

 

Nicola II Romanov

Nicola II Romanov (Zarskoje Selo, oggi Puškin 1868 – Jekaterinburg 1918) fu l’ultimo zar di Russia (1894-1917); fu deposto durante la Rivoluzione russa del 1917.

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L’ASCESA AL TRONO

Primogenito dello zar Alessandro III, gli succedette sul trono di Russia lo stesso anno in cui sposò Alice d’Assia, principessa tedesca che prese il nome di Alessandra quando si convertì al cristianesimo ortodosso; cercò di continuare la politica assolutista paterna, ma le mutate condizioni storiche lo costrinsero a fronteggiare una situazione molto più drammatica, e Nicola si rivelò incapace di dominare gli eventi.

Favorevole al mantenimento della pace fra le potenze europee, si fece promotore delle due conferenze dell’Aia (1899 e 1907) che istituirono la Corte permanente d’arbitrato per la soluzione pacifica dei conflitti internazionali. Ciò, tuttavia, non impedì alla Russia di tentare una politica espansionistica in Estremo Oriente: i progetti di annessione della Manciuria e della Corea portarono alla disastrosa guerra russo-giapponese (1904-1905).

IL REGIME DI MONARCHIA ASSOLUTA

In patria la disfatta militare fu accolta con una serie di sollevazioni degli operai e dei contadini: l’ordine di sparare su un gruppo di dimostranti che portavano una petizione allo zar fece scoppiare, nel 1905, la prima Rivoluzione russa, che costrinse Nicola a promulgare la riforma costituzionale dello stato e ad accettare l’elezione della prima assemblea legislativa, la Duma (1906), che di lì a poco, tuttavia, avrebbe ostacolato e infine sciolto, riaffermando i poteri assoluti della monarchia. Nel 1911, dopo l’assassinio del primo ministro Pëtr Stolypin, Nicola impresse un’ulteriore svolta conservatrice al governo, ormai quasi del tutto dominato dal monaco Rasputin, insediatosi a corte per volere della zarina.

Il 22 gennaio 1905 una folla di 200.000 lavoratori si raccolse davanti al Palazzo d'Inverno di San Pietroburgo per protestare contro le brutali condizioni di lavoro in Russia: il corteo intendeva presentare una petizione allo zar in nome delle riforme politiche. Lo zio di Nicola II ordinò alla guardia imperiale di fare fuoco sui dimostranti. Il massacro, in cui morirono un centinaio di persone, fu uno degli eventi cruciali della rivoluzione russa del 1905.

Il 22 gennaio 1905 una folla di 200.000 lavoratori si raccolse davanti al Palazzo d’Inverno di San Pietroburgo per protestare contro le brutali condizioni di lavoro in Russia: il corteo intendeva presentare una petizione allo zar in nome delle riforme politiche. Lo zio di Nicola II ordinò alla guardia imperiale di fare fuoco sui dimostranti. Il massacro, in cui morirono un centinaio di persone, fu uno degli eventi cruciali della rivoluzione russa del 1905.

L’ABDICAZIONE

Nel tentativo di fronteggiare la grave situazione interna, lo zar coinvolse la Russia nella prima guerra mondiale: dopo le prime sconfitte, nel 1915 destituì il granduca Nicola e assunse personalmente il comando dell’esercito. Per questo motivo, dopo lo scoppio della Rivoluzione bolscevica, fu ritenuto il diretto responsabile delle sconfitte subìte nel corso del conflitto e delle sofferenze patite dal popolo russo: costretto ad abdicare nel 1917, fu tenuto per alcuni mesi prigioniero e infine giustiziato con tutta la famiglia per ordine del soviet degli Urali.

Nicola II, ultimo zar della Russia (1894-1917), insieme alla moglie Alessandra, alle duchesse Olga e Maria, alle granduchesse Anastasia e Tatiana e al figlio Alexis. Nicola continuò la politica assolutista del padre opponendosi alle richieste sempre più insistenti di apertura alla democrazia. Dopo la rivoluzione del 1917 fu costretto ad abdicare, venne imprigionato per qualche mese e infine fu giustiziato dai bolscevichi con tutta la famiglia a Jekaterinburg nella notte tra il 16 e il 17 luglio 1918.

Nicola II, ultimo zar della Russia (1894-1917), insieme alla moglie Alessandra, alle duchesse Olga e Maria, alle granduchesse Anastasia e Tatiana e al figlio Alexis. Nicola continuò la politica assolutista del padre opponendosi alle richieste sempre più insistenti di apertura alla democrazia. Dopo la rivoluzione del 1917 fu costretto ad abdicare, venne imprigionato per qualche mese e infine fu giustiziato dai bolscevichi con tutta la famiglia a Jekaterinburg nella notte tra il 16 e il 17 luglio 1918.

Fonte: Encarta

Accadde oggi: nel 1931 nasceva Alda Merini

Ogni poeta vende i suoi guai migliori.

Alda Merini

Alda Merini (Milano, 21 marzo 1931 – Milano, 1º novembre 2009) è stata una poetessa, aforista e scrittrice italiana.

Figura appartata, esordì pubblicando nel 1953 La presenza di Orfeo, cui fece seguito, nel 1955, Paura di Dio. Non molto tempo dopo, segnata dalla malattia e da una lunga esperienza manicomiale, si chiuse in un silenzio pressoché totale, finché, con gli auspici di Giorgio Manganelli e di Maria Corti, riprese a scrivere e a pubblicare. I suoi versi, insieme delicati e irruenti, esprimono una sofferta ansia ascetica.

Nel 1979 Merini da vita ai suoi testi più intensi sulla drammatica e sconvolgente esperienza del manicomio, testi contenuti in quello che può essere inteso, come scrive Maria Corti “il suo capolavoro”: “La Terra Santa” con la quale vincerà nel 1993 il Premio Librex Montale.
Ma le pene della scrittrice continuano. Il 7 luglio 1983 muore il marito, e Alda, rimasta sola e ignorata dal mondo letterario, cerca inutilmente di diffondere i propri versi. Racconta Maria Corti che lei stessa si era recata presso i maggiori editori italiani senza alcun successo, fintanto che, nel 1982, dopo aver raccontato a Paolo Mauri (che a quei tempi dirigeva la rivista “Il cavallo di Troia”) la sua amarezza, egli le offrì uno spazio sulla sua rivista per trenta poesie da pubblicare sul n° 4, inverno 1982 – primavera 1983 che, insieme a lei, aveva scelto da un dattiloscritto di un centinaio di testi; in seguito, insieme all’editore Scheiwiller, avrebbero aggiunto altre dieci liriche, e nel 1984 veniva dato alla stampa “La Terra Santa”.

Mi sveglio sempre in forma e mi deformo attraverso gli altri.

 

Nel luglio del 1986, dopo aver sperimentato nuovamente gli orrori dell’Ospedale Psichiatrico di Taranto, fa ritorno a Milano e inizia una terapia con la dottoressa Marcella Rizzo alla quale dedica più di una poesia. Nello stesso anno riprende a scrivere e ad incontrare i vecchi amici.

Fra le sue molte opere prodotte dopo questo ritorno si ricordano Testamento (1988), Vuoto d’amore (1991), Ballate non pagate (1995), La pazza della porta accanto (1995), La vita facile (1996), Un’anima indocile (1997), Superba è la notte (2000). È stata anche autrice di prosa (L’altra verità. Diario di una diversa, 1986; Delirio amoroso, 1989).

Molto importante è il carattere mistico della più recente poetica di Alda Merini, che in qualche modo è connessa alla prima vena creativa con la quale esordì e che aveva in sé una forte componente di misticismo.

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Non cercate di prendere i poeti perché vi scapperanno tra le dita.

Fonti: Encarta, Wikipedia

8 marzo

Auguri alle donne, a tutte, che oltre a numerosi potenziali difetti, hanno un grande pregio, un dono: creare la vita. Quello è accompagnato, quasi sempre, dalla naturale inclinazione all’allevamento dei figli. Non sbaglio dunque a dire che le donne portano in sè il futuro.

Prima di cercare il rispetto degli altri, rispettatevi da sole, accettatevi, amatevi. Il primo passo verso molte strade.

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La poesia del bianco e nero, l’impatto dei colori #3 – Einstein

Oggi diamo un tocco di colore al fisico più famoso di tutti i tempi.

Albert Einstein

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Albert Einstein (Ulma 1879 – Princeton, New Jersey 1955) fu un fisico tedesco naturalizzato statunitense. Trascorse gli anni giovanili a Monaco, città nella quale la famiglia, di origine ebraica, possedeva una piccola azienda che produceva macchinari elettrici, e già da ragazzo mostrò una notevole predisposizione per la matematica.

Quando ripetuti dissesti finanziari costrinsero la famiglia a lasciare la Germania e a trasferirsi in Italia, a Milano, decise di interrompere gli studi. Trasferitosi in Svizzera, concluse le scuole superiori ad Arrau e si iscrisse al Politecnico di Zurigo, dove si laureò nel 1900. Lavorò quindi come supplente fino al 1902, anno in cui trovò un impiego presso l’Ufficio Brevetti di Berna.

LE PRIME PUBBLICAZIONI SCIENTIFICHE

Nel 1905 Einstein conseguì il dottorato con una dissertazione teorica sulle dimensioni delle molecole; pubblicò inoltre tre studi teorici di fondamentale importanza per lo sviluppo della fisica del XX secolo. Nel primo di essi, relativo al moto browniano, fece importanti previsioni, successivamente confermate per via sperimentale, sul moto di agitazione termica delle particelle distribuite casualmente in un fluido.

Il secondo studio, sull’interpretazione dell’effetto fotoelettrico, conteneva un’ipotesi rivoluzionaria sulla natura della luce; egli affermò che in determinate circostanze la radiazione elettromagnetica ha natura corpuscolare, ipotizzando che l’energia trasportata da ogni particella che costituiva il raggio luminoso, denominata fotone, fosse proporzionale alla frequenza della radiazione, secondo la formula E = hu, dove E rappresenta l’energia della radiazione, h è una costante universale nota come costante di Planck (vedi Max Planck), e u è la frequenza. L’affermazione, in base alla quale l’energia contenuta in un fascio luminoso è trasferita in unità individuali o “quanti”, fu confermata sperimentalmente dieci anni dopo da Robert Andrews Millikan.

 

LA TEORIA DELLA RELATIVITÀ RISTRETTA

Il terzo e più importante studio del 1905, dal titolo Elettrodinamica dei corpi in movimento, conteneva la prima esposizione completa della teoria della relatività ristretta, frutto di un lungo e attento studio della meccanica classica di Isaac Newton, delle modalità dell’interazione fra radiazione e materia, e delle caratteristiche dei fenomeni fisici osservati in sistemi in moto relativo l’uno rispetto all’altro.

La base della teoria della relatività ristretta, che comporta la crisi del concetto di contemporaneità, risiede su due postulati fondamentali: il principio della relatività, che afferma che le leggi fisiche hanno la stessa forma in tutti i sistemi di riferimento inerziale, ossia in moto rettilineo uniforme l’uno rispetto all’altro, estendendo il precedente principio di relatività galileiano, e il principio di invarianza della velocità della luce, secondo cui la velocità di propagazione della radiazione elettromagnetica nel vuoto è una costante universale, che sostituisce il concetto newtoniano di tempo assoluto.

 

CRITICHE ALLA TEORIA DI EINSTEIN

La teoria della relatività ristretta non fu immediatamente accolta dalla comunità scientifica. Il punto d’attrito risiedeva nelle convinzioni epistemologiche di Einstein in merito alla natura delle teorie scientifiche e sul rapporto tra esperimento e teoria. Sebbene affermasse che l’unica fonte di conoscenza è l’esperienza, egli era anche convinto che le teorie scientifiche fossero libera creazione dell’uomo e che le premesse sulle quali esse sono fondate non potessero essere derivate in modo logico dalla sperimentazione. Una “buona” teoria, per Einstein, è una teoria nella quale è richiesto un numero minimo di postulati per ogni dimostrazione.

Il valore dell’attività scientifica di Einstein venne comunque riconosciuto e nel 1909 lo scienziato ricevette il primo incarico di docenza presso l’Università di Zurigo. Nel 1911 si trasferì all’Università tedesca di Praga e l’anno successivo tornò al Politecnico di Zurigo. Nel 1913 assunse la direzione del Kaiser Wilhelm Institut di Berlino.

 

LA TEORIA DELLA RELATIVITÀ GENERALE

A partire dal 1907, anno in cui fu pubblicata la memoria contenente la celebre equazione che afferma l’equivalenza fra massa ed energia, Einstein iniziò a lavorare a una teoria più generale, che potesse essere estesa ai sistemi non inerziali, cioè in moto accelerato l’uno rispetto all’altro.

Il primo passo fu l’enunciazione del principio di equivalenza, in base al quale il campo gravitazionale è equivalente a una accelerazione costante che si manifesti nel sistema di coordinate, e pertanto indistinguibile da essa, anche sul piano teorico. In altre parole, un gruppo di persone che si trovino su un ascensore in moto accelerato verso l’alto non possono, per principio, distinguere se la forza che avvertono è dovuta alla gravitazione o all’accelerazione costante dell’ascensore.

La teoria della relatività generale, presentata a partire dal novembre 1915, fu pubblicata nel 1916, nell’opera intitolata I fondamenti della relatività generale. In essa le interazioni dei corpi, che prima di allora erano state descritte in termini di forze gravitazionali, vengono spiegate come l’azione e la perturbazione esercitata dai corpi sulla geometria dello spazio-tempo, uno spazio quadridimensionale che oltre alle tre dimensioni dello spazio euclideo prevede una coordinata temporale.

Einstein, alla luce della sua teoria generale, fornì la spiegazione delle variazioni del moto orbitale dei pianeti, dando conto in modo soddisfacente del moto di precessione del perielio di Mercurio, fenomeno fino ad allora non pienamente compreso, e previde che i raggi luminosi emessi dalle stelle si incurvassero in prossimità di un corpo di massa elevata quale, ad esempio, il Sole. La conferma osservativa di quest’ultimo fenomeno, realizzata in occasione dell’eclissi solare del 1919, fu un evento di enorme rilevanza.

Per il resto della sua vita Einstein si dedicò alla ricerca di un’ulteriore generalizzazione della teoria in una teoria dei campi che fornisse una descrizione unitaria per i diversi tipi di interazioni che governano i fenomeni fisici, incluse le interazioni elettromagnetiche e le interazioni nucleari deboli e forti.

Tra il 1915 e il 1930 si stava sviluppando la teoria quantistica, che presentava come concetti fondamentali il dualismo onda-particella, postulato da Einstein fin dal 1905, nonché il principio di indeterminazione di Heisenberg, che fornisce un limite intrinseco alla precisione di un processo di misurazione. Einstein mosse diverse e significative critiche alla nuova teoria e partecipò attivamente al lungo e tuttora aperto dibattito sulla sua completezza. Commentando l’impostazione intrinsecamente probabilistica della meccanica quantistica, egli affermò che “Dio non gioca a dadi con il mondo”.

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CITTADINO DEL MONDO

Dopo il 1919 Einstein divenne famoso a livello internazionale; ricevette riconoscimenti e premi, tra i quali il premio Nobel per la fisica, che gli fu assegnato nel 1921. Lo scienziato approfittò della fama acquisita per affermare le sue opinioni pacifiste in campo politico e sociale.

Durante la prima guerra mondiale fu tra i pochi accademici tedeschi a criticare pubblicamente il coinvolgimento della Germania nella guerra. Tale presa di posizione lo rese vittima di gravi attacchi da parte di gruppi di destra; persino le sue teorie scientifiche vennero messe in ridicolo, in particolare la teoria della relatività.

Con l’avvento al potere di Hitler, Einstein fu costretto a emigrare negli Stati Uniti, dove gli venne offerta una cattedra presso l’Institute for Advanced Study di Princeton, nel New Jersey. Di fronte alla minaccia rappresentata dal regime nazista egli rinunciò alle posizioni pacifiste e nel 1939 scrisse assieme a molti altri fisici una famosa lettera indirizzata al presidente Franklin D. Roosevelt, nella quale veniva sottolineata la possibilità di realizzare una bomba atomica. La lettera segnò l’inizio dei piani per la costruzione dell’arma nucleare.

Al termine della seconda guerra mondiale, Einstein si impegnò attivamente nella causa per il disarmo internazionale e più volte ribadì la necessità che gli intellettuali di ogni paese dovessero essere disposti a tutti i sacrifici necessari per preservare la libertà politica e per impiegare le conoscenze scientifiche a scopi pacifici.

Approfondimenti

 

Lettera di Einstein a Franklin D. Roosevelt

 

Einstein fu tra i fisici che collaborarono alla stesura di questa lettera al presidente Roosevelt, che così veniva informato della possibilità di una nuova arma molto potente e pericolosa: la bomba atomica. Nei primi giorni della seconda guerra mondiale questi fisici erano convinti che i tedeschi fossero già al lavoro sulla bomba atomica, sulla base dei risultati della ricerca francese e americana. La lettera di Einstein sicuramente contribuì a convincere il presidente Roosevelt che anche gli Stati Uniti dovevano presto sviluppare il loro programma atomico.

Albert Einstein
Old Grove Rd.
Nassau Point
Peconic, Long Island

2 agosto 1939

F.D. Roosevelt,
Presidente degli Stati Uniti,
Casa Bianca
Washington, D.C.

Signore,
i risultati di alcuni recenti lavori di E. Fermi e L. Szilard, a me pervenuti in forma di manoscritto, mi portano a ritenere che l’elemento uranio possa essere trasformato, nell’immediato futuro, in un’importante fonte di energia. Alcuni aspetti della situazione che si è creata inducono alla vigilanza e potrebbe essere necessario un pronto intervento da parte dell’amministrazione. Credo sia mio dovere portare alla sua attenzione i seguenti fatti e farle delle raccomandazioni. Durante gli ultimi quattro mesi – grazie al lavoro di Joliot in Francia e Fermi e Szilard in America – sembra sia stato possibile creare una reazione nucleare a catena in una grande massa di uranio, in cui si genererebbero un’enorme forza e grosse quantità di elementi simili al radio. Pare dunque che questo risultato sarà conseguito nell’immediato futuro.

Questo nuovo fenomeno potrebbe anche portare alla costruzione di bombe, ed è immaginabile – anche se non certo – che siano bombe estremamente potenti di un genere mai costruito. Un singolo ordigno di questo tipo, trasportato via mare e fatto esplodere in un porto, sarebbe in grado di distruggere l’intero porto e parte del territorio circostante. Tuttavia queste bombe sarebbero troppo pesanti per il trasporto aereo.

Gli Stati Uniti possiedono minerali di uranio in modeste quantità. Un certo quantitativo si trova in Canada e nella ex Cecoslovacchia, mentre le più importanti risorse sono nel Congo Belga.

In questa situazione lei potrebbe ritenere utile mantenere contatti stabili tra l’amministrazione e il gruppo di fisici che in America lavorano alla reazione a catena. Potrebbe incaricare a questo fine una persona di sua fiducia in veste non ufficiale i cui compiti sarebbero:

  1. essere vicino ai dipartimenti governativi e tenerli informati dei nuovi sviluppi, fornire suggerimenti per l’azione governativa, prestando particolare attenzione al problema di assicurare una fornitura di uranio agli Stati Uniti;
  2. dare impulso al lavoro sperimentale, ora portato avanti nei limiti del budget dei laboratori universitari, fornendo, nel caso, finanziamenti offerti da privati di sua conoscenza interessati a contribuire a questa causa, e cercando anche la collaborazione di laboratori industriali che abbiano le apparecchiature necessarie.

Sono a conoscenza che la Germania ha fermato la vendita di uranio delle miniere cecoslovacche, di cui ha oggi il controllo, e che forse la ragione di questa tempestiva decisione è la presenza del figlio del sottosegretario di stato, von Weizsäcker, al Kaiser-Wilhelm-Institut di Berlino, in cui vengono replicati alcuni degli esperimenti americani sull’uranio.

Sinceramente Suo
Albert Einstein

 

 

Fonti: Wired, Encarta, Libreria del Congresso

La Memoria. Non oggi, ogni giorno.

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Ho una proposta. Anziché fare tutti le “brave persone” solo oggi, partecipando a qualche evento o condividendo foto della Shoah, pensiamo a domani e a tutti i giorni di cui è composto l’anno. E in quei giorni diventiamo e restiamo tolleranti. Apriamo la mente, il cuore, cerchiamo di capire gli “altri”, perché l’odio non nasce con la persona ma viene inculcato dalla società. Spogliamoci dei pregiudizi, guardiamo attraverso gli occhi degli “altri”, comprendiamone le motivazioni, le azioni. Piangere oggi è un espediente per mettere a tacere la coscienza e continuare a ignorare tutto l’anno i barconi che affondano con il loro carico di disperazione, carne e sangue. Il miglior modo per serbare memoria delle vittime di tutti i genocidi è porre le basi affinché essi non si ripetano, mai più. Possiamo agire nel nostro piccolo, nella quotidianità, insegnando ai bambini – gli adulti di domani – cosa è giusto. E ogni anno la Giornata della memoria sarà un promemoria per continuare a fare la nostra parte, ogni giorno.

Pillole di arte martinese #5 – I palazzi

Quinto appuntamento con la rubrica Pillole di arte martinese. Oggi proseguiamo con l’argomento Palazzi, che ho introdotto qui.

Dopo l’analisi del Palazzo Ducale – potete rileggerla qui – parliamo in generale dei numerosi altri palazzi del centro storico degni di nota.

I termini sottolineati sono spiegati nel glossario a fine articolo.

Palazzo dell’Università

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Il Palazzo dell’Università, sito in Piazza Plebiscito, fu costruito tra il 1759 e il 1761. Presenta una facciata semplice con campiture scandite da sottili lesene. Eleganti cornici ingentiliscono le finestre. Sulla cimasa della finestra che sovrasta il portale compare, scolpito in pietra, il cavallo senza briglie, simbolo della città angioina. La contigua Torre Civica impreziosisce la facciata. Il Palazzo dell’Università fu nei primi tempi sede del parlamento locale – donde presero il nome i militanti nella fazione degli universalisti, opposta a quella degli zelanti – e del municipio fino al 1910. Ora ospita la Società Artigiana.

Palazzo Stabile

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Sito in via Masaniello, si tratta di un palazzo caratteristico e scenografico, che sfoggia un singolare verticalismo della facciata. Scandito in tre piani, presenta un mirabile portale affiancato da due finestre incorniciate e caratteristiche balconate affinate da capitelli decorati ad archetti. Palazzo Stabile fu anticamente sede del Partito Fascista.

Palazzo Martucci

Palazzo Martucci è situato di fronte al pregevole Palazzo Ducale, in Piazza Roma. Presenta una semplice facciata longitudinale ingentilita da lesene e da fiaccoloni e resa ancor più mirabile dal portale. Esso infatti è un doppio portale, sovrastato da una loggia finemente incorniciata, termina in alto con una cimasa forata nel cui vano doveva essere collocato lo stemma di famiglia.

 

 

Palazzo Guerra

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Pregevole edificio scandito in due piano, Palazzo Guerra presenta nella parte inferiore un mirabile portale impreziosito da un arco e affiancato da colonne, su cui sporge una balconata sorretta da capitelli. L’elegante piano superiore, simile a quello inferiore, ingentilisce l’intera struttura dell’edificio che presenta una particolare colorazione rossa.

 

 

Palazzo Fanelli

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Attualmente denominato Torricella, Palazzo Fanelli fu costruito nel 1748 su commissione di Ambrogio Fanelli. Le particolarità del palazzo sono la loggia in ferro battuto che sovrasta il portale e le sei finestre differentemente decorate.

Palazzo Marinosci

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Edificato nel 1749, Palazzo Marinosci presenta due balconi con colonnine spanciate, erme e putti che reggono un cartiglio. Si tratta di uno dei palazzi di Martina Franca che conserva, al proprio interno, un vasto giardino. Il palazzo fu abitato dal famoso medico e botanico Martino Marinosci (vedi approfondimento in fondo all’articolo).

Palazzo Maggi

5693907934_24290a8f96_oPalazzo Maggi chiude Via Cavour. Il portale finemente scolpito presenta un cartiglio incorniciato da puttini e motivi floreali, tipici delle decorazioni barocche. L’ampia arcata che lo sovrasta da luminosità a tutta la facciata.

Palazzo Gioia

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Pregevole costruzione che introduce Via Mazzini, Palazzo Gioia un tempo era denominato Palazzo Blasi in onore del barone Francesco Blasi. Edificato nel 1774, rappresentò un modello fra le residenze padronali barocche. Presenta un caratteristico portale in bugnato e splendide logge in ferro battuto.

Casa Cappellari

 

 

In Via Orfanelli è situata Casa Cappellari, detta anche ospedaletto o lazzaretto in virtù della funzione di ricovero per viandanti, malati e orfani che assunse nel Settecento. Accanto al portale d’ingresso era situata una botola girevole dove venivano depositati i bambini indesiderati. Gira voce che, durante il periodo fascista, vi si svolgesse il mercato nero. Oggi completamente ristrutturata, Casa Cappellari è spesso sede di eventi artistici. Essa è costituita da un cortile centrale sul quale si affacciano, al piano terra e al primo piano, stanze di pochi metri quadrati dotate di camino e/o pozzo.

Palazzo del Cavaliere

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Il palazzo del Cavalier Semeraro presenta una facciata dominata da un doppio portale. Il primo è in bugnato, il secondo è caratterizzato da due colonne che reggono la grande loggia superiore. Il palazzo, in stile neoclassico, fu costruito nel 1733.

Palazzo Marino Motolese

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La facciata di Palazzo Marino Motolese presenta un portale datato 1567, ma l’immobile fu ristrutturato e trasformato nel 1758. L’androne d’ingresso rivela la struttura della casa a corte. Un’elegante scalinata porta al piano rialzato, dove sono evidenti le trasformazioni settecentesche.

Palazzo Ruggieri

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Palazzo Ruggieri, prima intitolato Barnaba, fu eretto nel 1759 accanto alla Basilica di San Martino. Esso si sviluppa in verticale e presenta una facciata ricca di ornamenti.

Palazzo Fighera

Impreziosito esternamente dall’arco dell’antico portale, Palazzo Fighera offre esternamente una caratteristica galleria con pregiati affreschi del 1777 raffiguranti scene mitologiche, opera del noto Domenico Carella – di cui ho parlato qui.

Palazzo Ancona

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Uno dei palazzi più scenografici, dalla indiscussa eleganza barocca, Palazzo Ancona è situato al termine di Via Macchiavelli e risale alla seconda metà del XVIII secolo. Di grande interesse artistico sono le cariatidi che sostengono le pregevoli logge, costituenti l’unico esempio di scultura profana nel centro storico di Martina Franca.

Palazzo Magli

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Edificato nel 1748 per volere dell’abate Pasquale Magli, Palazzo Magli – denominato anche Lella – occupa il luogo ove sorgeva un palazzo a corte del Cinquecento. Presenta un doppio portale: il primo, in bugnato classico, è inglobato nell’altro, sorretto da colonne con capitelli adorni di gambe di cervi ed eleganti satiri.

Palazzo Motolese

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Costruito nel 1775, mostra una facciata monumentale caratterizzata dal complesso portale collegato al balcone superiore. L’ingresso secondario, situato in Via Arco Casavola, presenta un grande portale su cui corre una doppia balconata in pietra a colonnine tornite, impreziosita da eleganti doccioni. L’atrio di ingresso, di dimensioni ridotte, da accesso al locale più ampio che una volta erano le stalle – si possono ancora vedere le stanghe di ferro alle pareti – e a una piccola cappella.

Palazzo Marturano

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Eretto nel 1719 dal conte Barnaba, è uno dei più antichi palazzi barocchi di Martina. Il grande portale in bugnato è sormontato da due eleganti loggiati in pietra a colonnine spanciate. Questo splendido palazzo chiude Via Mazzini.

Il palazzo del Caffè Tripoli

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In questo palazzo, a piano terra si trova il bar più antico della città – aperto nel 1911 -, dove si possono gustare genuini prodotti artigianali.

 

 

Glossario

 

  • Campitura: area di un dipinto riempita con un solo colore.
  • Cimasa: complesso di modanature che serve a coronare un elemento architettonico.
  • Erma: scultura che poggia su un pilastro e rappresenta una testa umana e parte del busto.
  • Cariatide: statua in forma di donna usata come elemento architettonico portante, per sostenere trabeazioni, mensole, cornicioni, balconi, logge e simili.
  • Satiro: nella mitologia greco-romana, divinità dei boschi, avente figura umana, con piedi e orecchie caprini.
  • Doccione: parte terminale della grondaia che serve a scaricare l’acqua lontano dai muri, consistente, specialmente in palazzi antichi, in un’opera di scultura con figure grottesche o di animali.

 

 

Approfondimenti

 

Martino Marinosci

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Nacque a Martina Franca il 20 settembre 1786 da Giuseppe Marinosci e Anna Irene Maggi. Dotato d’ingegno vivo e precoce iniziò la sua formazione culturale fin da piccolo, sotto la guida di dotti religiosi che lo iniziarono agli studi di aritmetica, geometria, filosofia e teologia. Tra i 15 e i 19 anni si avviò agli studi di botanica, fisica e chimica, anatomia e fisiologia, medicina teorica e legale. Tra i 19 e i 23, a Napoli, seguì i corsi di Medicina, Chirurgia, Clinica e Anatomia dei maggiori specialisti. Estese i suoi interessi alla Botanica e alla Storia Naturale sotto la guida di Petagna, Tenore e Briganti, effettuando escursioni per la raccolta di materiali con cui costituì erbari e collezioni di vario genere. Contemporaneamente si interessò di Teologia e di Morale, di Storia, di Legge e di Chimica, studiando l’inglese e l’ebraico.

Tornato al paese natio nel 1809 vi iniziò una brillante carriera di medico, facendosi presto apprezzare e guadagnandosi la stima di tutti.

La sua vita privata lo vide impegnato nel mantenimento e nell’educazione assidua dei 10 figli, ma fu costellata di contrarietà e lutti.

Nel 1809, fu nominato Socio Corrispondente del Real Giardino delle Piante di Napoli, diretto dal famoso botanico Michele Tenore, e diede inizio alle escursioni per la Provincia di Lecce, che durarono fino al 1815.

Nel 1811 fu nominato Socio Onorario della Società Economica di Terra d’Otranto di Lecce, di cui divenne poi socio Ordinario nel 1820. Ebbe così modo di essere apprezzato anche nell’ambiente leccese, in cui presto godette dell’amicizia di naturalisti quali il Conte M. Milano, Oronzo Gabriele Costa, Giuseppe Maria Giovene.

Nel 1826 fu eletto Presidente dell’ Accadema Agraria di Lecce, carica che ricoprì per ben 10 anni. Fu in questo periodo che pubblicò una prima parte della Flora Salentina, alla quale aveva cominciato a lavorare già dal 1810, e a cui sarebbe stata legata la sua fama come botanico.

Nel 1831 pubblicò un Catechismo agrario, che incrementò ulteriormente la sua fama. Si dedicò anche a studi di Archeologia, divenendo, nel 1842, Ispettore degli scavi d’antichità per il distretto di Taranto.

Scrisse moltissimo ma pubblicò pochissimo e Cosimo De Giorgi, che dopo la sua morte avrebbe curato la pubblicazione della Flora Salentina, ebbe a scrivere che tutti gli scritti “formano un monumento più duraturo del bronzo, e meritano davvero che nella stima dei buoni e degli onesti resti incancellabile il nome del Marinosci”.

Anche se fin dal 1831 la sua salute si era fatta vacillante, il Marinosci morì all’età di ottanta anni l’11 novembre 1866.

Opere

  • Flora Salentina, Tip. Ed. Salentina, Lecce 1870

La poesia del bianco e nero, l’impatto dei colori #2 – Tesla

Eccomi con il secondo appuntamento di questa rubrica.

Ebbene, guardate di che foto ci occupiamo oggi.

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Nella foto in bianco e nero gli occhi del soggetto sono già vividi, nella foto a colori si dimostrano pure intelligenti. Avrei voluto incontrare dal vivo questo inventore dalla personalità così particolare – leggete le curiosità in fondo all’articolo.

 

 

Nikola Tesla

Nikola Tesla (Smiljan 1856 – New York 1943)fu un inventore e ingegnere elettronico statunitense di origine croata, che diede contributi fondamentali allo sviluppo dell’industria elettrica.

Studiò al politecnico di Graz e all’Università di Praga, quindi lavorò come ingegnere elettronico presso varie industrie elettriche. Nel 1884 emigrò negli Stati Uniti, divenendo successivamente cittadino americano. Per un breve periodo lavorò alle dipendenze di Thomas Edison, ma in seguito preferì dedicarsi esclusivamente alla ricerca sperimentale e fondò a New York un laboratorio dotato di apparecchiature per ricerche elettrotecniche.

Nel 1888 progettò il primo sistema pratico per la produzione e la trasmissione della corrente alternata per centrali elettriche; i diritti relativi a questa invenzione furono però assegnati all’inventore statunitense George Westinghouse, che presentò il sistema alla World’s Columbian Exposition di Chicago, nel 1893. Circa due anni dopo i motori a corrente alternata furono installati presso le cascate del Niagara. Le numerose invenzioni di Tesla comprendono generatori ad alta frequenza (1890) e il rocchetto di Tesla (1891), un trasformatore con importanti applicazioni nel campo delle comunicazioni radio.

La rivendicazione contro Marconi

Nel 1943 una sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti attribuì a Tesla la precedenza di alcuni brevetti rispetto a Marconi, tra cui la radio, ma comunque dopo il brevetto di Oliver Lodge che lo precedette. La sentenza della Corte Suprema statunitense comunque non è universalmente riconosciuta dai sostenitori di Marconi. Molto tempo prima (1911) l’High Court britannica nella persona di Mr. Justice Parker deliberò su un analogo procedimento la validità dei brevetti di Marconi. La sentenza della Corte Suprema statunitense è rimasta una sentenza discussa anche perché in quel periodo l’esercito statunitense era in causa con la società Marconi per l’utilizzo di brevetti sulla radio senza il pagamento dei brevetti, la sentenza ha permesso al governo di non pagarli. In realtà ciò non è vero del tutto visto che il governo Usa pagò la somma di 42.000 dollari alla società di Marconi per un brevetto di Oliver Lodge che la suddetta società aveva comprato da quest’ultimo.
In realtà nessuno prima di Tesla aveva effettuato esperimenti di trasmissioni radio come le intendiamo oggi, cioè con un circuito risonante.

Tesla iniziò a tenere le prime conferenze pubbliche sulla trasmissione di energia tramite onde radio nel 1891 e nel 1893 pubblicò il primo progetto per trasmettere segnali ed anche energia elettrica tramite onde radio. I progetti di Tesla si concentravano sulla trasmissione di onde elettromagnetiche continue (CW) per ottenere trasmissioni di segnali ed anche di energia, quelli di Marconi posteriormente, sulla trasmissione di segnali morse tramite onde smorzate (DW) e quindi producevano segnali con interferenze e difficili da sintonizzare. Sono progetti differenti che si suppone non possono essere opera di semplice copia.
Nel 1893, al S. Louis, Missouri, Tesla diede una pubblica dimostrazione della comunicazione radio senza fili. L’apparato che Tesla usò conteneva tutti gli elementi che erano incorporati nei sistemi radio prima della sviluppo della “valvola termoionica”.

 

Curiosità

  • Tesla non fu mai sposato. Era celibe e asessuale e sostenne che la sua castità era molto utile alle sue doti scientifiche. Eccetto per le cene formali, egli mangiava sempre da solo, e mai, in alcuna circostanza, avrebbe cenato di sua spontanea volontà con una donna. Al Waldorf-Astoria e al famoso ristorante Delmonico’s selezionava sempre particolari tavoli in disparte, che erano riservati a lui. Anche se veniva sempre descritto come una persona attraente quando interagiva con gli altri, Tesla spesso fingeva nel suo comportamento. Come tanti in questo momento storico, Tesla, scapolo a vita, divenne un acceso sostenitore di una versione, autoimposta con la riproduzione selettiva, dell’eugenetica.

  • Lo scienziato mise da parte il suo primo milione di dollari all’età di 40 anni, ma donò quasi tutti i suoi diritti d’autore sulle invenzioni future. Era particolarmente inetto nel gestire le sue finanze, completamente incurante della ricchezza materiale. Egli strappò addirittura un contratto con Westinghouse, che lo avrebbe reso il primo miliardario in dollari del mondo, in parte a causa delle implicazioni che questo avrebbe avuto sulla sua visione futura dell’energia libera, e in parte perché avrebbe escluso Westinghouse dagli affari, e Tesla non aveva alcuna intenzione di avere a che fare con i creditori.

  • Tesla, affetto da disturbo ossessivo-compulsivo, aveva numerose quanto inusuali abitudini ed idiosincrasie. Faceva le cose in tre, ed esigeva che la camera d’albergo dove alloggiava avesse un numero divisibile per tre. Si sa che egli era fisicamente contrario alla gioielleria, specialmente alle collane di perle e che era ossessionato dai piccioni: ordinava speciali semi per i volatili che nutriva nel Central Park, portandone alcuni nella sua stanza in hotel.

  • Tesla era molto severo circa l’igiene e la pulizia, in un periodo in cui un comportamento così estremo era visto come una stranezza. Era altamente meticoloso e organizzato, sovente lasciava note e appunti per gli altri, per evitare di dover riorganizzare i suoi lavori.

  • Tesla era un poliglotta. Accanto al serbo e al croato, conosceva perfettamente altre sette lingue: il ceco, l’inglese, il francese, il tedesco, l’ungherese, l’italiano e il latino.

  • Il 10 luglio, giorno in cui Tesla nacque, è stato proclamato dallo stato di New York Nikola Tesla Day.

  • Nikola Tesla è stato ritratto sulle banconote da 50.000 dinari (1963), da 500 dinari (1970), da 10 miliardi di dinari (1993), da 100 dinari (1994) e da 5 nuovi dinari (1994) dello scomparso stato della Jugoslavia.

  • Il 10 luglio del 2006, in onore del 150º compleanno dell’inventore, il più grande aeroscalo della Serbia, quello di Belgrado, venne ribattezzato Аеродром Београд “Никола Тесла” o Aerodrom Beograd “Nikola Tesla”.

  • Numerose opere di fantasia di genere avventuroso/fantascientifico (ma non solo) fanno riferimento al personaggio dello scienziato o ad ipotetiche o immaginarie sue invenzioni.

 

Fonti: Encarta, Wikipedia

117 anni fa nasceva Giuseppe Tomasi di Lampedusa

Oggi, nell’anniversario della nascita, omaggiamo un grande scrittore italiano.

Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi.
– Tancredi Falconeri, nipote del Principe Fabrizio, ne “Il Gattopardo”

Giuseppe Tomasi di Lampedusa

lampedusaGiuseppe Tomasi di Lampedusa (Palermo 1896 – Roma 1957) fu uno scrittore italiano. Di antica nobiltà siciliana, ebbe educazione cosmopolita, studiando a Roma e a Palermo e compiendo numerosi viaggi all’estero. Grande conoscitore della cultura di Francia e Inghilterra, visse appartato a Palermo, sostanzialmente estraneo alla società letteraria.

Fu in questo isolamento che concepì e scrisse, nel 1957, Il Gattopardo. Ambientato in Sicilia, nel periodo che va dalla spedizione dei Mille all’unità d’Italia, con brevi lampi sugli anni successivi, tratteggia la decadenza di un mondo – quello dell’aristocrazia siciliana, riassunto e dominato dalla figura del protagonista, il principe Fabrizio Salina – e l’emergere di una nuova classe sociale – quella borghese, impersonificata dal “nuovo ricco” Calogero Sedara. Di impianto verista per la cura nella descrizione di paesaggi e ambienti, il romanzo è però tutto novecentesco per l’accento posto sul decadimento di quel mondo così immobile.

Rifiutato da Elio Vittorini per conto dell’editore Einaudi, il romanzo fu pubblicato postumo, nel 1958, da Giorgio Bassani per Feltrinelli e costituì il più clamoroso caso letterario del dopoguerra e il primo best-seller italiano, premiato con lo Strega nel 1959. Postumi furono pubblicati anche i Racconti (1961), più che altro raccolta di spunti e progetti vanificati dalla morte, le Lezioni su Stendhal (1977), l’Invito alle lettere francesi del Cinquecento (1979) e la Letteratura inglese (1990).

Il Gattopardo

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Il capolavoro di Tomasi di Lampedusa, Il gattopardo, ritratto dell’aristocrazia siciliana alla vigilia dell’unità d’Italia, venne rifiutato da Elio Vittorini e fu pubblicato postumo nel 1958. Ebbe un clamoroso successo, e una superba versione cinematografica realizzata nel 1963 da Luchino Visconti. Nella foto, il principe di Salina (Burt Lancaster) danza con la bella Angelica (Claudia Cardinale).

Approfondimenti

I Siciliani

Alle vicende del Gattopardo (1958), romanzo storico ‘fuori stagione’ di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, fanno da sfondo i Mille di Garibaldi che, sbarcati a Marsala e vinta la resistenza borbonica a Calatafimi, conquistano la Sicilia e procedono trionfalmente la loro avanzata verso il Volturno. L’Unità d’Italia da questione militare diviene allora questione politica ed emissari del nuovo re piemontese vengono inviati a prendere i contatti coi notabili dell’ex Regno delle Due Sicilie, affinché la transizione dei poteri avvenga all’insegna di una continuità di classe. È così che don Fabrizio, principe di Salina, riceve la visita di Aimone de Chevalley, segretario prefettizio, che gli offre a nome di Vittorio Emanuele II un seggio al Senato. Il principe declina la prestigiosa offerta e anzi indica, come ideale candidato a quella carica, il nome di Calogero Sedàra, sindaco di Donnafugata, il feudo dei Salina, e borghese emergente. Ma il colloquio tra don Fabrizio e Chevalley è soprattutto ricca occasione di riflessione sulla natura dell’animo dei siciliani, del loro ‘desiderio di immobilità voluttuosa’, di fatale attrazione per il passato in quanto morto e non foriero di nuovi turbamenti.

Alle quattro del pomeriggio il Principe fece dire a Chevalley che lo aspettava nello studio. Era questo una piccola stanza con ai muri sotto vetro alcune pernici imbalsamate, di quelle grigie a zampette rosse stimate rare, trofei di caccie passate; una parete era nobilitata da una libreria alta e stretta colma di annate di riviste matematiche; al di sopra della grande poltrona destinata ai visitatori, una costellazione di miniature di famiglia: il padre di Don Fabrizio, il principe Paolo, fosco di carnagione e sensuale di labbra quanto un Saraceno, con la nera uniforme di Corte tagliata a sghembo dal cordone di S. Gennaro; la principessa Carolina, già vedova, i capelli biondissimi accumulati in una pettinatura a torre ed i severi occhi azzurri; la sorella del Principe, Giulia, la principessa di Falconeri seduta su una panca da giardino, con alla destra la macchia amaranto di un piccolo parasole poggiato aperto per terra ed alla sinistra quella gialla di un Tancredi di tre anni che reca dei fiori di campo (questa miniatura Don Fabrizio se l’era cacciata in tasca di nascosto mentre gli uscieri inventariavano il mobilio di villa Falconeri). Poi più sotto, Paolo il primogenito, in attillati calzoni da cavalcare, in atto di salire su un cavallo focoso dal collo arcuato e dagli occhi sfavillanti; zii e zie varie non meglio identificati, ostentavano gioielloni o indicavano, dolenti, il busto di un caro estinto. Al sommo della costellazione, però, in funzione di stella polare, spiccava una miniatura più grande: Don Fabrizio stesso, poco più che ventenne con la giovanissima sposa che poggiava la testa sulla spalla di lui in atto di completo abbandono amoroso; lei bruna; lui roseo nell’uniforme azzurra e argentea delle Guardie del Corpo del Re sorrideva compiaciuto col volto incorniciato dalle basette biondissime di primo pelo.
Appena seduto Chevalley espose la missione della quale era stato incaricato: ‘Dopo la felice annessione, volevo dire dopo la fausta unione della Sicilia al Regno di Sardegna, è intenzione del governo di Torino di procedere alla nomina a Senatori del Regno alcuni illustri siciliani; le autorità provinciali sono state incaricate di redigere una lista di personalità da proporre all’esame del governo centrale ed eventualmente, poi, alla nomina regia e, come è ovvio, a Girgenti si è subito pensato al suo nome, Principe: un nome illustre per antichità, per il prestigio personale di chi lo porta, per i meriti scientifici, per l’attitudine dignitosa e liberale, anche, assunta durante i recenti avvenimenti.’ Il discorsetto era stato preparato da tempo, anzi era stato oggetto di succinte note a matita sul calepino che adesso riposava nella tasca posteriore dei pantaloni di Chevalley. Don Fabrizio però non dava segno di vita, le palpebre pesanti lasciavano appena intravedere lo sguardo. Immobile la zampaccia dai peli biondastri ricopriva interamente una cupola di S. Pietro in alabastro che stava sul tavolo.
Ormai avvezzo alla sornioneria dei loquaci siciliani quando si propone loro qualcosa, Chevalley non si lasciò smontare: ‘Prima di far pervenire la lista a Torino i miei superiori hanno creduto dover informare lei stesso, e farle chiedere se questa proposta sarebbe di Suo gradimento. Richiedere il suo assenso, nel quale le autorità sperano molto è stato l’oggetto della mia missione qui, missione che per altro mi ha valso l’onore e il piacere di conoscere Lei ed i suoi, questo magnifico palazzo e questa Donnafugata tanto pittoresca.’
Le lusinghe scivolavano via dalla personalità del Principe come l’acqua dalle foglie delle ninfee: questo è uno dei vantaggi dei quali godono gli uomini che sono allo stesso tempo orgogliosi ed abituati ad esserlo. ‘Adesso questo qui s’immagina di venire a farmi un grande onore’ pensava ‘a me, che sono quel che sono, fra l’altro anche Pari del Regno di Sicilia, il che dev’essere press’a poco come essere senatore. È vero che i doni bisogna valutarli in relazione a chi li offre: un contadino che mi dà il suo pezzo di pecorino mi fa un regalo più grande di Giulio Làscari quando m’invita a pranzo. Il guaio è che il pecorino mi dà la nausea; e così non resta che la gratitudine che non si vede e il naso arricciato dal disgusto che si vede fin troppo.’ Le idee sue in fatto di Senato erano del resto vaghissime; malgrado ogni suo sforzo esse lo riconducevano sempre al Senato Romano al senatore Papirio che aveva spezzato una bacchetta sulla testa di un Gallo maleducato, a un cavallo Incitatus che Caligola aveva fatto senatore, onore questo che soltanto suo figlio Paolo non avrebbe trovato eccessivo; lo infastidiva anche il riaffacciarsi insistente di una frase detta talvolta da Padre Pirrone: ‘Senatores boni viri, senatus autem mala bestia.’ Adesso vi era anche il Senato dell’Impero di Parigi, ma non era che una assemblea di profittatori muniti di larghe prebende. Vi era o vi era stato un Senato anche a Palermo ma si era trattato soltanto di un comitato di amministratori civici, e di quali amministratori! Robetta per un Salina. Volle sincerarsi: ‘Ma insomma, cavaliere, mi spieghi un po’ che cosa è veramente essere senatori. La stampa della passata monarchia non lasciava passare notizie sul sistema costituzionale degli altri stati italiani, e un soggiorno di una settimana a Torino due anni fa non è stato sufficiente a illuminarmi. Cosa è? un semplice appellativo onorifico, una specie di decorazione? o bisogna svolgere funzioni legislative, deliberative?’
Il Piemontese, il rappresentante del solo stato liberale italiano, s’inalberò: ‘Ma, Principe, il Senato è la Camera Alta del Regno! In essa il fiore degli uomini politici del nostro paese prescelti dalla saggezza del Sovrano, esaminano, discutono, approvano o respingono quelle leggi che il Governo o essi stessi propongono per il progresso del paese; esso funziona nello stesso tempo da sprone e da briglia, incita al ben fare, impedisce di strafare. Quando avrà accettato di prendervi posto, Lei rappresenterà la Sicilia alla pari dei deputati eletti, farà udire la voce di questa bellissima terra che si affaccia adesso al panorama del mondo moderno, con tante piaghe da sanare, con tanti giusti desideri da esaudire.’
Chevalley avrebbe forse continuato a lungo su questo tono se Bendicò non avesse da dietro la porta chiesto alla ‘saggezza del Sovrano’ di essere ammesso; Don Fabrizio fece l’atto di alzarsi per aprire ma lo fece con tanta mollezza da dar tempo al Piemontese di lasciarlo entrare lui; Bendicò, meticoloso, fiutò a lungo i calzoni di Chevalley; dopo, persuaso di aver da fare con un buon uomo si accovacciò sotto la finestra e dormì.
‘Stia a sentirmi, Chevalley; se si fosse trattato di un segno di onore, di un semplice titolo da scrivere sulla carta da visita e basta, sarei stato lieto di accettare; trovo che in questo momento decisivo per il futuro dello stato italiano è dovere di ognuno dare la propria adesione, evitare l’impressione di screzi dinanzi a quegli stati esteri che ci guardano con un timore o con una speranza che si riveleranno ingiustificati ma che per ora esistono.’
‘Ma allora, principe, perché non accettare?’
‘Abbia pazienza, Chevalley, adesso mi spiegherò; noi Siciliani siamo stati avvezzi da una lunghissima egemonia di governanti che non erano della nostra religione, che non parlavano la nostra lingua, a spaccare i capelli in quattro. Se non si faceva così non si sfuggiva agli esattori bizantini, agli emiri berberi, ai viceré spagnoli. Adesso la piega è presa, siamo fatti così. Avevo detto ‘adesione’ non ‘partecipazione’. In questi sei ultimi mesi, da quando il vostro Garibaldi ha posto piede a Marsala, troppe cose sono state fatte senza consultarci perché adesso si possa chiedere a un membro della vecchia classe dirigente di svilupparle e portarle a compimento; adesso non voglio discutere se ciò che si è fatto è stato male o bene; per conto mio credo che parecchio sia stato male; ma voglio dirle subito ciò che Lei capirà da solo quando sarà stato un anno fra noi. In Sicilia non importa far male o far bene; il peccato che noi Siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di ‘fare’. Siamo vecchi, Chevalley, vecchissimi. Sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori già complete e perfezionate, nessuna germogliata da noi stessi, nessuna a cui abbiamo dato il ‘la’; noi siamo dei bianchi quanto lo è lei, Chevalley, e quanto la regina d’Inghilterra; eppure da duemila cinquecento anni siamo colonia. Non lo dico per lagnarmi: è in gran parte colpa nostra; ma siamo stanchi e svuotati lo stesso.’
Adesso Chevalley era turbato. ‘Ma ad ogni modo questo adesso è finito; adesso la Sicilia non è più terra di conquista ma libera parte di un libero stato’.
‘L’intenzione è buona, Chevalley, ma tardiva; del resto le ho già detto che in massima parte è colpa nostra; Lei mi parlava poco fa di una giovane Sicilia che si affaccia alle meraviglie del mondo moderno; per conto mio mi sembra piuttosto una centenaria trascinata in carrozzella alla Esposizione Universale di Londra, che non comprende nulla, che s’impipa di tutto, delle acciaierie di Sheffield come delle filande di Manchester, e che agogna soltanto di ritrovare il proprio dormiveglia fra i suoi cuscini sbavati e il suo orinale sotto il letto.’
Parlava ancora piano, ma la mano attorno a S. Pietro si stringeva; l’indomani la crocetta minuscola che sormontava la cupola venne trovata spezzata. ‘Il sonno, caro Chevalley, il sonno è ciò che i Siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portar loro i più bei regali; e, sia detto fra noi, ho i miei forti dubbi che il nuovo regno abbia molti regali per noi nel bagagliaio. Tutte le manifestazioni siciliane sono manifestazioni oniriche, anche le più violente: la nostra sensualità è desiderio di oblio, le schioppettate e le coltellate nostre, desiderio di morte; desiderio di immobilità voluttuosa, cioè ancora di morte, la nostra pigrizia, i nostri sorbetti di scorsonera o di cannella; il nostro aspetto meditativo è quello del nulla che voglia scrutare gli enigmi del nirvana. Da ciò proviene il prepotere da noi di certe persone, di coloro che sono semi-desti; da ciò il famoso ritardo di un secolo delle manifestazioni artistiche ed intellettuali siciliane: le novità ci attraggono soltanto quando le sentiamo defunte, incapaci di dar luogo a correnti vitali; da ciò l’incredibile fenomeno della formazione attuale, contemporanea a noi, di miti che sarebbero venerabili se fossero antichi sul serio, ma che non sono altro che sinistri tentativi di rituffarsi in un passato che ci attrae appunto perché è morto.’
Non ogni cosa era compresa dal buon Chevalley; soprattutto gli riusciva oscura l’ultima frase: aveva visto i carretti variopinti trainati dai cavalli impennacchiati e denutriti, aveva sentito parlare del teatro di burattini eroici, ma anche lui credeva che fossero vecchie tradizioni autentiche. Disse: ‘Ma non le sembra di esagerare un po’, principe? io stesso ho conosciuto a Torino dei Siciliani emigrati, Crispi per nominarne uno, che mi son sembrati tutt’altro che dei dormiglioni.’
Il Principe si seccò: ‘Siamo troppi perché non vi siano delle eccezioni; ai nostri semi-desti, del resto avevo di già accennato. In quanto a questo giovane Crispi, non io certamente, ma Lei potrà forse vedere se da vecchio non ricadrà nel nostro voluttuoso vaneggiare: lo fanno tutti. D’altronde vedo che mi sono spiegato male: ho detto i Siciliani, avrei dovuto aggiungere la Sicilia, l’ambiente, il clima, il paesaggio. Queste sono le forze che insieme e forse più che le dominazioni estranee e gl’incongrui stupri hanno formato l’animo: questo paesaggio che ignora le vie di mezzo fra la mollezza lasciva e l’asprezza dannata; che non è mai meschino, terra terra, distensivo, umano, come dovrebbe essere un paese fatto per la dimora di esseri razionali; questo paese che a poche miglia di distanza ha l’inferno attorno a Randazzo e la bellezza della baia di Taormina, ambedue fuor di misura, quindi pericolosi; questo clima che c’infligge sei mesi di febbre a quaranta gradi; li conti, Chevalley, li conti: Maggio, Giugno, Luglio, Agosto, Settembre, Ottobre; sei volte trenta giorni di sole a strapiombo sulle teste; questa nostra estate lunga e tetra quanto l’inverno russo e contro la quale si lotta con minor successo; Lei non lo sa ancora, ma da noi si può dire che nevica fuoco, come sulle città maledette della Bibbia; in ognuno di quei mesi se un Siciliano lavorasse sul serio spenderebbe l’energia che dovrebbe essere sufficiente per tre; e poi l’acqua che non c’è o che bisogna trasportare da tanto lontano che ogni sua goccia è pagata da una goccia di sudore; e dopo ancora, le pioggie, sempre tempestose che fanno impazzire i torrenti asciutti, che annegano bestie e uomini proprio lì dove una settimana prima le une e gli altri crepavano di sete. Questa violenza del paesaggio, questa crudeltà del clima, questa tensione continua di ogni aspetto, questi monumenti, anche del passato, magnifici ma incomprensibili perché non edificati da noi e che ci stanno intorno come bellissimi fantasmi muti; tutti questi governi, sbarcati in armi da chissà dove, subito serviti, presto detestati e sempre incompresi, che si sono espressi soltanto con opere d’arte per noi enigmatiche e con concretissimi esattori d’imposte spese poi altrove; tutte queste cose hanno formato il carattere nostro che rimane così condizionato da fatalità esteriori oltre che da una terrificante insularità di animo.’
L’inferno ideologico evocato in quello studiolo sgomentò Chevalley più della rassegna sanguinosa della mattina. Volle dire qualche cosa, ma Don Fabrizio era troppo eccitato adesso per ascoltarlo.
‘Non nego che alcuni Siciliani trasportati fuori dell’isola possano riuscire a smagarsi: bisogna però farli partire quando sono molto, molto giovani: a vent’anni è già tardi; la crosta è già fatta, dopo: rimarranno convinti che il loro è un paese come tutti gli altri, scelleratamente calunniato; che la normalità civilizzata è qui, la stramberia fuori. Ma mi scusi, Chevalley, mi son lasciato trascinare e la ho probabilmente infastidito. Lei non è venuto sin qui per udire Ezechiele deprecare le sventure d’Israele. Ritorniamo al nostro vero argomento. Sono molto riconoscente al governo di aver pensato a me per il Senato e la prego di esprimere a chi di dovere questa mia sincera gratitudine; ma non posso accettare. Sono un rappresentante della vecchia classe, inevitabilmente compromesso col regime borbonico, e ad esso legato dai vincoli della decenza in mancanza di quelli dell’affetto. Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni; e che cosa se ne farebbe il Senato di me, di un legislatore inesperto cui manca la facoltà d’ingannare sé stesso, questo requisito essenziale per chi voglia guidare gli altri? Noi della nostra generazione dobbiamo ritirarci in un cantuccio e stare a guardare i capitomboli e le capriole dei giovani attorno a quest’ornatissimo catafalco. Voi adesso avete bisogno di giovani, di giovani svelti, con la mente aperta al ‘come’ più che al ‘perché’ e che siano abili a mascherare, a contemperare volevo dire, il loro preciso interesse particolare con le vaghe idealità politiche.’ Tacque, lasciò in pace San Pietro. Continuò: ‘Posso dare a Lei un consiglio da trasmettere ai suoi superiori?’
‘Va da sé, principe; esso sarà certo ascoltato con ogni considerazione; ma voglio ancora sperare che invece di un consiglio vorrà darci un assenso.’
‘C’è un nome che io vorrei suggerire per il Senato: quello di Calogero Sedàra; egli ha più meriti di me per sedervi; il casato, mi è stato detto, è antico o finirà con esserlo; più che quel che Lei chiama il prestigio egli ha il potere; in mancanza dei meriti scientifici ne ha di pratici, eccezionali; la sua attitudine durante la crisi del Maggio scorso più che ineccepibile è stata utilissima; illusioni non credo che ne abbia più di me, ma è abbastanza svelto per sapere crearsele quando occorra. È l’individuo che fa per voi. Ma dovete far presto, perché ho inteso dire che vuol porre la propria candidatura alla camera dei deputati.’ Di Sedàra si era molto parlato in Prefettura, le attività di lui quale sindaco e quale privato erano note; Chevalley sussultò: era un onest’uomo e la propria stima delle camere legislative era pari alla purità delle proprie intenzioni; per questo credette opportuno non fiatare, e fece bene a non compromettersi perché, infatti, dieci anni più tardi, l’ottimo don Calogero doveva ottenere il laticlavio. Benché onesto, però, Chevalley non era stupido; mancava sì di quella prontezza di spirito che in Sicilia usurpa il nome di intelligenza, ma si rendeva conto delle cose con lenta solidità, e poi non aveva l’impenetrabilità meridionale agli affanni altrui. Comprese l’amarezza e lo sconforto di Don Fabrizio, rivide in un attimo lo spettacolo di miseria, di abiezione, di nera indifferenza del quale per un mese era stato testimonio; nelle ore passate aveva invidiato l’opulenza, la signorilità dei Salina, adesso ricordava con tenerezza la propria vignicciuola, il suo Monterzuolo vicino a Casale, brutto, mediocre, ma sereno e vivente; ebbe pietà tanto del principe senza speranze come dei bimbi scalzi, delle donne malariche, delle non innocenti vittime i cui elenchi giungevano così spesso al suo ufficio; tutti eguali, in fondo, compagni di sventura segregati nel medesimo pozzo.
Volle fare un ultimo sforzo: si alzò e l’emozione conferiva pathos alla sua voce: ‘Principe, ma è proprio sul serio che lei si rifiuta di fare il possibile per alleviare, per tentare di rimediare allo stato di povertà materiale, di cieca miseria morale nelle quali giace questo che è il suo stesso popolo? Il clima si vince, il ricordo dei cattivi governi si cancella, i Siciliani vorranno migliorare; se gli uomini onesti si ritirano, la strada rimarrà libera alla gente senza scrupoli e senza prospettive, ai Sedàra; e tutto sarà di nuovo come prima, per altri secoli. Ascolti la sua coscienza, principe, e non le orgogliose verità che ha detto. Collabori.’
Don Fabrizio gli sorrideva, lo prese per la mano, lo fece sedere vicino a lui sul divano: ‘Lei è un gentiluomo, Chevalley, e stimo una fortuna averlo conosciuto; Lei ha ragione in tutto; si è sbagliato soltanto quando ha detto: ‘i Siciliani vorranno migliorare.’ Le racconterò un aneddoto personale. Due o tre giorni prima che Garibaldi entrasse a Palermo mi furono presentati alcuni ufficiali di marina inglesi, in servizio su quelle navi che stavano in rada per rendersi conto degli avvenimenti. Essi avevano appreso, non so come, che io posseggo una casa alla Marina, di fronte al mare, con sul tetto una terrazza dalla quale si scorge la cerchia dei monti intorno alla città; mi chiesero di visitare la casa, di venire a guardare quel panorama nel quale si diceva che i Garibaldini si aggiravano e del quale, dalle loro navi non si erano fatti una idea chiara. Vennero a casa, li accompagnai lassù in cima; erano dei giovanottoni ingenui malgrado i loro scopettoni rossastri. Rimasero estasiati dal panorama, della irruenza della luce; confessarono però che erano stati pietrificati osservando lo squallore, la vetustà, il sudiciume delle strade di accesso. Non spiegai loro che una cosa era derivata dall’altra, come ho tentato di fare a lei. Uno di loro, poi, mi chiese che cosa veramente venissero a fare, qui in Sicilia, quei volontari italiani. ‘They are coming to teach us good manners’ risposi ‘but wont succeed, because we are gods.’ ‘Vengono per insegnarci le buone creanze ma non lo potranno fare, perché noi siamo dèi.’ Credo che non comprendessero, ma risero e se ne andarono. Così rispondo anche a Lei; caro Chevalley: i Siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti: la loro vanità è più forte della loro miseria; ogni intromissione di estranei sia per origine sia anche, se si tratti di Siciliani, per indipendenza di spirito, sconvolge il loro vaneggiare di raggiunta compiutezza, rischia di turbare la loro compiaciuta attesa del nulla; calpestati da una decina di popoli differenti essi credono di avere un passato imperiale che dà loro diritto a funerali sontuosi. Crede davvero Lei, Chevalley, di essere il primo a sperare di incanalare la Sicilia nel flusso della storia universale? Chissà quanti imani mussulmani, quanti cavalieri di re Ruggero, quanti scribi degli Svevi, quanti baroni angioini, quanti legisti del Cattolico hanno concepito la stessa bella follia; e quanti viceré spagnoli, quanti funzionari riformatori di Carlo III; e chi sa più chi siano stati? La Sicilia ha voluto dormire, a dispetto delle loro invocazioni; perché avrebbe dovuto ascoltarli se è ricca, se è saggia, se è onesta, se è da tutti ammirata e invidiata, se è perfetta, in una parola?
‘Adesso anche da noi si va dicendo in ossequio a quanto hanno scritto Proudhon e un ebreuccio tedesco del quale non ricordo il nome, che la colpa del cattivo stato delle cose, qui ed altrove, è il feudalesimo; mia cioè, per così dire. Sarà. Ma il feudalesimo c’è stato dappertutto, le invasioni straniere pure. Non credo che i suoi antenati, Chevalley, o gli squires inglesi o i signori francesi governassero meglio dei Salina. I risultati intanto sono diversi. La ragione della diversità deve ritrovarsi in quel senso di superiorità che barbaglia in ogni occhio siciliano, che noi stessi chiamiamo fierezza, che in realtà è cecità. Per ora, per molto tempo, non c’è niente da fare. Compiango; ma, in via politica, non posso porgere un dito. Me lo morderebbero. Questi sono discorsi che non si possono fare ai Siciliani; ed io stesso, del resto, se queste cose le avesse dette lei, me ne sarei avuto a male.
‘È tardi. Chevalley: dobbiamo andare a vestirci per il pranzo. Debbo recitare per qualche ora la parte di un uomo civile.’
Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, Feltrinelli, Milano 1978.
Fonte: Encarta

Bettina, Giovanna e la prevenzione. La Austen in Italia nel 1932

Cari followers, eccomi con un articolo breve e conciso. Non si tratta di una recensione.

Per finalità romanzesche mi sono interessata alle prime edizioni italiane di Orgoglio e pregiudizio. Ebbene, ora riderete.

La primissima traduzione italiana risale al 1932 e il titolo adottato fu Orgoglio e prevenzione.

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Il lavoro del traduttore Giulio Caprin è stato encomiabile ed è stato assurto a punto di riferimento per tutte le traduzioni successive. Ad ogni modo il significato moderno del termine “prevenzione” – dico moderno appunto perché all’epoca invece era usato come sinonimo di preconcetto, venire prima – mi pare un po’ ambiguo e mi riservo di non fare commenti inadeguati al contesto.

Non è finita qui. Vista la fisima fascista per l’italianizzazione di ogni cosa, sono stati tradotti anche i nomi dei personaggi, per cui:
Elizabeth diventa Bettina (!!); Jane diventa Giovanna, e così via.
Mi mancano però Darcy, Bingley e Wickham. Qualche intuizione?

Anniversario della nascita di Jane Austen

Oggi, 238 anni fa, nasceva Jane Austen. A pensarci bene è un sacco di tempo, no? E i suoi romanzi sono ancora letti e amati in tutto il mondo, si potrebbe dire anche in “chiave moderna” – non come ad esempio grandi autori che vengono studiati solo a scuola come Dante Alighieri. Chissà cosa avrebbe detto lei, davanti a questo successo mondiale e temporale?

Vediamo di approfondire un po’ la conoscenza di questa autrice, della quale personalmente ho letto quasi tutti i romanzi apprezzandoli molto.

Il celebre incipit di Orgoglio e pregiudizio:

 

È cosa nota e universalmente riconosciuta che uno scapolo in possesso di un solido patrimonio debba essere in cerca di una moglie. E per quanto poco si conoscano i sentimenti o le opinioni del gentiluomo che per la prima volta venga a trovarsi in ambienti sconosciuti, questa verità è talmente radicata nelle menti dei vicini che egli viene subito considerato legittimo appannaggio di una o l’altra delle loro figlie.

 

 

Jane Austen

 

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Jane Austen (Steventon, 16 dicembre 1775 – Winchester, 18 luglio 1817) è stata una scrittrice britannica, figura di spicco della narrativa preromantica. Ebbe grande influenza sullo sviluppo del romanzo inglese. Ricevette la tipica educazione che all’epoca si impartiva alle giovani di buona famiglia. Amante della lettura, lesse con passione i romanzi di Henry Fielding, Laurence Sterne, Samuel Richardson e le poesie di George Crabbe e William Cowper. Condusse una tranquilla vita di provincia, viaggiando poco, coltivando rare relazioni sentimentali (nessuna delle quali sfociò nel matrimonio) e intrattenendo uno stretto legame con la sorella Cassandra. Cominciò a scrivere giovanissima, e negli anni seguenti tornò spesso sui suoi romanzi, rielaborandoli prima di pubblicarli. Orgoglio e pregiudizio, ad esempio, uscito nel 1813, è il rifacimento delle giovanili First Impressions, mentre Ragione e sentimento (1811) è la riscrittura di Elinor and Marianne, composto tra il 1797 e il 1798.

Il 1811, anno in cui, dopo la morte del padre, si trasferì con la famiglia a Chawton, segnò l’inizio di un periodo d’intensa attività letteraria. Avvolta dalla tranquillità dei sereni affetti familiari, scrisse Mansfield Park (1814), Emma (1816) e, ultimo romanzo compiuto, Persuasione, pubblicato postumo insieme all’Abbazia di Northanger, scritto in precedenza.

Nel 1816 si manifestarono i primi sintomi della malattia che l’avrebbe portata alla morte, e nel 1817 la scrittrice si trasferì a Winchester. Benché ai margini dello stile romantico, molto apprezzato dai suoi contemporanei, le opere di Jane Austen, caratterizzate da acutezza di osservazione e sensibilità per i piccoli particolari della vita quotidiana, riscossero subito un notevole successo sia di pubblico sia di critica. Tra i suoi estimatori vi furono Walter Scott, che nel 1815 le riservò un apprezzamento entusiasta sulla ‘Quarterly Review’, e Samuel Taylor Coleridge.

Indifferente ai grandi avvenimenti storici dell’epoca e ai fermenti sociali di quegli anni, Jane Austen parodiò con tratti caricaturali di squisita levità i vizi e le mode del tempo. Così, nell’Abbazia di Northanger derise, nella figura della protagonista, accanita lettrice di romanzi gotici, l’amore per la narrativa del sovrannaturale e delle passioni esasperate che sarebbe culminata nelle opere di Ann Radcliffe e nel Frankenstein di Mary Shelley.

 

Cronologia delle opere

 

ANNO TITOLO GENERE
1811 Ragione e sentimento Romanzo, rifacimento di Elinor e Marianne
1813 Orgoglio e pregiudizio Romanzo, rifacimento del giovanile First Impressions
1814 Mansfield Park Romanzo
1816 Emma Romanzo
1818 L’abbazia di Northanger Romanzo, rifacimento di Susan, scritto nel 1803
1818 Persuasione Romanzo

Lo stile

 

La scrittura austeniana presenta poche scene descrittive e digressioni narrative, ma è caratterizzata dai dialoghi che l’autrice rende con il discorso diretto, con lo stile epistolare e con il discorso indiretto libero.
Quest’ultimo, fondendo il discorso diretto con la mediazione del narratore, fu utile all’autrice per rendere, in maniera ironica o drammatica, i pensieri e le parole dei protagonisti.
La mancanza dei verbi “dire” e “pensare” nella funzione di collegamento tra il narratore e il personaggio, danno l’illusione al lettore di essere nella mente dei protagonisti. La Austen utilizza ampiamente questa tecnica anche per illustrare il background dei personaggi.
Nell’uso del discorso diretto, la Austen assegna ad ogni personaggio dei caratteri distintivi che lo rendono riconoscibile dalle sue parole. Ad esempio l’Ammiraglio Croft in Persuasione è riconoscibile dallo slang navale mentre il Signor Woodhouse di Emma dal suo linguaggio perennemente ipocondriaco.

I dialoghi sono genericamente composti da periodi molto brevi e gli scambi di battute sono rapidi e incisivi. In questo senso, sono particolarmente rilevanti alcune conversazioni tra Elizabeth e Darcy in Orgoglio e pregiudizio.

Curiosità

 

  • Col termine Janeites si identificano gli appassionati di Jane Austen che elevano la loro adorazione per la scrittrice a fenomeno di culto. Il termine fu coniato per la prima volta da George Saintsbury nell’introduzione a Orgoglio e pregiudizio nell’edizione del 1894. Questo termine è stato ripreso anche da Rudyard Kipling nel racconto The Janeites. La scrittura di fanfiction e il ritrovo in club di lettura o fan site sono le principali attività dei Janeites.

  • Nel videogioco Saints Row IV, se tutte le missioni lealtà vengono completate prima del finale, Jane Austen viene rivelata essere la narratrice esterna.

Fonti: Encarta, Wikipedia

 

Oltre ai numerosi film tratti dai suoi libri, consiglio la visione del film Becoming Jane, che parla proprio della vita della Austen.

Grazie Rolihlahla

Nessuno è nato schiavo, né signore, né per vivere in miseria, ma tutti siamo nati per essere fratelli.

Nelson Mandela

 

La scomparsa di Nelson Mandela rappresenta un lutto per l’intera umanità. Non solo leader della lotta contro l’apartheid in Sudafrica ma simbolo e incarnazione della libertà, della perseveranza della giustizia. Un uomo che ha dato moltissimo al mondo mettendo se stesso in secondo piano, un uomo che ha fatto la storia e di cui certamente si avvertirà forte la mancanza.

La vita

L’educazione è il grande motore dello sviluppo personale. È grazie all’educazione che la figlia di un contadino può diventare medico, il figlio di un minatore il capo miniera o un bambino nato in una famiglia povera il presidente di una grande nazione. Non ciò che ci viene dato, ma la capacità di valorizzare al meglio ciò che abbiamo è ciò che distingue una persona dall’altra.

Nelson Mandela

 

 

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Nelson Rolihlahla Mandela (Qunu, Umtata, 18 luglio 1918 –  Johannesburg, 5 dicembre 2013), politico sudafricano e presidente del Sudafrica (1994-1999), primo nero a ricoprire questa carica nel paese. Incarcerato per più di venticinque anni per motivi politici, è divenuto il simbolo della lotta contro l’apartheid.

Figlio di un capo della tribù thembu, prese a interessarsi di politica quando ancora era studente; insieme a Oliver Tambo, da allora suo fedele compagno di lotta, partecipò nel 1940 ad alcuni scioperi studenteschi che gli costarono l’espulsione dal college. Nel 1944 con Tambo e Anton Lembede fu tra i membri fondatori della lega giovanile dell’African National Congress (ANC), diventandone il segretario nazionale nel 1948 e due anni dopo il presidente. Inizialmente contrario alla cooperazione con altri gruppi etnici, Mandela cambiò opinione nel 1952 nel corso della campagna di disobbedienza, durante la quale auspicò l’azione congiunta di tutti i gruppi razziali nella lotta contro la segregazione razziale. Nel dicembre 1952 venne arrestato e condannato a nove mesi, ma la pena fu sospesa; gli venne però proibito di partecipare a qualsiasi riunione o di lasciare il distretto di Johannesburg per un periodo di nove anni. Nel dicembre 1956 fu accusato di tradimento con altre 156 persone: il processo durò fino al 1961, ma nessuno venne condannato. Nel 1958 sposò Nkosikazi Nomzamo Madikizela, più nota come Winnie Mandela.

In seguito al massacro di Sharpeville (1960) in cui 67 cittadini di colore furono uccisi dalle forze dell’ordine sudafricane nel corso di una manifestazione contro l’apartheid, l’ANC e il Pan-African Congress (PAC), partito sorto dalla scissione di una sua minoranza, furono messi fuori legge. Nel 1962 Mandela lasciò il Sudafrica per partecipare alla prima conferenza panafricana di Addis Abeba, quindi passò in Algeria, dove fu addestrato nelle tecniche di guerriglia, e infine si recò a Londra, dove incontrò gli altri leader della resistenza politica sudafricana. Tornato in Sudafrica fu arrestato per aver lasciato illegalmente il paese e condannato a cinque anni di reclusione. Con lui furono incarcerati molti altri attivisti antiapartheid. Al processo (1963-64) Mandela assunse personalmente la propria difesa e quella dei suoi compagni. Condannato all’ergastolo, trascorse diciotto anni nel penitenziario di Robben Island, quindi venne trasferito nel carcere di Pollsmoor, a Città del Capo.

Nessuno conosce veramente una nazione fino a che non è stato nelle sue prigioni. Una Nazione non dovrebbe essere giudicata da come tratta i suoi cittadini migliori, ma da come tratta i suoi cittadini di più basso rango.

Nelson Mandela

 

La campagna di protesta contro le autorità sudafricane per la sua liberazione assunse una dimensione mondiale. Nel 1985 Mandela rifiutò la libertà condizionata offerta dal presidente Botha, e chiese che il governo rivedesse la propria posizione sulla questione dell’apartheid. Il presidente De Klerk liberò Mandela nel febbraio 1990 dopo aver nuovamente riconosciuto la legalità dell’African National Congress e degli altri partiti politici soppressi. Mandela assunse la direzione del partito e avviò le trattative con il governo; il dialogo fra le parti fu difficile e spesso aspro, ma finalmente, nel 1991, il governo revocò l’ultima legge che regolava l’apartheid.

Per l’impegno dimostrato nel processo di democratizzazione del paese e di pacifica convivenza multirazziale, Mandela e De Klerk, nel 1993, ricevettero il premio Nobel per la pace. Nel maggio 1994, con le prime elezioni libere del paese, in cui ebbe diritto di voto anche la popolazione nera, Mandela divenne il primo presidente nero del paese; due anni dopo, nel maggio 1996, varò la nuova costituzione del Sudafrica. Non ricandidatosi per un nuovo mandato, dopo le elezioni del giugno 1999 che hanno visto trionfare l’African National Congress, “Madiba” (il Vecchio) come viene affettuosamente chiamato dal suo popolo ha lasciato le cariche di presidente del partito e del Sudafrica al suo vicepresidente, Thabo Mbeki.

Per gli uomini, la libertà nella propria terra è l’apice delle aspirazioni.

Nelson Mandela

 

Il vescovo Desmond Tutu consegna al presidente Nelson Mandela le copie del rapporto finale della Commissione per la verità e la riconciliazione. Istituita nel 1995, la Commissione fu presieduta da Tutu ed ebbe un duplice scopo: accertare le violazioni dei diritti umani compiute in Sudafrica durante il lungo regime dell'apartheid e favorire la ripresa del dialogo nel paese. La Commissione concluse i suoi lavori nel 1998 con la ferma condanna della segregazione razziale, considerata un grave crimine contro l'umanità.

Il vescovo Desmond Tutu consegna al presidente Nelson Mandela le copie del rapporto finale della Commissione per la verità e la riconciliazione. Istituita nel 1995, la Commissione fu presieduta da Tutu ed ebbe un duplice scopo: accertare le violazioni dei diritti umani compiute in Sudafrica durante il lungo regime dell’apartheid e favorire la ripresa del dialogo nel paese. La Commissione concluse i suoi lavori nel 1998 con la ferma condanna della segregazione razziale, considerata un grave crimine contro l’umanità.

Fonte: Encarta

 

 

La filosofia Ubuntu

 

Una persona che viaggia attraverso il nostro paese e si ferma in un villaggio non ha bisogno di chiedere cibo o acqua: subito la gente le offre del cibo, la intrattiene. Ecco, questo è un aspetto di Ubuntu, ma ce ne sono altri. Ubuntu non significa non pensare a sé stessi; significa piuttosto porsi la domanda: voglio aiutare la comunità che mi sta intorno a migliorare?

Nelson Mandela

 

 

 

 

L’autobiografia

LUNGO CAMMINO VERSO LA LIBERTA'

Non c’è nessuna strada facile per la libertà.

Nelson Mandela

 

L’autobiografia di Nelson Mandela assume ora una valenza ancor più significativa: oltre alle persone cui egli ha migliorato indirettamente la vita, è ai libri che spetta ora rendere immortale la sua memoria come esempio di vera umanità e struggente amore per le proprie origini.

Lungo cammino verso la libertà merita di essere letto con attenzione. Non solo per conoscere a fondo la vita di Mandela, quanto piuttosto per fare un passo alla volta assieme a lui in quel cammino che come dice il titolo è lungo ma porta alla libertà. Provate a immaginare la sofferenza di un popolo che, nella propria terra, si vede privato da stranieri dei diritti fondamentali. Con quale autorità? Quale arroganza hanno dimostrato i bianchi instaurando il regime dell’apartheid?

Mandela attraverso le pagine ci mostra la parte più intima di sé, quella di un uomo che cresce e matura perseguendo più che la propria felicità, la realizzazione di ciò in cui crede con ogni fibra del suo essere. Non un uomo senza peccato, ma un uomo che è stato capace di cambiare la storia. Un uomo straordinario.
Un libro che entra nel cuore e che commuove, la cui lettura potrebbe essere validamente inserita nell’istituzione scolastica di tutto il mondo.

Approfondimenti

 

Apartheid

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Un gruppo di sudafricani legge il resoconto di uno scontro tra la polizia e i minatori neri avvenuto nel 1973; lo scontro fece undici vittime.

Politica di segregazione razziale formalmente adottata in Sudafrica dal 1948 al 1993. Nella lingua afrikaans il termine apartheid significa ‘separazione’ e indica la rigida divisione razziale che regolava le relazioni tra la minoranza bianca e la maggioranza non bianca della popolazione. Nel novembre del 1993 fu raggiunto un accordo che mise fine all’apartheid e nel 1994 si tennero le prime elezioni politiche in cui votavano gli appartenenti a tutte le razze.

L’apartheid fu adottato nel 1948 dopo la vittoria elettorale del Partito nazionalista del Sudafrica (NP). Le leggi dell’apartheid classificavano i cittadini in tre principali gruppi razziali: bianco, bantu (neri africani) e coloured (persone con discendenza mista). Successivamente venne istituita una quarta categoria per gli asiatici (indiani e pakistani).

Le leggi prescrivevano i luoghi in cui ciascun gruppo poteva vivere, che tipo di lavori poteva esercitare e a che tipo di sistema scolastico poteva accedere. Le leggi proibivano quasi tutte le relazioni interrazziali, istituivano luoghi pubblici separati (ad esempio, riservando alcune spiagge ai bianchi) ed escludevano i non bianchi da ogni forma di rappresentanza politica. Gli oppositori dell’apartheid furono perseguiti penalmente e il governo inasprì la propria politica di repressione fino a trasformare il Sudafrica in uno stato di polizia.

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Il leader politico sudafricano Stephen Biko è uno dei martiri del regime dell’apartheid in Sudafrica. Arrestato nel 1977 per attività politiche contro il governo della minoranza bianca segregazionista, morì in seguito alle percosse e ai maltrattamenti della polizia. Nella foto, seguaci di Biko riuniti nella sua città natale per commemorare il decimo anniversario della morte.

La segregazione razziale fu contrastata dall’African National Congress (ANC), fondato nel 1912 dai neri. Dopo gli scioperi contro l’apartheid che culminarono nel massacro di Sharpeville nel marzo del 1960, il governo mise al bando tutte le organizzazioni politiche nere, compreso l’ANC. Tuttavia le dimostrazioni, gli scontri violenti, gli scioperi e i boicottaggi che si susseguirono sempre più frequenti negli anni Sessanta e Settanta da parte degli oppositori dell’apartheid, il fallimento della politica dei bantustan e la condanna internazionale che aveva isolato il Sudafrica, costrinsero il governo ad allentare le restrizioni, ad esempio quelle che riguardavano il contatto quotidiano tra membri delle diverse componenti etniche (petty apartheid).

Dalla metà degli anni Settanta fino alla metà degli anni Ottanta il governo attuò una serie di riforme che permisero alle rappresentanze sindacali nere di organizzarsi e di svolgere una limitata attività politica. La Costituzione del 1984 estese la rappresentanza parlamentare agli asiatici e ai coloured, ma non ai neri, nonostante costituissero oltre il 75% della popolazione. Si accesero nuove rivolte nelle città e, essendo cresciuta la pressione internazionale contro il Sudafrica, le politiche governative dell’apartheid cominciarono ad allentarsi.

Nel 1990 il nuovo presidente Frederik Willem de Klerk revocò ufficialmente la messa al bando trentennale dell’ANC e liberò il suo leader, Nelson Mandela. Nel 1993 venne raggiunto e sottoscritto da Mandela e De Klerk un accordo sulle modalità della transizione del Sudafrica alla democrazia. Nelle prime libere elezioni del 1994 Mandela divenne il primo presidente nero nella storia del Sudafrica, a capo di una coalizione governativa che comprendeva anche il Partito nazionale.

Fonte: Encarta

 

Grazie Rolihlahla, senza di te il mondo sarà più povero. Ma tu vivrai in eterno.

Accadde oggi: nel 1922 Howard Carter entra nella tomba di Tutankhamon

Oh, che bello. Oggi vi parlo della tomba di Tutankhamon, nell’anniversario della scoperta. Non ve l’avevo detto? Sono appassionata anche di storia egizia. Passione che ho avuto la fortuna di nutrire anche dal vivo, durante un lungo viaggio in Egitto.

L’arte, la cultura e la storia egizie sono così vaste che risulta impossibile parlarne brevemente, per cui focalizziamo l’attenzione su ciò che riguarda Tutankhamon.

Chi è Tutankhamon

La maschera di Tutankhamon, diciotto chili di oro massiccio, è conservata al museo egizio del Cairo.

La sontuosa maschera funeraria del faraone egizio Tutankhamon, risalente alla metà del XIV secolo a.C., è uno straordinario lavoro di oreficeria e intarsio di pietre dure (lapislazzuli e cornalina).
Diciotto chili di oro massiccio, è conservata al Museo egizio del Cairo.

Tutankhamon (XIV secolo ca. a.C.) fu un faraone della XVIII dinastia che regnò dal 1350 al 1341 ca. a.C. Succeduto ad Akhenaton, dopo il breve regno del fratellastro Semenkhara, reintrodusse il culto di Ammone, abbandonato per volere di Akhenaton, e riportò la capitale a Tebe, ponendo così fine alla crisi politica e religiosa che aveva opposto il suo predecessore alla ricca e potente casta dei sacerdoti di Ammone.

Poco si sa del regno di Tutankhamon e, considerata la sua giovane età (morì a circa diciannove anni), è probabile che il Paese fosse di fatto governato da Horemheb, capo dell’esercito. La sua notorietà deriva soprattutto dal ritrovamento della sua tomba da parte di Howard Carter (vedi approfondimento in fondo all’articolo) nel 1922. Sfuggita ai saccheggi, conteneva intatto il corredo funerario del faraone, oltre alla sua mummia, attualmente conservati al Museo egizio del Cairo.

La scoperta della tomba

Carter & Callender In Tut's Tomb

La scoperta della tomba del faraone Tutankhamon, vissuto nel XIV secolo a.C., rappresenta una delle maggiori conquiste dell’archeologia del XX secolo. Gli scavi furono iniziati nel 1922 dagli studiosi Howard Carter e Lord Carnarvon. Gli archeologi identificarono le tracce della tomba di Tutankhamon sotto i detriti di quella di Ramesse VI, nella Valle dei Re (vedi approfondimento in fondo all’articolo). A differenza degli altri sepolcri, quello di Tutankhamon, che comprende ben quattro stanze sotterranee, non era stato saccheggiato dai ladri, e gli studiosi vi trovarono oltre 5000 oggetti, fra i quali la celebre maschera mortuaria in oro del faraone, gioielli, mobili, armi, ventagli, statue, oggi esposti presso il Museo egizio del Cairo.

La tomba

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Si tratta della tomba più dimessa, ma è anche la più famosa della valle per l’immenso tesoro artistico e archeologico scopertovi. La tomba è modesta perché fu eseguita affrettatamente per un faraone di secondaria importanza, morto giovanissimo. Tutankhamon visse nel periodo travagliato dalle lotte politico-religiose originate dalla morte del grande faraone eretico Akhenaton, disordini sedati dopo qualche anno dopo dal potente Horemheb. La tomba venne limitata a un corto corridoio conducente all’anticamera su cui si affacciano, a destra, la camera sepolcrale e la stanza del tesoro, mentre di fronte è un’altra stanza destinata ad accogliere le offerte e l’arredo. Di tutto il complesso solo la camera sepolcrale fu decorata con una raffigurazione di Aj, secondo martito di Nefertiti, e successore di Tutankhamon, mentre compie la cerimonia dell’apertura degli occhi e della bocca del defunto in sembianze di Osiride.

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Appena riempita del corredo e sigillata, la tomba venne visitata dai ladri che, disturbati, ne asportarono solo pochi oggetti. Riordinata sommariamente e sigillata di nuovo dai Sacerdoti ebbe la fortuna, cent’anni dopo, di rimanere sepolta dai detriti prodotti nello scavo della tomba di Rameses IX. Il materiale di scarto ne cancellò ogni traccia cos’ che essa fu dimenticata per quasi tremila anni.

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Parte dell’arredo funebre di Tutankhamon accatatato nell’anticamera della tomba: al centro della foto, il più bello dei tre letti funebri, quello i cui lati sono vacche con le corna a forma di lira che racchiudono il disco solare. Al di sotto di esso è stipato del pane.

Il tesoro

In tutti gli ambienti della tomba di Tutankhamon furono rinvenuti oggetti preziosi: gioielli, amuleti, monili, oggetti rituali, sigilli, strumenti musicali, sedie, carri, statue, portantine, maschere e sarcofagi in oro massiccio decorato finemente e con pietre preziose. Basti pensare che persino alcune delle pareti interne erano ricoperte da un sottile foglio d’oro ottenuto con battitura a freddo.

Sono stata sia nella Valle dei Re che nel Museo del Cairo e vi assicuro che gli oggetti realizzati per i reali hanno davvero una fattura che lascia a bocca aperta.

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Approfondimenti

Howard Carter

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Howard Carter (Swaffham, Norfolk 1873 – Londra 1939) fu un archeologo ed egittologo britannico. Dal 1891 al 1899 partecipò a una spedizione di scavi in Egitto; nel 1892 collaborò con l’egittologo britannico Flinders Petrie nel sito di Tell el-Amarna e gli fu affidato l’incarico di sovrintendente al dipartimento di antichità del governo egiziano. Tra le sue scoperte più importanti si annoverano le tombe dei faraoni Tutmosi IV, Amenofi I e della regina Hatshepsut. Nel 1922 Carter e l’egittologo britannico George Herbert Carnarvon effettuarono uno dei maggiori ritrovamenti del XX secolo: nella Valle dei Re, a Luxor, scoprirono la tomba di Tutankhamon, faraone della XVIII dinastia. La tomba, intatta, conteneva una ricchissima collezione di tesori conservata attualmente al Museo egizio del Cairo.

Valle dei Re

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Necropoli situata sulla riva occidentale del Nilo di fronte a Luxor, in Egitto, luogo di sepoltura dei faraoni del Nuovo Regno (1570-1070 a.C). Sebbene sia vicina al fiume, la valle è celata da alte rocce e la via d’accesso è lunga, stretta e tortuosa. Prima del Nuovo Regno le necropoli reali erano costituite da complessi formati da tombe-piramidi e templi. Amenofi I (1551-1524 a.C.) ruppe la tradizione, facendo costruire il proprio tempio a poca distanza dal fiume e la tomba a nord-ovest, tra le rocce. I suoi successori ne seguirono l’esempio, scegliendo tuttavia di costruire le tombe all’interno della valle, probabilmente per cercare di impedire che fossero depredate.

Gli scavi hanno portato alla luce 34 tombe, a partire da quella di Seti I, trovata dall’italiano Belzoni nel 1817; il corpo di Seti I, insieme con altre 39 mummie reali spostate dai sepolcri, fu scoperto nel 1881 in una grande camera funeraria scavata nelle rocce che si affacciano sul Nilo. Quasi tutte le tombe contengono numerosi vani le cui pareti recano testi geroglifici incisi e dipinti, nonché scene magiche e simboliche. L’ultima tomba scoperta (1922) fu quella di Tutankhamon, faraone della XVIII dinastia, l’unica scampata a saccheggi in tempi antichi. Sebbene avesse subito due furti, la tomba conteneva ancora oltre 5000 oggetti sepolti insieme con il giovane re. Tranne Hatshepsut, sposa di Tutmosi II, che regnò a pieno titolo, le mogli dei faraoni venivano sepolte alcuni chilometri più a sud, nella Valle delle Regine.

Fonte: Encarta, Wikipedia, Arte e storia dell’Egitto (Bonechi)

Giornata internazionale contro la violenza sulle donne

Abbiamo la Festa della Donna e, negli ultimi anni, è stato “necessario” istituire la Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, che ricorre oggi. Una bella contraddizione a parer mio. Che bella cosa che si è fatta istituendo appunto la Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, no? No. Perché non dovrebbe esistere il problema di fondo. Allora dov’è la “falla”? Nell’educazione che si da ai bambini che poi diventano uomini? Nei continui messaggi a sfondo sessuale trasmessi dai mass media? Nella nostra “avanzata” cultura? In ogni caso si tratta di un problema grave, che deturpa la società.

Ecco alcune delle frasi “tipiche” dette da donne vittime di violenza.

  • Lui mi ama.

  • Questa è stata l’ultima volta.

  • Cambierà.

  • È stata colpa mia.

  • Mi vergogno.

Parole che dovrebbero far riflettere, soprattutto se si considera quante donne vengono uccise dai propri compagni/mariti/fidanzati.

Non è accettabile. Neanche un solo schiaffo.

Non è accettabile.

 

Si dovrebbe, secondo me, introdurre nelle scuole dei laboratori o delle lezioni orientati a queste problematiche: per colmare le lacune nell’educazione dei ragazzi e per suscitare un istinto alla ribellione alla violenza nelle ragazze. E poi bisognerebbe dare una bella scossa alla società intera, perché se le vittime di violenza hanno paura o vergogna di parlare delle proprie problematiche un po’ di colpa ce l’hanno pure i cittadini “per bene”.

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Quarta edizione del Festival dell’Immagine: “Alla scoperta del centro storico”

Salve amici, oggi vi parlo di un festival artistico che si tiene nella mia città.

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L’Associazione Un’altra Martina presenta la quarta edizione del Festival dell’Immagine. Anno dopo anno essa raccoglie sempre più artisti e spettatori. Il tema di quest’anno mi è particolarmente caro: Alla scoperta del centro storico. Il centro storico di Martina Franca, a cui come ben sapete dedico un’intera rubrica qui sul blog – Pillole di arte martinese – è un’esplosione d’arte che merita di essere ammirata e valorizzata.

Partecipate in tanti. Per info cliccate qui.

20 novembre: Giornata internazionale per i diritti dell’infanzia

Oggi ricorre la Giornata internazionale per i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. Essa celebra la data in cui la Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia venne approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite (vedi approfondimento in fondo all’articolo) a New York, il 20 novembre 1989. Ogni anno, il 20 novembre, si ricorda questa data in quasi tutti i paesi del mondo.

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La Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia

La Convenzione ONU sui Diritti dell’infanzia esprime un consenso su quali sono gli obblighi degli Stati e della comunità internazionale nei confronti dell’infanzia. Tutti i Paesi del mondo hanno ratificato questa Convenzione. La Convenzione è stata ratificata dall’Italia il 27 maggio 1991 con la legge n. 176. Oggi aderiscono alla Convenzione 193 Stati. La Convenzione è uno strumento giuridico e un riferimento a ogni sforzo compiuto in cinquant’anni di difesa dei diritti dei bambini.

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Curiosità

  • Soltanto due Paesi al mondo non hanno ratificato la Convenzione sui diritti dell’infanzia: Somalia e Stati Uniti.

E qui non posso evitare di fare una considerazione personale. Tralasciando per un attimo la faccenda della Somalia, di cui non condivido la mancanza ma che posso – con sforzo – comprendere visto i numerosi problemi di ogni genere da cui il Paese è afflitto, vi pare accettabile che proprio gli Stati Uniti, Paese in cui ha sede l’ONU e in cui è stata redatta la Convenzione sui diritti dell’infanzia, non l’abbia riconosciuta dal punto di vista giuridico? Purtroppo non è una barzelletta ma l’ennesima dimostrazione che in realtà gli Stati Uniti, gonfi della propria superiorità, fanno ciò che vogliono e anche – è il caso di dirlo – il buono e il cattivo tempo.

I 54 articoli

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PARTE PRIMA

ARTICOLO 1
Ai sensi della presente Convenzione si intende per fanciullo ogni essere umano avente un’età inferiore a diciott’anni, salvo se abbia raggiunto prima la maturità in virtù della legislazione applicabile.

ARTICOLO 2
1. Gli Stati parti si impegnano a rispettare i diritti enunciati nella presente Convenzione ed a garantirli ad ogni fanciullo che dipende dalla loro giurisdizione, senza distinzione di sorta ed a prescindere da ogni considerazione di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o altra del fanciullo o dei suoi genitori o rappresentanti legali, dalla loro origine nazionale, etnica o sociale, dalla loro situazione finanziaria, dalla loro incapacità, dalla loro nascita o da ogni altra circostanza.
2. Gli Stati parti adottano tutti i provvedimenti appropriati affinché il fanciullo sia effettivamente tutelato contro ogni forma di discriminazione o di sanzione motivate dalla condizione sociale, dalle attività, opinioni professate o convinzioni dei suoi genitori, dei suoi rappresentanti legali o dei suoi familiari.

ARTICOLO 3
1. In tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza sia delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente.
2. Gli Stati parti si impegnano ad assicurare al fanciullo la protezione e le cure necessarie al suo benessere, in considerazione dei diritti e dei doveri dei suoi genitori, dei suoi tutori o di altre persone che hanno la sua responsabilità legale, ed a tal fine essi adottano tutti i provvedimenti legislativi ed amministrativi appropriati.
3. Gli Stati parti vigilano affinché il funzionamento delle istituzioni, servizi e istituti che hanno la responsabilità dei fanciulli e che provvedono alla loro protezione sia conforme alle norme stabilite dalle autorità competenti in particolare nell’ambito della sicurezza e della salute e per quanto riguarda il numero e la competenza del loro personale nonché l’esistenza di un adeguato controllo.

ARTICOLO 4
Gli Stati parti si impegnano ad adottare tutti i provvedimenti legislativi, amrninistrativi ed altri, necessari per attuare i diritti riconosciuti dalla presente Convenzione. Trattandosi di diritti economici, sociali e culturali, essi adottano tali provvedimenti entro i limiti delle risorse di cui dispongono e, se del caso, nell’ambito della cooperazione internazionale.

ARTICOLO 5
Gli Stati parti rispettano la responsabilità, il diritto ed il dovere dei genitori o, se del caso, dei membri della famiglia allargata o della collettività, come previsto dagli usi locali, dei tutori o altre persone legalmente responsabili dei fanciulli, di dare a quest’ultimo, in maniera corrispondente allo sviluppo delle sue capacità, l’orientamento ed i consigli adeguati all’esercizio dei diritti che gli sono riconosciuti dalla presente Convenzione.

ARTICOLO 6
1. Gli Stati parti riconoscono che ogni fanciullo ha un diritto inerente alla vita.
2. Gli Stati parti assicurano in tutta la misura del possibile la sopravvivenza e lo sviluppo del fanciullo.

ARTICOLO 7
1. Iil fanciullo è registrato immediatamente al momento della sua nascita e da allora ha diritto ad un nome, ad acquisire una cittadinanza e, nella misura del possibile, a conoscere i suoi genitori ed a essere allevato da essi.
2. Gli Stati parti vigilano affinché questi diritti siano attuati in conformità con la loro legislazione nazionale e con gli obblighi che sono imposti loro dagli strumenti internazionali applicabili in materia, in particolare nei casi in cui se ciò non fosse fatto, il fanciullo verrebbe a trovarsi apolide.

ARTICOLO 8
1. Gli Stati parti si impegnano a rispettare il diritto dei fanciullo a preservare la propria identità, ivi compresa la sua nazionalità, il suo nome e le sue relazioni familiari, così come riconosciuti dalla legge, senza ingerenze illegali.
2. Se un fanciullo è illegalmente privato degli elementi costitutivi della sua identità o di alcuni di essi, gli Stati parti devono concedergli adeguata assistenza e potezione affinché la sua identità sia ristabilita il più rapidamente possibile.

ARTICOLO 9
1. Gli Stati parti vigilano affinché il fanciullo non sia separato dai suoi genitori contro la loro volontà a meno che le autorità competenti non decidano, sotto riserva di revisione giudiziaria e conformemente con le leggi di procedura applicabili, che questa separazione è necessaria nell’interesse preminente dei fanciullo. Una decisione in questo senso può essere necessaria in taluni casi particolari, ad esempio quando i genitori maltrattano o trascurano il fanciullo oppure se vivono separati ed una decisione debba essere presa riguardo al luogo di residenza del fanciullo.
2. In tutti i casi previsti al paragrafo 1 del presente articolo, tutte le parti interessate devono avere la possibilità di partecipare alle deliberazioni e di far conoscere le loro opinioni.
3. Gli Stati parti rispettano il diritto del fanciullo separato da entrambi i genitori o da uno di essi, di intrattenere regolarmente rapporti personali e contatti diretti con entrambi i suoi genitori, a meno che ciò non sia contrario all’interesse preminente del fanciullo.
4. Se la separazione è il risultato di provvedimenti adottati da uno Stato parte, come la detenzione, l’imprigionamento, l’esilio, l’espulsione o la morte (compresa la morte, quale che ne sia la causa, sopravvenuta durante la detenzione) di entrambi i genitori o di uno di essi, o del fanciullo, lo Stato parte fornisce dietro richiesta ai genitori, al fanciullo oppure, se del caso, ad un altro membro della famiglia, le informazioni essenziali concernenti il luogo dove si trovano il familiare o i familiari, a meno che la divulgazione di tali informazioni possa mettere a repentaglio il benessere del fanciullo. Gli Stati parti vigilano inoltre affinché la presentazione di tale domanda non comporti di per sé conseguenze pregiudizievoli per la persona o per le persone interessate.

ARTICOLO 10
1. In conformità con l’obbligo che incombe agli Stati parti in virtù del paragrafo 1 dell’art. 9, ogni domanda presentata da un fanciullo o dai suoi genitori in vista di entrare in uno Stato parte o di lasciarlo ai fini di un ricongiungimento familiare sarà considerata con uno spirito positivo, con umanità e diligenza. Gli Stati parti vigilano inoltre affinché la presentazione di tale domanda non comporti conseguenze pregiudizievoli per gli autori della domanda e per i loro familiari.
2. Un fanciullo i cui genitori risiedono in Stati diversi ha diritto ad intrattenere rapporti personali e contatti diretti regolari con entrambi i suoi genitori, salve circostanze eccezionali. A tal fine, ed in conformità con l’obbligo incombente agli Stati parti, in virtù del paragrafo 1 dell’art. 9, gli Stati parti rispettano il diritto del fanciullo e dei suoi genitori di abbandonare ogni paese, compreso il loro e di fare ritorno nel proprio paese. Il diritto di abbandonare ogni paese può essere regolamentato solo dalle limitazioni stabilite dalla legislazione, necessarie ai fini della protezione della sicurezza interna, dell’ordine pubblico, della salute o della moralità pubbliche, o dei diritti e delle libertà di altrui, compatibili con gli altri diritti riconosciuti nella presente Convenzione.

ARTICOLO 11
1. Gli Stati parti adottano provvedimenti per impedire gli spostamenti ed i non-ritorni illeciti di fanciulli all’estero.
2. A tal fine, gli Stati parti favoriscono la conclusione di accordi bilaterali o unilaterali oppure l’adesione ad accordi esistenti.

ARTICOLO 12
1. Gli Stati parti garantiscono al fanciullo capace di discernimento il diritto di esprimere liberamente la sua opinione su ogni questione che lo interessa, le opinioni del fanciullo essendo debitamente prese in considerazione tenendo conto della sua età e del suo grado di maturità.
2. A tal fine, si darà in particolare al fanciullo la possibilità di essere ascoltato in ogni procedura giudiziaria o amministrativa che lo concerne, sia direttamente, sia tramite un rappresentante o un organo appropriato, in maniera compatibile con le regole di procedura della legislazione nazionale.

ARTICOLO 13
1. Il fanciullo ha diritto alla libertà di espressione. Questo diritto comprende la libertà di ricercare, di ricevere e di divulgare informazioni ed idee di ogni specie, indipendentemente dalle frontiere, sotto forma orale, scritta, stampata o artistica, o con ogni altro mezzo a scelta del fanciullo.
2. L’esercizio di questo diritto può essere regolamentato unicamente dalle limitazioni stabilite dalla legge e che sono necessarie:
a) al rispetto dei diritti o della reputazione di altrui; oppure
b) alla salvaguardia della sicurezza nazionale, dell’ordine pubblico, della salute o della moralità pubbliche.

ARTICOLO 14
1. Gli Stati parti rispettano il diritto dei fanciullo alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione.
2. Gli Stati parti rispettano il diritto ed il dovere dei genitori oppure, se del caso, dei rappresentanti legali del bambino, di guidare quest’ultimo nell’esercizio del summenzionato diritto in maniera che corrisponda allo sviluppo delle sue capacità.
3. La libertà di manifestare la propria religione o convinzioni può essere soggetta unicamente alle limitazioni prescritte dalla legge, necessarie ai fini del mantenimento della sicurezza pubblica, dell’ordine pubblico, della sanità e della moralità pubbliche, oppure delle libertà e diritti fondamentali dell’uomo.

ARTICOLO 15
1. Gli Stati parti riconoscono i diritti del fanciullo alla libertà di associazione ed alla libertà di riunirsi pacificamente
2. L’esercizio di tali diritti può essere oggetto unicamente delle limitazioni stabilite dalla legge, necessarie in una società democratica nell’interesse della sicurezza nazionale, della sicurezza o dell’ordine pubblico, oppure per tutelare la sanità o la moralità pubbliche, o i diritti e le libertà altrui.

ARTICOLO 16
1. Nessun fanciullo sarà oggetto di interferenze arbitrarie o illegali nella vita privata, nella sua famiglia, nel suo domicilio o nella sua corrispondenza, e neppure di affronti illegali al suo onore e alla sua reputazione.
2. Il fanciullo ha diritto alla protezione della legge contro tali interferenze o tali affronti.

ARTICOLO 17
Gli Stati parti riconoscono l’importanza della funzione esercitata dai mass media e vigilano affinché il fanciullo possa accedere ad una informazione ed a materiali provenienti da fonti nazionali ed internazionali varie, soprattutto se finalizzati a promuovere il suo benessere sociale, spirituale e morale nonché la sua salute fisica e mentale. A tal fine, gli Stati parti:
a) incoraggiano i mass media a divulgare informazioni e materiali che hanno una utilità sociale e culturale per il fanciullo e corrispondono allo spirito dell’art. 29;
b) incoraggiano la cooperazione internazionale in vista di produrre, di scambiare e di divulgare informazioni e materiali di questo tipo provenienti da varie fonti culturali, nazionali ed internazionali;
c) incoraggiano la produzione e la diffusione di libri per l’infanzia;
d) incoraggiano i mass media a tenere conto in particolar modo delle esigenze linguistiche dei fanciulli autoctoni o appartenenti ad un gruppo minoritario;
e) favoriscono l’elaborazione di principi direttivi appropriati destinati a proteggere il fanciullo dalle informazioni e dai materiali che nuocciono al suo benessere in considerazione delle disposizioni degli arti. 13 e 18.

ARTICOLO 18
1. Gli Stati parti faranno del loro meglio per garantire il riconoscimento del principio comune secondo il quale entrambi i genitori hanno una responsabilità comune per quanto riguarda l’educazione dei fanciullo ed il provvedere al suo sviluppo. La responsabilità di allevare il fanciullo e di provvedere al suo sviluppo incombe innanzitutto ai genitori del fanciullo oppure, se del caso, ai suoi rappresentanti legali i quali devono essere guidati principalmente dall’interesse preminente del fanciullo.
2. Al fine di garantire e di promuovere i diritti enunciati nella presente Convenzione, gli Stati parti accordano gli aiuti appropriati ai genitori ed ai rappresentanti legali dei fanciullo nell’esercizio della responsabilità che incombe loro di allevare il fanciullo e provvedono alla creazione di istituzioni, istituti e servizi incaricati di vigilare sul benessere del fanciullo.
3. Gli Stati parti adottano ogni appropriato provvedimento per garantire ai fanciulli i cui genitori lavorano, il diritto di beneficiare dei servizi e degli istituti di assistenza all’infanzia, per i quali essi abbiano i requisiti necessari.

ARTICOLO 19
1. Gli Stati parti adottano ogni misura legislativa, amministrativa, sociale ed educativa per tutelare il fanciullo contro ogni forma di violenza, di oltraggio o di brutalità fisiche o mentali, di abbandono o di negligenza, di maltrattamenti o di sfruttamento, compresa la violenza sessuale, per tutto il tempo in cui è affidato all’uno o all’altro, o ad entrambi i suoi genitori, al suo rappresentante legale (o rappresentanti legali), oppure ad ogni altra persona che ha il suo affidamento.
2. Le suddette misure di protezione comporteranno, in caso di necessità, procedure efficaci per la creazione di programmi sociali finalizzati a fornire l’appoggio necessario al fanciullo e a coloro ai quali egli è affidato, nonché per altre forme di prevenzione, ed ai fini dell’individuazione, del rapporto dell’arbitrato, dell’inchiesta, della trattazione e dei seguiti da dare ai casi di maltrattamento del fanciullo di cui sopra; esse dovranno altresì includere, se necessario, procedure di intervento giudiziario.

ARTICOLO 20
1. Ogni fanciullo il quale è temporaneamente o definitivamente privato del suo ambiente familiare oppure che non può essere lasciato in tale ambiente nel suo proprio interesse, ha diritto ad una protezione e ad aiuti speciali dello Stato.
2. Gli Stati parti prevedono per questo fanciullo una protezione sostitutiva, in conformità con la loro legislazione nazionale.
3. Tale protezione sostitutiva può in particolare concretizzarsi per mezzo di sistemazione in una famiglia, della kafatab di diritto islamico, dell’adozione o in caso di necessità, del collocamento in un adeguato istituto per l’infanzia. Nell’effettuare una selezione tra queste soluzioni, si terrà debitamente conto della necessità di una certa continuità nell’educazione del fanciullo, nonché della sua origine etnica, religiosa, culturale e linguistica.

ARTICOLO 21
Gli Stati parti che ammettono e/o autorizzano l’adozione, si accertano che l’interesse superiore del fanciullo sia la considerazione fondamentale in materia, e:
a) vigilano affinché l’adozione di un fanciullo sia autorizzata solo dalle autorità competenti le quali verificano, in conformità con la legge e con le procedure applicabili ed in base a tutte le informazioni affidabili relative al caso in esame, che l’adozione può essere effettuata in considerazione della situazione del bambino in rapporto al padre ed alla madre, genitori e rappresentanti legali e che, ove fosse necessario, le persone interessate hanno dato il loro consenso all’adozione in cognizione di causa, dopo aver acquisito i pareri necessari;
b) riconoscono che l’adozione all’estero può essere presa in considerazione come un altro mezzo per garantire le cure necessarie al fanciullo, qualora quest’ultimo non possa essere messo a balia in una famiglia, oppure in una famiglia di adozione, oppure essere allevato in maniera adeguata;
c) vigilano, in caso di adozione all’estero, affinché il fanciullo abbia il beneficio di garanzie e di norme equivalenti a quelle esistenti per le adozioni nazionali;
d) adottano ogni adeguata misura per vigilare affinché, in caso di adozione all’estero, il collocamento del fanciullo non diventi fonte di profitto materiale indebito per le persone che ne sono responsabili;
e) ricercano le finalità del presente articolo stipulando accordi o intese bilaterali o multilaterali a seconda dei casi, e si sforzano in questo contesto di vigilare affinché le sistemazioni di fanciulli all’estero siano effettuate dalle autorità o dagli organi competenti.

ARTICOLO 22
1. Gli Stati parti adottano misure adeguate affinché il fanciullo il quale cerca di ottenere lo statuto di rifugiato, oppure è considerato come rifugiato ai sensi delle regole e delle procedure del diritto internazionale o nazionale applicabile, solo o accompagnato dal padre o dalla madre o da ogni altra persona, possa beneficiare della protezione e della assistenza umanitaria necessarie per consentirgli di usufruire dei diritti che gli sono riconosciuti dalla presente Convenzione e dagli altri strumenti internazionali relativi ai diritti dell’uomo o di natura umanitaria di cui detti Stati sono parti.
2. A tal fine, gli Stati parti collaborano, a seconda di come lo giudichino necessario, a tutti gli sforzi compiuti dall’Organizzazione delle Nazioni Unite e le altre organizzazioni intergovernative o non governative competenti che collaborano con l’organizzazione delle Nazioni Unite, per proteggere ed aiutare i fanciulli che si trovano in tale situazione e per ricercare i genitori o altri familiari di ogni fanciullo rifugiato al fine di ottenere le infortmazioni necessarie per ricongiungerlo alla sua famiglia. Se il padre, la madre o ogni altro familiare sono irreperibili, al fanciullo sarà concessa, secondo i principi enunciati nella presente Convenzione, la stessa protezione di quella di ogni altro fanciullo definitivamente oppure temporaneamente privato del suo ambiente familiare per qualunque motivo.

ARTICOLO 23
1. Gli stati parti riconoscono che i fanciulli mentalmente o fisicamente handicappati devono condurre una vita piena e decente, in condizioni che garantiscano la loro dignità, favoriscano la loro autonomia ed agevolino una loro attiva partecipazione alla vita della comunità.
2. Gli Stati parti riconoscono il diritto dei fanciulli handicappati di beneficiare di cure speciali ed incoraggiano e garantiscono, in considerazione delle risorse disponibili, la concessione, dietro richiesta, ai fanciulli handicappati in possesso dei requisiti richiesti, ed a coloro i quali ne hanno la custodia, di un aiuto adeguato alle condizioni del fanciullo ed alla situazione dei suoi genitori o di coloro ai quali egli è affidato.
3. In considerazione delle particolari esigenze dei minori handicappati, l’aiuto fornito in conformità con il paragrafo 2 del presente articolo è gratuito ogni qualvolta ciò sia possibile, tenendo conto delle risorse finanziarie dei loro genitori o di coloro ai quali il minore è affidato. Tale aiuto è concepito in modo tale che i minori handicappati abbiano effettivamente accesso alla educazione, alla formazione, alle cure sanitarie, alla riabilitazione, alla preparazione al lavoro ed alle attività ricreative e possano beneficiare di questi servizi in maniera atta a concretizzare la più completa integrazione sociale ed il loro sviluppo personale, anche nell’ambito culturale e spirituale.
4. In uno spirito di cooperazione internazionale, gli Stati parti favoriscono lo scambio di informazioni pertinenti nel settore delle cure sanitarie preventive e del trattamento medico, psicologico e funzionale dei minori handicappati, anche mediante la divulgazione di informazioni concernenti i metodi di riabilitazione ed i servizi di formazione professionale, nonché l’accesso a tali dati, in vista di consentire agli Stati parti di migliorare le proprie capacità e competenze e di allargare la loro esperienza in tali settori. A tal riguardo, si terrà conto in particolare delle necessità dei paesi in via di sviluppo.

ARTICOLO 24
1. Gli Stati parti riconoscono il diritto del minore di godere del miglior stato di salute possibile e di beneficiare di servizi medici e di riabilitazione. Essi si sforzano di garantire che nessun minore sia privato dei diritto di avere accesso a tali servizi.
2. Gli Stati parti si sforzano di garantire l’attuazione integrale del summenzionato diritto ed in particolare, adottano ogni adeguato provvedimento per:
a) diminuire la mortalità tra i bambini lattanti ed i fanciulli;
b) assicurare a tutti i minori l’assistenza medica e le cure sanitarie necessarie, con particolare attenzione per lo sviluppo delle cure sanitarie primarie;
c) lottare contro la malattia e la malnutrizione, anche nell’ambito delle cure sanitarie primarie, in particolare mediante l’utilizzazione di tecniche agevolmente disponibili e la fornitura di alimenti nutritivi e di acqua potabile, tenendo conto dei pericoli e dei rischi di inquinamento dell’ambiente naturale;
d) garantire alle madri adeguate cure prenatali e postnatali
e) fare in modo che tutti i gruppi della società in particolare i genitori ed i minori, ricevano informazioni sulla salute e sulla nutrizione del minore, sui vantaggi dell’allattamento al seno, sull’igiene e sulla salubrità dell’ambiente e sulla prevenzione degli incidenti e beneficino di un aiuto che consenta loro di mettere in pratica tali informazioni;
f) sviluppare le cure sanitarie preventive, i consigli ai genitori e l’educazione ed i servizi in materia di pianificazione familiare.
3. Gli Stati parti adottano ogni misura efficace atta ad abolire le pratiche tradizionali pregiudizievoli per la salute dei minori.
4. Gli Stati parti si impegnano a favorire ed a incoraggiare la cooperazione internazionale in vista di una graduale e completa attuazione del diritto riconosciuto nel presente articolo. A tal fine saranno tenute in particolare considerazione le necessità dei paesi in via di sviluppo.

ARTICOLO 25
Gli Stati parti riconoscono al fanciullo che è stato collocato dalla autorità competente al fine di ricevere cure, una protezione oppure una terapia fisica o mentale, il diritto ad una verifica periodica di detta terapia e di ogni altra circostanza relativa alla sua collocazione.

ARTICOLO 26
1. Gli Stati parti riconoscono ad ogni fanciullo il diritto di beneficiare della sicurezza sociale, compresa la previdenza sociale, ed adottano le misure necessarie per garantire una completa attuazione di questo diritto in conformità con la loro legislazione nazionale.
2. Le prestazioni, se necessarie, dovranno essere concesse in considerazione delle risorse e della situazione dei minore e delle persone responsabili del suo mantenimento e tenendo conto di ogni altra considerazione relativa ad una domanda di prestazione effettuata dal fanciullo o per suo conto.

ARTICOLO 27
1. Gli Stati parti riconoscono il diritto di ogni fanciullo ad un livello di vita sufficiente per consentire il suo sviluppo fisico, mentale, spirituale, morale e sociale.
2. Spetta ai genitori o ad altre persone che hanno l’affidamento del fanciullo la responsabilità fondamentale di assicurare, entro i limiti delle loro possibilità e dei loro mezzi fininziari, le condizioni di vita necessarie allo sviluppo del fanciullo.
3. Gli Stati parti adottano adeguati provvedimenti, in considerazione delle condizioni nazionali e compatibilmente con i loro mezzi, per aiutare i genitori ed altre persone aventi la custodia del fanciullo di attuare questo diritto ed offrono, se del caso, una assistenza materiale e programmi di sostegno, in particolare per quanto riguarda l’alimentazione, il vestiario e l’alloggio.
4. Gli Stati parti adottano ogni adeguato provvedimento al fine di provvedere al ricupero della pensione alimentare del fanciullo presso i suoi genitori o altre persone aventi una responsabilità finanziaria nei suoi confronti, sul loro territorio o all’estero. In particolare, per tener conto dei casi in cui la persona che ha una responsabilità finanziaria nei confronti dei fanciullo vive in uno Stato diverso da quello del fanciullo, gli Stati parti favoriscono l’adesione ad accordi internazionali oppure la conclusione di tali accordi, nonché l’adozione di ogni altra intesa appropriata.

ARTICOLO 28
1. Gli Stati parti riconoscono il diritto del fanciullo all’educazione, ed in particolare, al fine di garantire l’esercizio di tale diritto gradualmente ed in base all’uguaglianza delle possibilità:
a) rendono l’insegnamento primario obbligatorio e gratuito per tutti;
b) incoraggiano l’organizzazione di varie forme di insegnamento secondario sia generale sia professionale, che saranno aperte ed accessibili ad ogni fanciullo e adottano misure adeguate come la gratuità dell’insegnamento e l’offerta di una sovvenzione finanziaria in caso di necessità;
c) garantiscono a tutti l’accesso all’insegnamento superiore con ogni mezzo appropriato, in funzione delle capacità di ognuno;
d) fanno in modo che l’informazione e l’orientamento scolastico e professionale siano aperti ed accessibili ad ogni fanciullo;
e) adottano misure per promuovere la regolarità della frequenza scolastica e la riduzione del tasso di abbandono della scuola.
2. Gli Stati parti adottano ogni adeguato provvedimento per vigilare affinché la disciplina scolastica sia applicata in maniera compatibile con la dignità del fanciullo in quanto essere umano ed in conformità con la presente Convenzione.
3. Gli Stati parti favoriscono ed incoraggiano la cooperazione internazionale nel settore dell’educazione, in vista soprattutto di contribuire ad eliminare l’ignoranza e l’analfabetismo nel mondo e facilitare l’accesso alle conoscenze scientifiche e tecniche ed ai metodi di insegnamento moderni. A tal fine, si tiene conto in particolare delle necessità dei paesi in via di sviluppo.

ARTICOLO 29
1. Gli Stati parti convengono che l’educazione dei fanciullo deve avere come finalità:
a) di favorire lo sviluppo della personalità del fanciullo nonché lo sviluppo delle sue facoltà e delle sue attitudini mentali e fisiche in tutta la loro potenzialità; di inculcare al fanciullo il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e dei principi consacrati nella Carta delle Nazioni Unite;
b) di inculcare al fanciullo il rispetto dei suoi genitori, della sua identità, della sua lingua e dei suoi valori culturali, nonché il rispetto dei valori nazionali dei paese nel quale vive, del paese di cui può essere originario e delle civiltà diverse dalla sua;
c) preparare il fanciullo ad assumere le responsabilità della vita in una società libera, in uno spirito di comprensione, di pace, di tolleranza, di uguaglianza tra i sessi e di amicizia tra tutti i popoli e gruppi etnici, nazionali e religiosi, con le persone di origine autoctona;
d) di inculcare al fanciullo il rispetto dell’ambiente naturale.
2. Nessuna disposizione del presente articolo o dell’art. 28 sarà interpretata in maniera da nuocere alla libertà delle persone fisiche o morali di creare e di dirigere istituzioni didattiche a condizione che i principi enunciati al paragrafo 1 del presente articolo siano rispettati e che l’educazione impartita in tali istituzioni sia conforme alle norme minime prescritte dallo Stato.

ARTICOLO 30
Negli Stati in cui esistono minoranze etniche, religiose o linguistiche oppure persone di origine autoctona, un fanciullo autoctono o che appartiene a una di tali minoranze non può essere privato del diritto di avere una propria vita culturale, di professare e di praticare la propria religione o di far uso della propria lingua insieme agli altri membri del suo gruppo.

ARTICOLO 31
1. Gli Stati parti riconoscono al fanciullo il diritto al riposo ed al tempo libero, di dedicarsi al gioco e ad attività ricreative proprie della sua età e di partecipare liberamente alla vita culturale ed artistica.
2. Gli Stati parti rispettano e favoriscono il diritto dei fanciullo di partecipare pienamente alla vita culturale ed artistica ed incoraggiano l’organizzazione, in condizioni di uguaglianza, di mezzi appropriati di divertimento e di attività ricreative, artistiche e culturali.

ARTICOLO 33
Gli Stati parti adottano ogni adeguata misura, comprese misure legislative, amministrative, sociali ed educative per proteggere i fanciulli contro l’uso illecito di stupefacenti e di sostanze psicotrope, così come definite dalle Convenzioni internazionali pertinenti e per impedire che siano utilizzati fanciulli per la produzione e il traffico illecito di queste sostanze.

ARTICOLO 34
Gli Stati parti si impegnano a proteggere il fanciullo contro ogni forma di sfruttamento sessuale e di violenza sessuale. A tal fine, gli Stati adottano in particolare ogni adeguata misura a livello nazionale, bilaterate e multilaterale per impedire:
a) che dei fanciulli siano incitati o costretti a dedicarsi ad una attività sessuale illegale;
b) che dei fanciulli siano sfruttati a fini di prostituzione o di altre pratiche illegali;
c) che dei fanciulli siano sfruttati ai fini della produzione di spettacoli o di materiale a carattere pornografico.

ARTICOLO 35
Gli Stati parti adottano ogni adeguato provvedimento a livello nazionale, bilaterale e multilaterale per impedire il rapimento, la vendita o la tratta di fanciulli per qualunque fine e sotto qualsiasi forma.

ARTICOLO 36
Gli Stati parti proteggono il fanciullo contro ogni altra forma di sfruttamento pregiudizievole al suo benessere in ogni suo aspetto.

ARTICOLO 37
Gli Stati parti vigilano affinché:
a) nessun fanciullo sia sottoposto a tortura o a pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti. Né la pena capitale né l’imprigionamento a vita senza possibilità di rilascio devono essere decretati per reati commessi da persone di età inferiore a diciotto anni;
b) nessun fanciullo sia privato di libertà in maniera illegale o arbitraria. L’arresto, la detenzione o l’imprigionamento di un fanciullo devono essere effettuati in conformità con la legge, costituire un provvedimento di ultima risorsa ed avere la durata più breve possibile;
c) ogni fanciullo privato di libertà sia trattato con umanità e con il rispetto dovuto alla dignità della persona umana ed in maniera da tener conto delle esigenze delle persone della sua età. In particolare, ogni fanciullo privato di libertà sarà separato dagli adulti, a meno che si ritenga preferibile di non farlo nell’interesse preminente del fanciullo, ed egli avrà diritto di rimanere in contatto con la sua famiglia per mezzo di corrispondenza e di visite, tranne che in circostanze eccezionali; d) i fanciulli privati di libertà abbiano diritto ad avere rapidamente accesso ad un’assistenza giuridica o ad ogni altra assistenza adeguata, nonché il diritto di contestare la legittimità della loro privazione di libertà dinnanzi un Tribunale o alta autorità competente, indipendente ed imparziale, ed una decisione sollecita sia adottata in materia.

ARTICOLO 38
1. Gli Stati parti si impegnano a rispettare ed a far rispettare le regole del diritto umanitario internazionale loro applicabili in caso di conflitto armato, e la cui protezione si estende ai fanciulli.
2. Gli Stati parti adottano ogni misura possibile a livello pratico per vigilare che le persone che non hanno raggiunto l’età di quindici anni non partecipino direttamente alle ostilità.
3. Gli Stati parti si astengono dall’arruolare nelle loro forze armate ogni persona che non ha raggiunto l’età di quindici anni. Nell’incorporare persone aventi più di quindici anni ma meno di diciotto anni, gli Stati parti si sforzano di arruolare con precedenza i più anziani.
4. In conformità con l’obbligo che spetta loro in virtù dei diritto umanitario internazionale di proteggere la popolazione civile in caso di conflitto armato, gli Stati parti adottano ogni misura possibile a livello pratico affinché i fanciulli coinvolti in un conflitto armato possano beneficiare di cure e di protezione.

ARTICOLO 39
Gli Stati parti adottano ogni adeguato provvedimento per agevolare il riadattamento fisico e psicologico ed il reinserimento sociale di ogni fanciullo vittima di qualsivoglia forma di negligenza, di sfruttamento o di maltrattamenti; di torture o di ogni altra forma di pene o di trattamenti crudeli, inumani o elegradanti, o di un conflitto armato. Tale riadattamento e tale reinserimento devono svolgersi in condizioni tali da favorire la salute, il rispetto della propria persona e la dignità del fanciullo.

ARTICOLO 40
1. Gli Stati parti riconoscono ad ogni fanciullo sospettato accusato o riconosciuto colpevole di reato penale il diritto ad un trattamento tale da favorire il suo senso della dignità e del valore personale, che rafforzi il suo rispetto per i diritti dell’uomo e le libertà fondamentali e che tenga conto della sua età nonché della necessità di facilitare il suo reinserimento nella società e di fargli svolgere un ruolo costruttivo in seno a quest’ultima.
2. A tal fine, e tenendo conto delle disposizioni pertinenti degli strumenti internazionali, gli Stati parti vigilano in particolare:
a) affinché nessun fanciullo sia sospettato, accusato o riconosciuto colpevole di reato penale a causa di azioni o di omissioni che non erano vietate dalla legislazione nazionale o internazionale nel momento in cui furono commesse;
b) affinché ogni fanciullo sospettato o accusato di reato penale abbia almeno diritto alle seguenti garanzie:
I) di essere ritenuto innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente stabilita;
II) di essere informato il prima possibile e direttamente, oppure, se del caso, tramite i suoi genitori o rappresentanti legali, delle accuse portate contro di lui, e di beneficiare di un’assistenza legale o di ogni altra assistenza appropriata per la preparazione e la presentazione della sua difesa;
III) che il suo caso sia giudicato senza indugio da un’autorità o istanza giudiziaria competenti, indipendenti ed imparziali per mezzo di un procedimento equo ai sensi di legge in presenza del suo legale o di altra assistenza appropriata, nonché in presenza dei suoi genitori o rappresentanti legali a meno che ciò non ritenuto contrario all’interesse preminente del fanciullo a causa in particolare della sua età o della sua situazione;
IV) di non essere costretto a rendere testimonianza o dichiararsi colpevole; di interrogare o far interrogare i testimoni a carico e di ottenere la comparsa e l’interrogatorio dei testimoni a suo discarico a condizioni di parità;
V) qualora venga riconosciuto che ha commesso reato penale, di poter riccorrere contro questa decisione ed ogni altra misura decisa di conseguenza dinnanzi una autorità o istanza giudiziaria superiore competente, indipendente ed imparziale, in conformità con la legge;
VI) di farsi assistere gratuitamente da un interprete se non comprende o non parla la lingua utilizzata;
VII) che la sua vita privata sia pienamente rispettata in tutte le fasi della procedura.
3. Gli Stati parti si sforzano di promuovere l’adozione di leggi, di procedure, la costituzione di autorità e di istituzioni destinate specificamente ai fanciulli sospettati, accusati o riconosciuti colpevoli di aver commesso reato, ed in particolar modo:
a) di stabilire un’età minima al di sotto della quale si presume che i fanciulli non abbiano la capacità di commettere reato;
b) di adottare provvedimenti ogni qualvolta ciò sia possibile ed auspicabile per trattare questi fanciulli senza ricorrere a procedure giudiziarie rimanendo tuttavia inteso che i diritti dell’uomo e le garanzie legali debbono essere integralmente rispettate.
4. Sarà prevista tutta una gamma di disposizioni concernenti in particolar modo le cure, l’orientamento, la supervisione, i consigli, la libertà condizionata, il collocamento in famiglia, i programmi di formazione generale e professionale, nonché soluzioni alternative all’assistenza istituzionale, in vista di assicurare ai fanciulli un trattamento conforme al loro benessere e proporzionato sia alla loro situazione sia al reato.

ARTICOLO 41
Nessuna delle disposizioni della presente Convenzione pregiudica disposizioni più propizie all’attuazione dei diritti del fanciullo che possono figurare:
a) nella legislazione di uno Stato parte; oppure
b) nel diritto internazionale in vigore per questo Stato.

PARTE SECONDA

ARTICOLO 42
Gli Stati parti si impegnano a far largamente conoscere i principi e le disposizioni della presente Convenzione, con mezzi attivi ed adeguati sia agli adulti sia ai fanciulli.

ARTICOLO 43
1. Al fine di esaminare i progressi compiuti dagli Stati parti nell’esecuzione degli obblighi da essi contratti in base alla presente Convenzione, è istituito un Comitato dei Diritti del Fanciullo che adempie alle funzioni definite in appresso.
2. Il Comitato si compone di dieci esperti di alta moralità ed in possesso di una competenza riconosciuta nel settore oggetto della presente Convenzione. Isuoi membri sono eletti dagli Stati parti tra i loro cittadini e partecipano a titolo personale, secondo il criterio di un’equa ripartizione geografica ed in considerazione dei principali ordinamenti giuridici.
3. I membri del Comitato sono eletti a scrutinio segreto su una lista di persone designate dagli Stati parti. Ciascun Stato parte può designare un candidato tra i suoi cittadini.
4. La prima elezione avrà luogo entro sei mesi a decorrere dalla data di entrata in vigore della presente Convenzione. Successivamente, si svolgeranno elezioni ogni due anni. Almeno quattro mesi prima della data di ogni elezione, il Segretario Generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite inviterà per iscritto gli Stati parti a proporre i loro candidati entro un termine di due mesi. Quindi il Segretario Generale stabilirà l’elenco alfabetico dei candidati in tal modo designati, con l’indicazione degli Stati parti che li hanno designati, e sottoporrà tale elenco agli Stati parti alla presente Convenzione.
5. Le elezioni avranno luogo in occasione delle riunioni degli Stati parti, convocate dal Segretario Generale presso la Sede dell’Organizzazione delle Nazioni Unite. In queste riunioni per le quali il numero legale sarà rappresentato da due terzi degli Stati parti, i candidati eletti al Comitato sono quelli che ottengono il maggior numero di voti, nonché la maggioranza assoluta degli Stati parti presenti e votanti.
6. I membri dei Comitato sono eletti per quattro anni. Essi sono rieleggibili se la loro candidatura è ripresentata. Il mandato di cinque dei membri eletti nella prima elezione scade alla fine di un periodo di due anni; i nomi di tali cinque membri saranno estratti a sorte dal presidente della riunione immediatamente dopo la prima elezione.
7. In caso di decesso o di dimissioni di un membro del Comitato oppure se, per qualsiasi altro motivo, un membro dichiara di non poter più esercitare le sue funzioni in seno al Comitato, lo Stato parte che aveva presentato la sua candidatura nomina un altro esperto tra i suoi cittadini per coprire il seggio resosi vacante, fino alla scadenza del mandato corrispondente, sotto riserva dell’approvazione del Comitato.
8. Il Comitato adotta il suo regolamento interno.
9. Il Comitato elegge il suo Ufficio per un periodo di due anni.
10. Le riunioni del Comitato si svolgono normalmente presso la Sede della Organizzazione delle Nazioni Unite, oppure in ogni altro luogo appropriato determinato dal Comitato. Il Comitato si riunisce di regola ogni anno. La durata delle sue sessioni è determinata e se necessario modificata da una riunione degli Stati parti alla presente Convenzione, sotto riserva dell’approvazione dell’Assemblea Generale.
11. Il Segretario Generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite mette a disposizione del Comitato il personale e le strutture di cui quest’ultimo necessita per adempiere con efficacia alle sue mansioni in base alla presente Convenzione.
12. I membri del Comitato istituito in base alla presente Convenzione ricevono con l’approvazione dell’Assembica Generale emolumenti prelevati sulle risorse dell’Organizzazione delle Nazioni Unite alle condizioni e secondo le modalità stabilite dall’Assemblea Generale.

ARTICOLO 44
1. Gli Stati parti si impegnano a sottoporre al Comitato, tramite il Segretario Generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, rapporti sui provvedimenti che essi avranno adottato per dare effetto ai diritti riconosciuto nella presente Convenzione e sui progressi realizzati per il godimento di tali diritti:
a) entro due anni a decorrere dalla data dell’entrata in vigore della presente Convenzione per gli Stati parti interessati;
b) in seguito, ogni cinque anni.
2. I rapporti compilati in applicazione del presente articolo debbono se del caso indicare i fattori e le difficoltà che impediscono agli Stati parti di adempiere agli obblichi previsti nella presente Convenzione. Essi debbono altresì contenere informazioni sufficienti a fornire al Comitato una comprensione dettagliata dell’applicazione della Convenzione nel paese in esame.
3. Gli Stati parti che hanno presentato al Comitato un rapporto iniziale completo non sono tenuti a ripetere nei rapporti che sottoporranno successivamente – in conformità con il capoverso b) del paragrafo 1 del presente articolo – le informazioni di base in precedenza fornite.
4. Il Comitato può chiedere agli Stati parti ogni informazione complementare relativa all’applicazione della Convenzione.
5. Il Comitato sottopone ogni due anni all’Assemblea generale, tramite il Consiglio Economico e Sociale, un rapporto sulle attività del Comitato.
6. Gli Stati parti fanno in modo affinché i loro rapporti abbiano una vasta diffusione nei loro paesi.

ARTICOLO 45
Al fine di promuovere l’attuazione effettiva della Convenzione ed incoraggiare la cooperazione internazionale nel settore oggetto della Convenzione:
a) le Istituzioni Specializzate, il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia ed altri organi delle Nazioni Unite hanno diritto di farsi rappresentare nell’esame dell’attuazione di quelle disposizioni della presente Convenzione che rientrano nell’ambito del loro mandato. Il Comitato può invitare le Istituzioni Specializzate, il Fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia ed ogni altro organismo competente che riterrà appropriato, a dare pareri specializzati sull’attuazione della Convenzione in settori di competenza dei loro rispettivi mandati. il Comitato può invitare le Istituzioni Specializzate, il Fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia ed altri organi delle Nazioni Unite a sottoporgli rapporti sull’attuazione della Convenzione in settori che rientrano nell’ambito delle loro attività;
b) il Comitato trasmette, se lo ritiene necessario, alle Istituzioni Specializzate, al Fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia ed agli altri organismi competenti ogni rapporto degli Stati parti contenente una richiesta di consigli tecnici o di assistenza tecnica, o che indichi una necessità in tal senso, accompagnato da eventuali osservazioni e proposte dei Comitato concernenti tale richiesta o indicazione;
c) il Comitato può raccomandare all’Assemblea Generale di chiedere al Segretario Generale di procedere, per conto dei Comitato, a studi su questioni specifiche attinenti ai diritti del fanciullo;
d) il Comitato può fare suggerimenti e raccomandazioni generali in base alle informazioni ricevute in applicazione degli artt. 44 e 45 della presente Convenzione. Questi suggerimenti e raccomandazioni generali sono trasmessi ad ogni Stato parte interessato e sottoposti all’Assemblea Generale insieme ad eventuali osservazioni degli Stati parti.

PARTE TERZA

ARTICOLO 46
La presente Convenzione è aperta alla firma di tutti gli Stati.

ARTICOLO 47
La presente Convenzione è soggetta a ratifica. Gli strumenti di ratifica saranno depositati presso il Segretario Generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite.

ARTICOLO 48
La presente Convenzione rimarrà aperta all’adesione di ogni Stato. Gli strumenti di adesione saranno depositati presso il Segretario Generale della Organizzazione delle Nazioni Unite.

ARTICOLO 49
1. La presente Convenzione entrerà in vigore il trentesimo giorno successivo alla data del deposito presso il Segretario Generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite del ventesimo strumento di ratifica o di adesione.
2. Per ciascuno degli Stati che ratificheranno la presente Convenzione o che vi aderiranno dopo il deposito del ventesimo strumento di ratifica o di adesione la Convenzione entrerà in vigore il trentesimo giorno successivo al deposito da parte di questo Stato del suo strumento di ratifica o di adesione.

ARTICOLO 50
1. Ogni Stato parte può proporre un emendamento e depositarne il testo presso il Segretario Generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite. Il Segretario Generale comunica quindi la proposta di emendamento agli Stati parti, con la richiesta di far sapere se siano favorevoli ad una Conferenza degli Stati parti al fine dell’esame delle proposte e della loro votazione. Se, entro quattro mesi a decorrere dalla data di questa comunicazione, almeno un terzo degli Stati parti si pronuncia a favore di tale Conferenza, il Segretario Generale convoca la Conferenza sotto gli auspici dell’Organizzazione delle Nazioni Unite. Ogni emendamento adottato da una maggioranza degli Stati parti presenti e votanti alla Conferenza è sottoposto per approvazione all’Assemblea Generale.
2. Ogni emendamento adottato in conformità con le disposizioni del paragrafo 1 dei presente articolo entra in vigore dopo essere stato approvato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ed accettato da una maggioranza di due terzi degli Stati parti.
3. Quando un emendamento entra in vigore esso ha valore obbligatorio per gli Stati parti che lo hanno accettato, gli altri Stati parti rimanendo vincolati dalle disposizioni della presente Convenzione e da tutti gli emendamenti precedenti da essi accettati.

ARTICOLO 51
1. Il Segretario Generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite riceverà e comunicherà a tutti gli Stati il testo delle riserve che saranno state formulate dagli Stati all’atto della ratifica o dell’adesione.
2. Non sono autorizzate riserve incompatibili con l’oggetto e le finalità della presente Convenzione.
3. Le riserve possono essere ritirate in ogni tempo per mezzo di notifica scritta indirizzate in tal senso al Segretario Generale delle Nazioni Unite il quale ne informerà quindi tutti gli Stati. Tale notifica avrà effetto alla data in cui è ricevuta dal Segretario Generale.

ARTICOLO 52
Ogni Stato parte può denunciare la presente Convenzione per mezzo di notifica scritta indirizzata al Segretario Generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite. La denuncia avrà effetto un anno dopo la data di ricezione della notifica da parte del Segretario Generale.

ARTICOLO 53
Il Segretario Generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite è designato come depositario della presente Convenzione.

ARTICOLO 54
L’originale della presente Convenzione i cui testi in lingua araba, cinese, francese, inglese, russa e spagnola fanno ugualmente fede, sarà depositata presso il Segretario Generale delle Nazioni Unite.

Approfondimenti

 

Assemblea generale delle Nazioni Unite

New York. Sede dell'Assemblea generale dell'ONU.

New York. Sede dell’Assemblea generale dell’ONU.

L’Assemblea generale delle Nazioni Unite è uno dei sei organi principali dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU); è composta da tutti gli stati membri, ciascuno dei quali dispone di un voto.

Statuto

Secondo lo statuto, chiamato anche Carta dell’ONU, l’Assemblea generale può discutere qualsiasi problema o argomento sottoposto alla sua attenzione e può rivolgere raccomandazioni sia agli stati membri sia al Consiglio di sicurezza; non può farlo invece quando si tratti di questioni già all’esame del Consiglio stesso (a meno che a proporle non sia proprio quest’ultimo). Uno degli aspetti più importanti e spesso di difficile comprensione dell’attività dell’Assemblea è rappresentato dal fatto che, secondo la Carta, le risoluzioni dell’Assemblea non hanno efficacia vincolante: la forza delle sue raccomandazioni rimane infatti circoscritta all’impatto prodotto sull’opinione pubblica mondiale.

Attività

L’Assemblea si riunisce ogni anno in sessione ordinaria, con inizio il terzo martedì di settembre e termine, di solito, a Natale. Dietro richiesta della maggioranza dei suoi membri, può anche riunirsi in sessioni straordinarie; in base alla risoluzione ‘United for Peace’ del novembre 1950, questo può avvenire anche su richiesta della maggioranza dei membri del Consiglio di sicurezza, qualora la decisione di quest’ultimo organo sia ostacolata dal veto di uno dei membri permanenti.

Le decisioni dell’Assemblea sono prese a maggioranza semplice; la maggioranza dei due terzi è richiesta solo per le raccomandazioni concernenti il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, l’elezione dei membri di uno qualsiasi degli altri cinque organi dell’ONU, l’ammissione, sospensione ed espulsione dei membri e le questioni di bilancio. Entrambe le maggioranze vengono conteggiate in base al numero dei paesi membri presenti e votanti.

L’Assemblea elegge un presidente e ventuno vicepresidenti per ciascuna sessione. Il programma di lavoro viene ripartito tra sette commissioni principali, di cui due si occupano di questioni di politica e sicurezza, mentre le altre trattano questioni economiche, finanziarie, amministrative, argomenti di natura sociale e umanitaria, questioni legali.

L’organizzazione del lavoro di ciascuna sessione è affidata al Comitato generale, composto dal presidente dell’assemblea, dai ventuno vicepresidenti e dai presidenti delle sette commissioni principali (eletti all’interno delle stesse). La commissione di verifica dei poteri, composta di nove membri, esamina le credenziali dei delegati. L’Assemblea è affiancata da due comitati permanenti e può istituire degli organi ad hoc. Essa ha competenza esclusiva per la determinazione del bilancio dell’ONU, al quale contribuiscono tutti i membri in base a una quota concordata.

Fonti: Encarta, Wikipedia

Intermezzo astronomico: la cometa Ison

Sì, una volta ve l’ho detto: sono appassionata di astronomia. Sebbene questa passione sia secondaria a quella per la letteratura e l’arte, è comunque forte. Sapete bene che il mio non è un blog scientifico, per cui solo ogni tanto pubblicherò qualche articolo a riguardo. È il caso di oggi. L’ultima cometa (vedi approfondimento in fondo all’articolo) che ricordo di aver visto è quella di Hale-Bopp.

halebopp

Cometa Hale-Bopp.

La ricordate? La doppia coda era uno spettacolo incredibile; adoravo il fatto che fosse sempre lì, “ferma”, e io potessi osservarla ogni sera. Ero soltanto una bambina – avevo dieci anni – ma ero già appassionata di astronomia. In queste settimane abbiamo l’opportunità di ammirare invece la cometa Ison, già definita “la cometa del secolo”.

Ison

La cometa ISON, chiamata anche C/2012 S1 (ISON), è una cometa radente e non periodica scoperta il 21 settembre 2012 dal bielorusso Vitali Nevski e dal russo Artyom Novichonok. La scoperta è stata effettuata utilizzando un telescopio riflettore di 0,4 m dell’International Scientific Optical Network vicino a Kislovodsk in Russia. La ISON dovrebbe essere la prima cometa ben visibile a occhio nudo dall’emisfero boreale sin dal 1997 quando la Hale-Bopp offrì un magnifico spettacolo nei cieli serali di inizio primavera. Nel primo scorcio del 2007 si rese visibile l’ancor più appariscente Cometa McNaught ma questo soprattutto per chi la osservò dall’emisfero sud della Terra.

Cometa Ison. Foto scattata dal telescopio spaziale Hubble.

Cometa Ison. Foto scattata dal telescopio spaziale Hubble.

Al momento della scoperta la cometa si trovava a circa 615 milioni di km di distanza dal Sole, ovvero poco oltre l’orbita gioviana.
La scoperta della cometa è stata effettuata dagli astronomi Vitali Nevski e Artyom Novichonok il 21 settembre 2012, entrambi lavorano all’International Scientific Optical Network in Russia. Dopo tre giorni durante i quali vengono misurate posizioni astrometriche per calcolare un’orbita preliminare, il 24 settembre 2012, dopo che nel frattempo sono state trovate immagini di prescoperta risalenti fino al dicembre 2011, viene annunciata ufficialmente la scoperta della cometa[2]. La scoperta che aveva già suscitato notevoli aspettative tra gli astronomi professionisti e gli astrofili fa il giro del mondo in poche ore. In seguito sono state scoperte immagini di prescoperta risalenti fino al 30 settembre 2011 [3].

Denominazione

La denominazione “C/2012 S1 (ISON)” deriva da: “C”, in quanto non periodica; “2012”, in quanto scoperta in tale anno; “S1”, in quanto prima cometa scoperta nella seconda metà del mese di settembre; “ISON”, in quanto scoperta nel corso del programma di ricerca International Scientific Optical Network. Il nome “Cometa ISON” con cui è comunemente indicata dalla stampa rischia di essere, pertanto, fonte di possibile confusione: se nel corso dello stesso programma di osservazione venisse scoperta una cometa dello stesso genere a fine febbraio 2015 essa verrebbe denominata C/2015 D1 (ISON).

Orbita

Nell’ottobre 2012 ISON si trovava fra l’orbita di Giove e l’orbita di Saturno. La cometa arriverà al perielio il 28 novembre 2013 ad una distanza di 0,012 UA dalla superficie solare. La sua orbita è iperbolica e molto inclinata rispetto al piano dell’eclittica, elementi che fanno ritenere altamente probabile che la cometa provenga dalla nube di Oort. Altri calcoli effettuati mostrano che la cometa passerà a circa 0,07 UA da Marte il 1º ottobre 2013 ed il 26 dicembre 2013 passerà a circa 0,4 UA, circa 60 milioni di km, dalla Terra. Cioè 160 volte la distanza Terra-Luna. Per confronto, la luminosissima cometa Hale-Bopp, passò a 197 milioni di km dalla Terra.

Visibilità

Al momento della scoperta ISON aveva una magnitudine apparente di 18,8. Questa cometa, al suo primo passaggio al perielio, passaggio particolarmente vicino al Sole, come le altre comete provenienti dalla Nube di Oort non ha finora mai subito stress gravitazionali né shock termici, questo fa sì che potrebbe creare una lunga coda luminosissima facendola diventare circa 100 volte più luminosa di Venere e probabilmente anche più luminosa della Luna. Con una magnitudine apparente negativa sarebbe facilmente visibile anche in pieno giorno ma essendo una cometa radente potrebbe disintegrarsi al momento del passaggio al perielio. Da metà novembre 2013 la cometa sarà visibile a occhio nudo a est, nelle ore che precedono l’alba. Si potrà ammirare fino a gennaio 2014.

Approfondimenti

Cometa

Cometa Corpo celeste di aspetto nebuloso, appartenente al sistema solare. Le comete descrivono in genere orbite ellittiche, spesso molto allungate, e sono caratterizzate da una o più “code” brillanti e fluorescenti, che si formano quando esse transitano in prossimità del Sole.

Composizione

Le comete sono composte principalmente da un nucleo circondato da una nube fluorescente, detta chioma (in greco, infatti, comētēs significa “chiomata”). Secondo il modello proposto intorno al 1950 dall’astronomo statunitense Fred L. Whipple e oggi confermato dalle più recenti osservazioni, il nucleo contiene praticamente tutta la massa della cometa ed è formato da una quantità di sostanze volatili, come acqua, ammoniaca e anidride carbonica, che gli conferiscono l’aspetto di “una palla di neve sporca”.

La maggior parte del gas che forma la chioma e la coda è invece composto da molecole frammentate, o radicali, degli elementi chimici più comuni nello spazio, quali idrogeno atomico, carbonio, azoto e ossigeno. I radicali, ad esempio CH, NH e OH, hanno origine dalla rottura delle molecole di metano (CH4), ammoniaca (NH3) e acqua (H2O), che si trovano sotto forma di ghiaccio o di composti più complessi nel nucleo della cometa. La teoria della “palla di neve sporca” è avvalorata dall’osservazione che molte delle comete conosciute percorrono orbite che deviano in modo significativo dal semplice moto newtoniano.

Ciò fornisce una chiara evidenza del fatto che i gas emessi producono un effetto a jet, deviando il nucleo dal suo cammino altrimenti prevedibile. Inoltre, le comete a corto periodo, osservate per più rivoluzioni, tendono a indebolirsi lentamente con il tempo, come ci si aspetterebbe da una struttura simile a quella proposta da Whipple. Infine, l’esistenza di gruppi di comete suggerisce che i nuclei cometari siano oggetti relativamente solidi.

La testa di una cometa, formata da nucleo e chioma, può raggiungere dimensioni considerevoli, confrontabili con quelle del pianeta Giove. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, il volume della parte solida non supera i pochi chilometri cubici.

 

Avvicinamento al sole

Quando una cometa si avvicina al Sole, il calore di quest’ultimo determina la sublimazione del ghiaccio, dando luogo alla formazione di una brillante coda, che a volte si estende per milioni di chilometri. La coda è in genere diretta dalla parte opposta rispetto al Sole, anche quando la cometa è in allontanamento da quest’ultimo: infatti le particelle che la costituiscono vengono respinte per effetto del vento solare, un tenue flusso di particelle emesso di continuo e a una velocità di 400 km/s dalla corona solare. Le code delle comete, composte da molecole ionizzate per effetto degli urti con le particelle provenienti dal Sole, sono spesso curve e composte da polveri “spazzate” dalla pressione della radiazione solare.

Quando una cometa si allontana dal Sole, il gas e la polvere vengono dispersi e la coda scompare gradualmente. La diversa lunghezza della coda e la scarsa distanza dal Sole e dalla Terra rendono più o meno visibili le comete; alcune di esse, caratterizzate da un’orbita relativamente piccola, hanno code così brevi da essere praticamente inosservabili senza l’ausilio di opportuni strumenti. Delle circa 1400 comete catalogate, meno della metà è visibile a occhio nudo e meno del 10% è molto brillante.

La cometa di Halley, che ha un periodo di circa 76 anni, è ricomparsa l'ultima volta nel 1986, anno a cui si riferisce questa foto. Le comete orbitano inosservate nel sistema solare fino a quando si avvicinano alla nostra stella abbastanza da risentire degli effetti del suo calore. Quest'ultimo scioglie parte dei ghiacci di cui sono costituite, generando la coda che ce le rende visibili.

La cometa di Halley, che ha un periodo di circa 76 anni, è ricomparsa l’ultima volta nel 1986, anno a cui si riferisce questa foto. Le comete orbitano inosservate nel sistema solare fino a quando si avvicinano alla nostra stella abbastanza da risentire degli effetti del suo calore. Quest’ultimo scioglie parte dei ghiacci di cui sono costituite, generando la coda che ce le rende visibili.

Fonti: Encarta, Wikipedia

Pillole di arte martinese #4 – Il Palazzo Ducale

Oh, eccoci qui con il quarto appuntamento della rubrica Pillole di arte martinese. Devo dire che l’argomento trattato oggi mi è particolarmente caro: il Palazzo Ducale. Durante tutto l’anno è consentito l’ingresso – gratuito – nelle sale affrescate da cui è possibile anche affacciarsi al lungo balcone in ferro battuto. Ci sono stata diverse volte eppure vi assicuro che ogni volta, osservando da vicino il ferro panciuto e le sue robuste volute e giunture nonché il panorama sull’intera piazza sottostante e i palazzi prospicienti, l’emozione è la stessa. C’è qualcosa di atavico in ogni cartiglio e voluta, nell’intera costruzione, qualcosa che fa respirare l’aria di un passato che non c’è più. Qualcosa di meraviglioso. Se vi trovate da queste parti non esitate a farci un salto, non ve ne pentirete. Nel frattempo parliamo del Palazzo Ducale dal punto di vista storico e artistico.

PS Spero non abbiate da ridire sulla qualità di alcune fotografie, giacché la maggior parte sono state scattate dal mio telefonino.

Palazzo Ducale

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Il Palazzo Ducale è l’immagine del potere di Petracone V Caracciolo sull’universitas civium di Martina Franca e svetta sul lato di ponente di Piazza Roma, un tempo Largo Castello. La costruzione ebbe inizio nella seconda metà del XVII secolo; l’edificazione ebbe luogo sul castello di Raimondello Del Balzo Orsini, principe di Taranto, costruito nel 1338. Il portone reca l’iscrizione: PETRACONUS V A FUNDAMENTIS EREXIT ANNO DNI MDCLXVIII.

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Il progetto era grandioso, imponente e costoso, tanto da essere costituito da trecento camere, cappelle, stalle, corte, teatro e foresteria. In un primo momento il palazzo fu considerato opera di Gian Lorenzo Bernini (vedi approfondimento in fondo all’articolo), ma recenti studi storici assegno la paternità al bergamasco Andrea Carducci. Carducci lavorò su un disegno approvato dal Bernini, avvalendosi dell’arte dei muratori locali, detta della polvere bianca. Il palazzo, così come era stato progettato, non fu completamente portato al termine dal duca, il quale pose fine ai lavori quando la spesa raggiunse la cifra di sessantamila ducati. L’ala meridionale e e le decorazioni pittoriche esistono grazie al duca Francesco III, come indicato da un cartiglio sul balcone: FRANCISCUS III EREXIT ANNO DNI 1773.

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La facciata barocca è divisa orizzontalmente da una balconata in ferro battuto a petto d’oca e verticalmente dalle lesene, decorata da zoccoli, cornici marcapiano, cornicioni, semi colonne d’ordine gigante ai lati del portale, mascheroni contro il malocchio sono tutti in pietra. L’ala settentrionale e la chiusura del cortile sono state realizzate negli anni Cinquanta del Novecento.
L’androne d’ingresso è coperto da una volta a botte scandita in sette lunette. Sulle pareti sono state collocate tre targhe di marmo in onore del pittore Domenico Carella, del Presidente della Corte Costituzione Giuseppe Chiarelli e di personalità illustri di Martina Franca come ad esempio Gioconda De Vito e Paolo Grassi.

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Negli appartamenti reali, sopra al piano ammezzato in cui dimorò il duca, si trovano dorate pareti rococò sagomate a orecchio, che introducono nella sale egregiamente affrescate da Domenico Carella (vedi approfondimento in fondo all’articolo) nel 1776: la Cappella dei Duchi, la Sala dell’Arcadia, la Sala del Mito e la Sala della Bibbia.

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Cappella dei Duchi

In questa cappella dominante è un maestoso altare in pietra policroma e dorata con alcuni riquadri a tempera e figura di santi e arabeschi sulle pareti laterali. Sulla base dell’altare è impresso lo stemma dei Caracciolo, lì la frastagliata decorazione del tempo fa bella mostra di sé.

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Sala dell’Arcadia

Nella Sala dell’Arcadia troviamo due scene di vita della corte ducale e la raffigurazione delle stagioni.
Nella scena della scuola di ballo, il duca Francesco III Caracciolo è in giardino. Con il tricorno in mano egli saluta gli ospiti fra i quali ci sono due musici girovaghi con flauto e corno; un cavaliere esegue un passo di danza con la duchessa Stefania Pignatelli; un buffo cinese chiacchiera con un’ancella; la duchessa Isabella D’Avalos accompagnata da un cane domina la scena.arcadiaNella scena della scuola di canto troviamo il poeta Gian Battista Lanucara con un libro; il precettore; il piccolo duca Petracone VII; due monelli che si affacciano da un muretto per curiosare; la duchessa con l’ancella; due violionisti.
Queste due scene rispecchiano un ideale illuministico piuttosto sentito all’epoca, ossia la realtà quotidiana calata e proiettata in una dimensione di pura teatralità in cui in questo caso il protagonista è il duca.

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La rappresentazione delle quattro stagioni, simbolo dell’importanza del lavoro umano nel fluire del tempo, mostra l’autunno con la brocca, la primavera, l’inverno che si riscalda e l’estate con le messi. Nei riquadri sopra le porte sono dipinte le arti: la musica, la pittura, la scienza e la poesia. Negli ovali, le virtù femminili sono rappresentate da una suonatrice d’arpa, una dama con pierrot, una filatrice, una coppia di casti amanti.
Sul soffitto troviamo l’Apoteosi di Ercole accolto da Apollo che gli da come sposa Ebe, che rappresenta l’immortalità del duca e il suo impegno profuso nell’assicurare benessere ai sudditi.

Sala del Mito

La Sala del Mito o Ovidiana o delle Metamorfosi rappresenta diverse variazioni tematiche da leggersi in chiave metaforica: la fuga di Enea rappresenta l’amore filiale; l’episodio di Apollo e Dafne vuole evidenziare il sottile fascino del momento della seduzione. Quest’ultima tematica la ritroviamo, in maniera più leggera, anche nelle altre scene presenti nella sala, ossia gli espisodi di Atlante ed Ippomene, Priamo e Tisbe, Nasso e Deianira, che vogliono indicare rispettivamente l’amore coniugale, la fedeltà, il tradimento. La scena di Ercole che libera Esione dal drago vuole suscitare riflessione sui doveri necessariamente da compiersi. Anche qui troviamo aspetti luministici, in special modo nel soffitto con il Carro del Sole e Narcisio alla Fonte.
Sopra le finestre, due cineserie: cinese che fuma l’oppio e cinese che brucia l’incenso.

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Sala della Bibbia

La Sala della Bibbia è stata dipinta dal Carella con episodi sacri; qui si ritrova una linearità pittorica ed espositiva davvero degna di pregio. Gli episodi principali sono: le Storie di Tobiolo, simboli della pietas filiale; Mosè salvato dalle acque, simbolo di carità e dovere; Davide e Abigail, simbolo della prudenza femminile; Rebecca al pozzo, simbolo del senso cavalleresco; Salomé, simbolo della lussuria. Sul soffitto si possono ammirare scene ricche in angeli e torce e dardi infuocati, dove il Carella rende il colore cupo e profondo.

Che aspettate?

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Glossario

Cornice marcapiano: cornice che segna il livello dei vari piani.

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Esempio di cornice marcapiano.

Ordine gigante: termine dell’architettura. Si tratta di una disposizione particolare di colonne o pilastri, per cui questi si estendono, nella loro altezza, per più di un piano, o per diversi livelli di altezza in una facciata. Viene anche chiamato ordine colossale.

Esempio di colonne di ordine gigante nel Palazzo del Capitanio, Vicenza.

Esempio di colonne di ordine gigante nel Palazzo del Capitanio, Vicenza.

Mascherone: viso di fattezze deformi e grottesche, in uso specialmente nell’età rinascimentale e barocca come ornamento architettonico; nella credenza popolare si riteneva tenesse lontano il malocchio.

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Mascherone rappresentante il dio del vento.

Volta a botte: soffitto a superficie semicilindrica.

Volta a botte.

Volta a botte.

Lunetta: elemento architettonico di una muratura o parte di esso a forma di luna falcata, di mezzo tondo o di lente.

Volta a botte lunettata.

Volta a botte lunettata.

Rococò: stile settecentesco d’origine francese caratterizzato da mobili e oggetti di forma capricciosa e da elementi decorativi quali foglie, volute, conchiglie.

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Decorazione in stile rococò.

Fonte glossario: Encarta, Wikipedia

Approfondimenti

Gian Lorenzo Bernini

Autoritratto di Gian Lorenzo Bernini.

Autoritratto di Gian Lorenzo Bernini.

Gian Lorenzo Bernini (Napoli 1598 – Roma 1680), architetto, scultore, pittore, scenografo e autore di teatro, fu la personalità artistica dominante del barocco italiano. Mise la sua eccezionale abilità tecnica al servizio di una grande fantasia e rinnovò la tipologia del ritratto e del busto marmoreo, della fontana e del monumento funebre.

L'arte del periodo barocco è caratterizzata dall'enfasi del movimento e da una esasperata drammaticità. Gian Lorenzo Bernini, considerato il massimo esponente del barocco in Italia, scelse di rappresentare la figura biblica del David (1623?, Galleria Borghese, Roma) nel momento di massima tensione fisica ed emotiva, mentre carica la fionda con cui uccise il gigante Golia.

L’arte del periodo barocco è caratterizzata dall’enfasi del movimento e da una esasperata drammaticità. Gian Lorenzo Bernini, considerato il massimo esponente del barocco in Italia, scelse di rappresentare la figura biblica del David (1623?, Galleria Borghese, Roma) nel momento di massima tensione fisica ed emotiva, mentre carica la fionda con cui uccise il gigante Golia.

Domenico Carella

Domenico Antonio Carella (Francavilla Fontana, 1721 – Martina Franca, 1813) è stato un pittore italiano.
Il Carella si formò sulla cultura napoletanae il suo apprendistato presso Francesco Solimena e Pompeo Batoni, più tardi si avvicinò ai modi pittorici di Corrado Giaquinto e Luca Giordano.Nel 1746 si sposò con Maria Dell’Abbate a Francavilla.
L’artista operò molto a Martina Franca intorno al 1770 dove venne sancita la sua fama, lavorando per gli affreschi del Palazzo Ducale del duca Francesco III Caracciolo in tre sale: dell’Arcadia, del Mito e della Bibbia. Fra gli artisti più stimati e prolifici della Puglia del settecento operò anche a Alberobello, Massafra, Ceglie Messapica, Erchie, Taranto, Francavilla Fontana, Monopoli, Conversano, Ferrandina, Calvera, Palagiano e Rutigliano.

4° tappa Halloween Witch Tour – Stryx di Connie Furnari

Cari followers, eccomi qui oggi con un evento particolare ossia la quarta tappa di un blog tour dedicato a un libro da leggere in questo periodo: Stryx – Il marchio della strega di Connie Furnari che ho recensito qui.

Stryx Witch Tour banner

In questa tappa parleremo di come contattare gli spiriti tramite la tavola Ouija e riconoscerli. Premesso che sono una persona molto razionale – anzi, piuttosto fissata con la scienza – devo dire che comunque i fantasmi mi affascinano da sempre, forse perché li considero non solo il frutto di paure o leggende ma entità di una dimensione diversa dalla nostra. Detto ciò debbo però ammettere di non essere molto coraggiosa in questo senso – come invece lo sarei facendo paracadutismo – e non mi sognerei mai di provare a evocare qualche spirito. Ad ogni modo, vediamo come funziona la tavola Ouija e se qualcuno di voi l’ha già utilizzata, è invitato a condividere la propria esperienza.

Evocare i fantasmi con la tavola Ouija

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Esempio di tavola Ouija.

La tavola Ouija è uno strumento che viene usato per mettersi in contatto con i defunti. È una tavola sulla quale sono disegnate lettere, numeri e parole; una tavoletta triangolare sostenuta da due rotelle dovrebbe muoversi da sola sulla tavola, formando un messaggio, quando le dita di una persona sono leggermente poggiate.

I sostenitori del paranormale utilizzano la tavola Ouija come strumento di canalizzazione e sono sicuri che i messaggi che ricevono dagli spiriti siano veri.

Le regole guida per chi intende usare la tavola Ouija sono:

  1. Non usare mai la tavola Ouija da soli, o in un posto in cui si crede che gli spiriti si possano riunire, come cimiteri, luoghi infestati e posti in cui si sono consumate tragedie.
  2. Per proteggersi, visualizzare attorno al proprio corpo una luce bianca.
  3. Trattare sempre gli spiriti evocati con cortesia e rispetto.
  4. Non permettere agli spiriti di contare i numeri o l’alfabeto in senso decrescente, se completano la sequenza riusciranno a sfuggire dalla tavola.
  5. Se la placchetta triangolare indica ripetutamente il numero 8, vuol dire che è controllata da uno spirito malvagio.
  6. Il solo modo per proteggersi, nel caso uno spirito malvagio dovesse infestare la tavola, è usare la placchetta capovolta.
  7. Non cercare di distruggere una tavola Ouija bruciandola: si dice che essa urlerà e chiunque senta quel grido morirà entro 36 ore…
  8. Non esporre mai domande riguardo a Dio.
  9. Non chiedere mai in quale giorno o in che modo si morirà.

 

Esempio di tavola Ouija.

Esempio di tavola Ouija.

Ci sono varie testimonianze di persone che affermano di aver ricevuto dalla tavola Ouija delle informazioni che poi si sono rivelate vere. Ma è possibile che in alcuni casi il messaggio comunicato derivi dagli impercettibili movimenti delle dita, influenzati dal subconscio delle persone che la utilizzano.

La tavola Ouija venne inventata nel 1890 da E. C. Reiche, Elijah Bond e Charles Kennard. Il progetto fu migliorato in seguito da William Fuld che la chiamò “Ouija”, dalle parole francesi e tedesche per “sì”: “oui” e “ja”.

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Elijah Bond.

 

 

Elijah Bond's Patents & Trademarks Patented February 10th 1891

Riconoscere uno spettro dalla sua aura

L’energia del nostro spirito è collegata a un’energia universale, e si manifesta come un’aura di luce che assume diversi colori, a seconda dello stato d’animo e del benessere di una persona.

Un esercizio da provare è concentrarsi a occhi chiusi davanti a un muro completamente bianco e, quando si è raggiunto il completo rilassamento, osservare la propria ombra proiettata: con attenzione si potrà notare una lieve sfumatura di colore.

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Ecco i colori dell’aura:

BIANCO: limpidezza e protezione.

GRIGIO: tristezza, ristrettezza mentale.

MARRONE: attività fisica, ma anche conformismo alla società.

ROSSO: forza e vitalità, ma anche materialismo e collera.

ROSA: fedeltà, amore puro.

ARANCIONE: espansività, ottimismo, guarigione.

GIALLO: libertà mentale, idee, capacità di interagire con gli altri.

VERDE: gioia di vivere, consapevolezza di sé, ma anche egocentrismo.

AZZURRO: dinamismo ed energia.

BLU: energia positiva, creatività e tranquillità.

VIOLA: capacità psichiche, spiritualismo.

NERO: depressione, negatività, odio.

Estratto da Stryx – Il marchio della Strega

 

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Le due sorelle si fermarono davanti a una chiesa in stile europeo; la pietra grigia la faceva somigliare a un mausoleo e dalle finestre filtrava la traballante luce di poche candele.

Il portone era aperto ma non c’era nessuno dentro, neppure il parroco o qualche fedele insonne che pregava per i suoi peccati.

«Sei sicura che sia proprio questo il posto?» chiese Sarah con evidente incredulità, e si fermò all’inizio della navata, sotto la grande porta di legno spalancata.

Guardò alla sua destra e vide un capiente vaso di marmo, pieno d’acqua benedetta. Si esaminò la mano, poi con occhi spenti la poggiò sul pelo dell’acqua immergendo solo il palmo; l’acqua benedetta iniziò a bollire e del fumo bianco evaporò dalle sue dita.

«Non è il momento di giocare all’esorcista» la rimproverò Susan e avanzò lungo la navata. Raggiunse il centro esatto, volse il viso verso l’alto e urlò «Rivelati.»

Lui apparve, proprio davanti al pulpito, col suo cappotto nero sopra il completo gessato e la cravatta perfettamente annodata. Era affascinante e seducente.

In tutti quei secoli non era cambiato, il suo viso era uguale a quando, in quel pomeriggio di primavera del 1685, l’avevano visto nel bosco mentre raccoglievano la legna. Con il passare delle epoche aveva modificato abbigliamento per confondersi tra la gente, ma loro lo avrebbero riconosciuto anche tra mille persone vestite allo stesso modo.

L’odore che emanava era talmente pungente da far venire il voltastomaco. Un odore di perversità, distruzione e tenebra. I suoi occhi erano ancora due pozzi neri senza fondo, che inghiottivano chiunque lo fissasse più del dovuto.

«Sei qui per tenere sotto controllo la concorrenza?» Sarah rise, cercando di fare la spiritosa ma sapeva che lui la conosceva talmente bene da non abboccare.

Link utili

 

Il primo capitolo di Stryx è scaricabile gratuitamente sul sito dell’autrice, assieme a molti altri racconti urban fantasy: www.conniefurnari.blogspot.it

Il romanzo completo è disponibile:

Buon Halloween a tutti!

 

 

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Memorie di una Geisha – Arthur Golden

Cari followers, sulla scia dell’entusiasmo scatenato in me dalla lettura de L’ultima concubina – che ho recensito qui – mi sono lanciata nelle atmosfere di Memorie di una geisha.

Memorie di una Geisha

Arthur Golden

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Trama

Circondate da un’aura di mistero, le geishe hanno sempre esercitato sugli occidentali un’attrazione quasi irresistibile. Ma chi sono in realtà queste donne? A tutte le domande che queste figure leggendarie suscitano, Arthur Golden ha risposto con un romanzo, profondamente documentato, che conserva tutta l’immediatezza e l’emozione di una storia vera. Che cosa significa essere una geisha lo apprendiamo così dalla voce di Sayuri che ci racconta la sua storia: l’infanzia, il rapimento, l’addestramento, la disciplina – tutte le vicende che, sullo sfondo del Giappone del ‘900, l’hanno condotta a diventare la geisha più famosa e ricercata. Un romanzo avvincente e toccante, coronato da uno straordinario ritratto femminile e dalla sua voce indimenticabile.

L’autore

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Arthur Golden (Chattanooga, 1956) è uno scrittore statunitense. È l’autore del romanzo Memorie di una geisha.

Biografia

Golden fu istruito alla Scuola Baylor (una scuola privata coeducazionale per studenti sia giornalieri sia collegiali), un membro della famiglia Sulzberger, proprietari del New York Times. Frequentò l’Università di Harvard e si laureò in storia dell’arte, specializzandosi nell’arte giapponese. Nel 1980 ottenne un master di arte in storia giapponese alla Columbia University ed imparò anche il cinese mandarino. Dopo un’estate all’università di Pechino, lavorò a Tokyo. Quando tornò negli Stati Uniti, prese un M.A. in inglese all’università di Boston. Vive ora a Brookline (Massachusetts), con la moglie Trudy Legee che ha sposato nel 1982 e i suoi due figli.

L’esordio letterario

Memorie di una geisha è largamente e liberamente basato sulla vita di Mineko Iwasaki (vedi approfondimento in fondo all’articolo), anche se Golden si prese qualche libertà letteraria con la sua storia, perpetuando il mito comune che le geisha sono prostitute d’élite. Nella realtà le geisha sono simili ad artiste altamente allenate, come ballerine o cantanti d’opera. Non sono in nessun modo obbligate ad allacciare relazioni sessuali con i loro clienti. Secondo Golden però sono necessarie delle relazioni sessuali con un cliente per diventare una geisha di successo. Iwasaki, comunque, fu forse la miglior geisha della sua generazione e non si dedicò a nessuna forma di prostituzione.

La denuncia

Dopo che il romanzo fu pubblicato, Arthur Golden fu denunciato dalla geisha Mineko Iwasaki con la quale lavorava, per diffamazione e violazione di contratto. Secondo la querelante, l’accordo prevedeva che Golden avrebbe dovuto mantenere l’anonimato totale su Mineko Iwasaki; invece, il suo nome ed il suo contributo sono chiaramente citati nei ringraziamenti a fondo libro. Tale condizione contrattuale era dovuta all’esistenza di un tacito accordo nella comunità delle geishe sulla riservatezza e la sua violazione è considerata un’offesa seria. Oltretutto, Iwasaki afferma che il romanzo di Golden ritraeva le geishe come prostitute d’élite. Ad esempio, nel romanzo la verginità di Sayuri viene venduta al miglior offerente, un concetto che ha particolarmente offeso Iwasaki. Lei affermò che non solo questo non le era mai successo, ma che non esisteva assolutamente una tale pratica a Gion. Basando il suo personaggio, Sayuri, su Iwasaki e implicando che lei stessa era una prostituta, Iwasaki afferma che Golden ha violato il suo accordo e causato grande disonore ed onta a lei e al mondo delle geishe. Dopo che il suo nome fu stampato sul libro, Iwasaki ha ricevuto numerose minacce di morte e richieste di censura per aver disonorato la sua professione. Nel 2003, la Iwasaki e la casa editrice di Golden sono giunti a un accordo extragiudiziale per una somma di denaro il cui ammontare non è stato reso pubblico.

Fonte: Wikipedia

La mia recensione

Un libro che si distingue subito per la bellissima ambientazione, descritta con eleganza e particolari che riportano in vita la magia di un Giappone che non c’è più. A differenza del libro L’ultima concubina – inevitabile che faccia il confronto in questo contesto, ambientato nel periodo in cui il Giappone inizia ad aprirsi all’Occidente, Memorie di una Geisha racconta una storia che si svolge negli anni Quaranta del Novecento: dunque ci troviamo in un Giappone già in parte occidentalizzato in cui il contrasto tra la cultura autoctona e quella importata dagli stranieri è palese. L’autore riesce, attraverso la descrizione dei riti e degli insegnamenti riservati alla protagonista, ad analizzare la figura delle geishe da una prospettiva diversa: sono artiste che seguono rigide regole di comportamento e sopportano sofferenze fisiche e morali. Tra il segreto mondo femminile che conosciamo ne L’ultima concubina e quello che invece incontriamo in Memorie di una Geisha ci sono solo poche differenze: in realtà concubine e geishe soffrono e sperano alla stessa maniera e vivono in un ambiente fatto di uguali segreti e tradimenti poiché ogni donna è in competizione con chi la circonda. L’intermezzo della seconda guerra mondiale è trattato marginalmente – il che mi è dispiaciuto, ma ciò probabilmente perché la protagonista si rifugia in un luogo sperduto. L’allegra isteria che accompagna l’arrivo degli americani svelle le radici del mondo segreto delle donne, solleva il velo che lo ricopriva e lo espone al mondo ai cui occhi esso appare solo come un insieme di riti stravaganti; ogni cosa perde il valore che aveva un tempo. Ma una geisha non può affondare in preda a vane speranze e deve rimanere sempre in piedi, bella e capace di conquistare un uomo con un solo sguardo.

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Dopo la lettura del libro ho visto il film e devo dire che è stato uno dei più bei film che abbia mai visto; non per niente è stato vincitore di tre premi Oscar, per la fotografia, la scenografia e i costumi. Qualche piccola differenza rispetto al libro è normale, ad ogni modo si tratta a mio parere di una delle più riuscite trasposizioni cinematografiche di un romanzo. Visione consigliata.

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Approfondimenti

Mineko Iwasaki

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Mineko Iwasaki, all’anagrafe Masako Tanaka (Kyoto, 2 novembre 1949), è stata la più famosa geisha giapponese dei suoi tempi, fino al suo improvviso ritiro avvenuto all’età di 29 anni.
Il suo nome è diventato noto in occidente grazie al suo ruolo di informatrice del romanziere Arthur Golden per il suo Memorie di una geisha e per la controversia successivamente sorta tra i due.

Carriera come geisha

Mineko lasciò la sua casa natale a soli cinque anni per dedicarsi allo studio della danza giapponese tradizionale all’okiya (casa delle geishe) Iwasaki, nel quartiere Gion di Kyoto. Fu legalmente adottata dalla padrona dell’okiya, Madame Oima, e ne prese il cognome, Iwasaki, venendo inoltre scelta come erede della casa (atotori). All’età di quindici anni Iwasaki divenne maiko, ovvero apprendista geisha (o geiko, come vengono chiamate le geishe nel dialetto locale di Kyoto). A ventuno anni, dopo essersi fatta una reputazione come migliore danzatrice e maiko del Paese, divenne ufficialmente geisha.
Durante la sua carriera Iwasaki intrattenne numerose celebrità e esponenti politici di spicco, sia giapponesi che stranieri, come la Regina Elisabetta II e il Principe Carlo. La sua fama le procurò un vasto stuolo di ammiratori, ma anche invidie e pettegolezzi e addirittura un certo numero di aggressioni fisiche, di cui racconta ampiamente nel suo libro di memorie.
Iwasaki divenne progressivamente stanca del mondo rigidamente tradizionale delle geishe, specialmente a causa di quelle che lei vedeva come limitazioni nell’educazione, e si ritirò in giovane età, a soli 29 anni e all’apice della carriera. Iwasaki aveva sperato che questa mossa agisse come una provocazione, stimolando il mondo che ruotava attorno a Gion a scuotersi e ammodernarsi: tuttavia l’effetto più evidente causato dal suo ritiro fu il corrispondente ritiro di altre settanta geishe che desideravano emularla, tanto che nel suo libro Iwasaki si chiede se non sia anche lei stessa, involontariamente, una delle cause che hanno innescato il forte declino numerico delle geishe negli ultimi anni.
Attualmente è sposata, ha una figlia e vive nei sobborghi di Kyoto.

Mineko Iwasaki e Memorie di una geisha

Mineko Iwasaki fu una delle geishe che il romanziere Arthur Golden intervistò per il suo libro Memorie di una geisha. Secondo Iwasaki ella aveva acconsentito di fornire informazioni allo scrittore a patto che il suo coinvolgimento nel progetto rimanesse confidenziale. Tuttavia Golden rese pubblico il suo nome non solo citandolo apertamente nei ringraziamenti del suo libro, ma anche in varie interviste su giornali nazionali. Quando il romanzo fu pubblicato e riscosse un grande successo Iwasaki, si ritrovò al centro di pesanti critiche e ricevette addirittura minacce di morte per aver violato il codice di segretezza delle geishe.
Iwasaki si sentì tradita dall’uso fatto da Golden di informazioni da lei ritenute confidenziali così come dal modo in cui lo scrittore aveva rielaborato tali informazioni, e la donna dichiarò che Memorie di una geisha era un ritratto inaccurato della vera vita di una geiko. Iwasaki fu particolarmente offesa dal ritratto fornito dal libro, delle geishe come donne coinvolte in forme di prostituzione ritualizzata. Inoltre molti tratti della protagonista del romanzo sono evidentemente modellati sulla figura di Iwasaki, così come molti personaggi ed eventi risultano speculari alle loro controparti reali nella vita dell’ex-geisha, sebbene Golden abbia spesso attribuito valenze negative anche a quelle persone e avvenimenti che invece nella storia reale avevano connotazioni positive.
Iwasaki portò Golden in tribunale con l’accusa di violazione di contratto e diffamazione nel 2001. Nel 2003 un accordo stipulato privatamente tra Iwasaki e la casa editrice di Golden pose termine alla causa in cambio del versamento alla donna di una cifra di denaro non rivelata pubblicamente.

Geisha of Gion: la vera storia di Mineko Iwasaki

In seguito alla fortunata pubblicazione di Memorie di una geisha e alle meno felici vicende che ne seguirono, Iwasaki decise di scrivere lei stessa un proprio libro di memorie, in collaborazione con Rande Gail Brown.
Il libro è stato pubblicato come Geisha of Gion nel Regno Unito e come Geisha. A Life negli Stati Uniti, con un buon successo di pubblico, ed è stato in seguito pubblicato e tradotto in vari paesi. In Italia è stato pubblicato come Storia proibita di una Geisha. Una storia vera edito da Newton Compton Editori.

Fonte: Wikipedia

Anniversario della nascita di Oscar Wilde

Oggi 16 ottobre ricorre l’anniversario della nascita di Oscar Wilde, centocinquantanove anni fa.

Oscar Wilde

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Oscar Wilde (Dublino 1854 – Parigi 1900), scrittore irlandese, è stato uno dei maggiori esponenti del decadentismo (vedi approfondimento in fondo all’articolo).

La vita

Dopo gli studi classici al Trinity College di Dublino, Wilde frequentò l’università di Oxford, dove subì l’influsso della poetica di Walter Pater e John Ruskin. Spirito eccentrico e dandy di rara eleganza, cominciò a far parlare di sé negli ambienti mondani e fu preso di mira dalla rivista umoristica ‘Punch’, che ne mise in ridicolo vezzi e atteggiamenti. Per il suo acume e il fascino della sua conversazione brillante, ebbe tuttavia anche numerosi estimatori.

Alla pubblicazione del primo volume di poesie nel 1881, seguì un fortunato ciclo di conferenze negli Stati Uniti. Tornato in Inghilterra, Wilde si stabilì a Londra e nel 1884 sposò una facoltosa irlandese, dalla quale ebbe due figli. Nel 1895, all’apice della carriera, fu al centro di uno dei processi più chiacchierati del secolo, quello che lo vide imputato di sodomia, uno scandalo senza pari nell’Inghilterra vittoriana. Condannato a due anni di lavori forzati, ne uscì finanziariamente rovinato e psicologicamente provato. Trascorse gli ultimi anni della vita a Parigi sotto falso nome (Sebastian Melmoth) e, poco prima della morte, avvenuta per meningite, si convertì al cattolicesimo.

Dorian Gray

Alla prima fase produttiva di Wilde appartengono due volumi di fiabe scritte per i figli (Il principe felice, 1888; La casa dei melograni, 1891) e la raccolta di racconti Il delitto di lord Arthur Savile (1891). Il suo unico romanzo, Il ritratto di Dorian Gray (1891), è una storia melodrammatica di decadenza morale che si distingue per il brillante stile epigrammatico. Wilde non risparmia al lettore alcun particolare del declino del protagonista verso un abisso di corruzione, ma il finale rivela una presa di posizione dell’autore contro la degradazione dell’individuo; ciononostante, la critica lo accusò di immoralità.

Il teatro

Le opere teatrali più interessanti di Wilde sono le quattro commedie Il ventaglio di Lady Windermere (rappresentato per la prima volta nel 1892), Una donna senza importanza (1893), Un marito ideale (1895) e L’importanza di chiamarsi Ernesto (1895), tutte contraddistinte da un intreccio abilmente congegnato e dialoghi brillanti. Pur senza una solida preparazione drammaturgica alle spalle, Wilde dimostrò con queste opere un autentico talento naturale per la tecnica teatrale e una felice predisposizione alla farsa: le sue commedie sono un fuoco d’artificio di trovate e paradossi divenuti celebri. A queste si contrappone Salomé, dramma serio sul tema della passione ossessiva, originariamente scritto in francese, che, censurato in patria, fu rappresentato a Parigi nel 1896, con l’interpretazione della celebre attrice Sarah Bernhardt. Nel 1905 il compositore tedesco Richard Strauss ne trasse l’opera omonima.

Le ultime opere

Durante la prigionia, Wilde compose l’epistola De Profundis (pubblicata postuma nel 1905), amara confessione delle sue colpe passate. La ballata del carcere di Reading (1898) fu scritta dopo il rilascio e consegnata alle stampe in forma anonima. Considerata il suo capolavoro poetico, essa descrive con lingua magnificamente cadenzata la crudezza della vita dei reclusi e la loro disperazione. Per molti anni ancora dopo la morte, la figura di Oscar Wilde dovette portare il marchio infamante impostole dal puritanesimo vittoriano.

Curiosità

Oscar Wilde fu anche scrittore di fiabe per bambini, raccolte nei volumi Il principe felice e La casa dei melograni.

Cronologia opere

 

1878 Ravenna Poema
1880 Vera o i nichilisti Dramma romantico; rappresentato per la prima volta nel 1883
1881 Poesie Raccolta di poesie
1883 La duchessa di Padova Dramma romantico; rappresentato per la prima volta nel 1893
1888 Il principe felice e altre fiabe Raccolta di fiabe
1889 La decadenza della menzogna Saggio
1891 La casa dei melograni
L’anima dell’uomo sotto il socialismo
Il delitto di Lord Arthur Savile e altri racconti
Il ritratto di Dorian Gray
Intenzioni
Raccolta di fiabe
Saggio politico

Racconti

Romanzo
Raccolta di saggi

1892 Il ventaglio di Lady Windermere Commedia
1893 Una donna senza importanza Commedia
1894 Salomé Dramma; rappresentato per la prima volta nel 1896
1895 Un marito ideale
L’importanza di chiamarsi Ernesto
Commedia
Commedia
1898 La ballata del carcere di Reading Poema
1905 De Profundis Epistola; pubblicata postuma e solo in parte, pubblicata in versione integrale nel 1949

Leggiamo alcuni versi…

 

Ballata del carcere di Reading

Narratore, poeta, commediografo, Oscar Wilde sostenne il principio dell’indipendenza dell’arte da ogni scopo estraneo all’arte stessa. I versi qui riprodotti sono tratti dalla Ballata del carcere di Reading (1898), poema dell’amarezza e del rimpianto, ispirato dall’esperienza della prigionia.

 

E il lancinante rimorso e i sudori di sangue,

nessuno li conobbe al pari di me:

perché colui che vive più di una vita

deve morire anche più d’una morte.

Approfondimenti

 

Decadentismo

Corrente letteraria europea che ebbe origine in Francia e si sviluppò in Europa tra gli anni Ottanta dell’Ottocento e il primo decennio del Novecento. Trova un corrispettivo nella corrente artistico-architettonica che prese nomi diversi a seconda del paese in cui fiorì: Liberty in Italia, Art Nouveau in Francia, Jugendstil in Germania. Il termine ‘decadentismo’ nacque con l’accezione negativa di ‘decadenza’, sentita come il declino non soltanto letterario di un’intera civiltà, e ancora prima di diventare il titolo di una rivista letteraria francese (‘Le Décadent’, fondata nel 1886) era stato utilizzato dalla critica per definire l’opera di quegli scrittori che manifestavano un’insubordinazione al gusto e alla morale della borghesia, divenuta classe egemone e garante dello statu quo dopo l’esaurirsi della spinta rivoluzionaria del 1848. Due opere, in particolare, avevano suscitato grande scandalo in Francia a metà Ottocento: I fiori del male di Charles Baudelaire e Madame Bovary di Gustave Flaubert, entrambe del 1857.

Le radici filosofiche del decadentismo

Nato in un’epoca di spinte materiali e intellettuali contraddittorie, che vide rinnovamento del sistema produttivo e stagnazione economica, repressione delle masse popolari e attenzione per la questione sociale, il decadentismo ha radici filosofiche nelle correnti irrazionalistiche che, alla fine dell’Ottocento, convivevano con il razionalismo positivistico dal quale era nata la letteratura naturalistica (la raccolta collettiva Le serate di Médan fu pubblicata nel 1880). Due i grandi nomi della riflessione sulla componente irrazionale dell’agire umano: Henri Bergson, che conferì nuovo valore all’intuizione e concepì il tempo non come unità di misura dello scorrere dei fatti ma come dimensione soggettiva e psichica; e Friedrich Nietzsche, che nella Nascita della tragedia (1871) diede risalto e visibilità alla dimensione ‘dionisiaca’ (in opposizione a quella ‘apollinea’) dell’uomo, cioè a quanto vi è di cieco, irrazionale, animale nel comportamento umano.

Il culto della bellezza

In netto contrasto con i processi di democratizzazione contemporanei sostenuti dai socialisti (e in Italia, in ambito letterario, con le posizioni democratiche degli scapigliati milanesi, che pure partivano dallo stesso spirito antiborghese), il decadentismo ha aspirazioni aristocratiche, che si esprimono nel gusto estetizzante. Sul piano artistico l’estetismo si traduce nella ricerca di raffinatezza esasperata ed estenuata, non di rado con incursioni nel mondo antico o in paesi lontani per attingervi la bellezza che manca nel mondo circostante. D’altra parte l’idea della superiorità assoluta dell’esperienza estetica induce l’artista a tentare di trasformare la vita stessa in opera d’arte, dedicandosi al culto della bellezza in assoluta libertà materiale e spirituale, in polemica contrapposizione con la volgarità del mondo borghese.

C’è un libro che si può considerare il manifesto del decadentismo: Controcorrente (1884) di Joris-Karl Huysmans. Il romanzo racconta lo squisito stile di vita del protagonista, Des Esseintes, un sofisticato e perfezionista intenditore d’arte che vive in campagna isolato dal mondo. In Inghilterra Oscar Wilde costruì un personaggio altrettanto individualista nel Ritratto di Dorian Gray (1891), dove un cultore delle apparenze, innamorato della propria eccezionale bellezza, tenta di conservare per sempre la gioventù. L’elemento estetizzante è fondamentale anche nei Ritratti immaginari (1887) di Walter Pater.

In ambito poetico, il movimento trova dei precursori nei parnassiani, fautori in Francia di un classicismo estetizzante e di un’arte fine a se stessa, ed ebbe alcuni maestri riconosciuti: oltre a Baudelaire, Stéphane Mallarmé, teorico di una poesia simbolista pura e astratta, ‘perfetta’; Paul Verlaine, che nel 1873 rivendicò in un sonetto il fatto di essere egli stesso ‘l’Impero alla fine della decadenza’; e Arthur Rimbaud, incarnazione del ‘poeta maledetto’, che tradusse nelle sue forme più estreme l’opposizione alla società circostante.

Fonte: Encarta

La ragazza con l’orecchino di perla – Tracy Chevalier

In questi giorni ho finalmente letto un libro che avevo intenzione di leggere da tanto.

LA RAGAZZA CON L’ORECCHINO DI PERLA

Tracy Chevalier

Neri Pozza

 

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Trama

Delft, Olanda, XVII secolo. La vita scorre tranquilla nella prospera città olandese: ricchi e poveri, cattolici e protestanti, signori e servi, ognuno è al suo posto in un perfetto ordine sociale. Così, quando viene assunta come domestica in casa del celebre pittore Johannes Vermeer, Griet, una bella ragazza di sedici anni, riceve con precisione il suo compito: dovrà accudire con premura i sei figli dell’artista, non urtare la suscettibilità della scaltra suocera e, soprattutto, non irritare la sensuale, irrequieta, moglie del pittore e la sua gelosa domestica privata. Inesorabilmente, però, le cose andranno in modo diverso… Griet e Johannes Vermeer, divideranno complicità e sentimenti, tensione e inganni.

L’autrice

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Tracy Chevalier (Washington, 19 novembre 1962) è una scrittrice statunitense di romanzi storici.
Nel 1984 la Chevalier si è trasferita a Londra, dove vive tuttora con suo marito e suo figlio. La sua carriera è iniziata con La vergine azzurra, ma il suo più famoso libro è La ragazza con l’orecchino di perla un libro che descrive la creazione del quadro Ragazza col turbante di Jan Vermeer (vedi approfondimento in fondo all’articolo) con cui nel 2001 vince il Premio Alex. Dal romanzo è stato tratto l’omonimo film.
Avendo lasciato il suo lavoro di redattrice letteraria nel 1993, cominciò un corso di scrittura creativa all’università dell’East Anglia. Suoi insegnanti sono stati Malcom Bradbury e Rose Tremain.

Opere

  • La vergine azzurra, Neri Pozza, 2005
  • La ragazza con l’orecchino di perla, Neri Pozza, 2000
  • Quando cadono gli angeli, Neri Pozza, 2002
  • La dama e l’unicorno, Neri Pozza, 2003
  • L’innocenza, Neri Pozza, 2007
  • Strane creature, Neri Pozza, 2009
  • L’ultima fuggitiva, Neri Pozza, 2013
Fonte: Wikipedia

La mia opinione

Da amante della storia quale sono questo libro non poteva non piacermi. Ho apprezzato molto l’accurata ricostruzione di usi, costumi, tradizioni, quotidianità del XVII secolo in terra d’Olanda. La lettura scorre veloce poiché lo stile è asciutto e diretto: se questo da un lato non annoia, dall’altro però rende alcune scene troppo sbrigative. Affascinante è la descrizione di un amore platonico tra due persone che non possono instaurare un legame più personale di quello lavorativo. Molto intrigante è la ricostruzione della personalità dell’artista Johannes Vermeer e la leggenda che circonda il dipinto Ragazza col turbante. Una scelta originale e azzeccata. Un romanzo crudo e struggente, intriso di malinconia. Da leggere.

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Dopo la lettura del libro ho visto il film interpretato da Scarlett Johansson e Colin Firth. Devo dire che la ricostruzione storica è pregevole e ottima è la scelta degli attori protagonisti. Vediamo il paragone tra la Johansson e la modella del quadro Ragazza col turbante.

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A parte qualche scena tagliata e personaggi secondari mancanti, il film è fatto bene, il ritmo è adatto alla storia e chi lo guarda dopo aver letto il libro di certo lo apprezza di più.

Valutazione:

5

Approfondimenti

Johannes Vermeer

Vermeer

Johannes Vermeer o Jan Vermeer (Delft, 31 ottobre 1632 – Delft, 15 dicembre 1675) è stato un pittore olandese.

Biografia

Della vita di Vermeer si conosce molto poco: le uniche fonti sono alcuni registri, pochi documenti ufficiali e commenti di altri artisti. La data di nascita non si conosce con precisione, si sa solamente che venne battezzato il 31 ottobre 1632, nella chiesa protestante di Delft. Il padre Reynier era un tessitore di seta della classe media, che si occupava anche di commercio di opere d’arte. La madre Digna era di Anversa: sposò Reynier Vermeer nel 1615. Nel 1641 la famiglia acquistò una locanda, la Mechelen, dal nome di una famosa torre del Belgio, che si trovava nei pressi della piazza del mercato. Reynier affiancò al mestiere di mercante d’arte e tessitore quello di locandiere. Dopo la morte del padre, nel 1652, Joannes ereditò sia la locanda che gli affari commerciali del padre.
Nonostante fosse di famiglia protestante, sposò una giovane cattolica, Catherina Bolnes, nell’aprile del 1653. Fu un matrimonio sfortunato: oltre alle differenze religiose, la famiglia della donna era più ricca di quella di Vermeer. Sembra che egli stesso si fosse convertito prima del matrimonio, poiché i figli ebbero nomi di santi cattolici piuttosto che dei suoi genitori: inoltre, uno dei suoi dipinti, l’Allegoria della fede, rispecchia la fede nell’Eucaristia, ma non si sa se si riferisca a quella dell’artista o del committente.
Qualche tempo dopo le nozze, la coppia si trasferì dalla madre di Catherina, Maria Thins, una vedova benestante, che viveva nel quartiere cattolico della città: qui Vermeer avrebbe vissuto con la famiglia per tutta la vita. Maria ebbe un ruolo fondamentale nella vita del pittore: non solo la prima nipote venne chiamata con il suo stesso nome, ma anche usò la propria rendita per sostenere il genero che cercava di imporsi nel mondo dell’arte. Johannes e la moglie ebbero in tutto quattordici figli, tre dei quali morirono prima del padre.

La carriera

Il suo apprendistato cominciò nel 1647, forse presso Carel Fabritius. Il 29 dicembre 1653, Vermeer divenne membro della Gilda di San Luca. Dai registri di questa associazione di pittori si sa che l’artista non era in grado di pagare la quota di ammissione, il che sembrerebbe indicare difficoltà finanziarie. Successivamente la situazione migliorò: Pieter Van Ruijven, uno dei più ricchi cittadini, divenne il suo mecenate e acquistò suoi numerosi dipinti.
Nel 1662 Vermeer venne eletto capo della Gilda e confermato anche negli anni successivi, segno che era considerato un rispettabile cittadino. Tuttavia, nel 1672 una pesante crisi finanziaria, provocata dall’invasione francese della Repubblica Olandese, provocò un crollo delle richieste di beni di lusso come i dipinti e, di conseguenza, gli affari di Vermeer come artista e mercante ne risentirono, costringendolo a chiedere dei prestiti.
Alla sua morte nel 1675, Vermeer lasciò alla moglie e ai figli poco denaro e numerosi debiti. In un documento, la moglie attribuisce la morte del marito allo stress dovuto ai problemi economici. Catherina chiese al Consiglio cittadino di prendere la casa e i dipinti del marito come pagamento dei debiti: diciannove opere rimasero a Catherina e Maria, e di queste, alcune furono vendute per pagare i creditori.

Tecnica

Vermeer era in grado di ottenere colori trasparenti applicando sulle tele il colore a punti piccoli e ravvicinati, tecnica nota come pointillé, da non confondere con il pointillisme. La sua tecnica punta ad una resa più vivida possibile, con effetti, soprattutto di colore, che egli ricerca con un interesse quasi scientifico, considerando il soggetto una sorta di espediente: “le pitture di Vermeer sono vere nature morte con esseri umani”.
Non ci sono disegni attribuibili con certezza all’artista e i suoi quadri presentano pochi indizi dei suoi metodi preparatori.
Nel libro Il segreto svelato, il noto pittore inglese David Hockney, rifacendosi ai numerosi studi sull’utilizzo di strumenti ottici nella Pittura fiamminga, sostiene che Vermeer, come molti altri pittori della sua epoca, facesse largo uso della camera oscura per definire l’esatta fisionomia dei personaggi raffigurati e la precisa posizione degli oggetti nella composizione dei dipinti. Secondo la “tesi Hockney-Falco” (dal nome del pittore inglese e del fisico americano Charles M. Falco, che l’hanno resa celebre), l’utilizzo di questo strumento ottico giustificherebbe ampiamente la mancanza di disegni preparatori precedenti ai dipinti di straordinaria precisione “fotografica” e fisiognomica di molti artisti fiamminghi, come Van Eyck, e successivamente di epoca barocca, come Caravaggio o Velázquez, ed appunto dello stesso artista olandese. Ma soprattutto, secondo tale tesi, l’uso della “camera oscura” spiegherebbe anche alcuni dei sorprendenti effetti di luce dei quadri di Vermeer, in particolare i curiosi effetti “fuori fuoco” che si riscontrano in taluni dei suoi capolavori, dove alcuni particolari sono perfettamente a fuoco ed altri no, con un tipico effetto riscontrabile nella moderna tecnica fotografica.
L’estrema vividezza e qualità dei colori nei dipinti di Vermeer, tuttora riscontrabile, è dovuta alla grande cura posta dall’artista nella preparazione dei colori ad olio e nell’estrema ricercatezza dei migliori pigmenti rintracciabili all’epoca. Esempio di tale qualità è il largo uso che Vermeer fece del costosissimo blu oltremare, ottenuto dal lapislazzuli, utilizzato in tutti i suoi dipinti non solo in purezza, ma anche per ottenere sfumature di colore intermedie. Non rinunciò ad usare questo pigmento dal costo proibitivo anche negli anni in cui versava in pessime condizioni economiche.
Nelle sue opere è dunque presente una eccezionale unità atmosferica. “La vita silenziosa delle cose appare riflessa entro uno specchio terso; dal diffondersi della luce negli interni attraverso finestre socchiuse, dal gioco dei riflessi, dagli effetti di trasparenze, di penombre, di controluce…”

Oblio critico e i falsi Vermeer

Nota e controversa è la proliferazione sui mercati d’arte di inizio ‘900 di falsi dipinti di Vermeer, dovuti ad uno dei più noti falsari del secolo scorso, l’olandese Han van Meegeren. Questo abilissimo falsario, utilizzando le stesse tecniche pittoriche dell’artista, creò numerosi dipinti con composizioni del tutto originali riuscendo a spacciarli come opere autentiche di Vermeer, tanto che molti famosi collezionisti ed alcuni dei più importanti musei d’Europa acquisirono questi dipinti nelle proprie collezioni.
Questo eclatante fenomeno fu certamente facilitato dalla curiosa mancanza di fonti documentali e di studi approfonditi dell’opera e della figura dell’artista olandese, che fino a metà Ottocento versava in un anomalo oblio, che aveva fatto perdere quasi traccia della vicenda artistica del pittore. Infatti, la moderna fortuna critica di Vermeer ha inizio solo con l’attenzione postagli quasi a fine Ottocento dello studioso francese Théophile Thoré-Bürger. Da questo punto in poi, la sua figura sarà sottoposta a costanti e crescenti attenzioni critiche e pubbliche, fino ad acquisire l’attuale fama internazionale.

Opere

  • La lattaia, Rijksmuseum, Amsterdam
  • Donna in azzurro che legge una lettera, Rijksmuseum, Amsterdam
  • Lettera d’amore, Rijksmuseum, Amsterdam
  • Stradina di Delft, Rijksmuseum, Amsterdam
  • Veduta di Delft, Mauritshuis, L’Aia
  • Ragazza col turbante ovvero Ragazza con l’orecchino di perla, Mauritshuis, L’Aia
  • Diana e le ninfe, Mauritshuis, L’Aia
  • La merlettaia, Museo del Louvre, Parigi
  • L’astronomo, Museo del Louvre, Parigi
  • Donna in piedi alla spinetta ovvero ‘al virginale’, National Gallery, Londra
  • Donna seduta alla spinetta, National Gallery, Londra
  • Lezione di musica (Vermeer), Buckingham Palace, Londra
  • Suonatrice di chitarra, Kenwood House, Londra
  • Donna che scrive una lettera alla presenza della domestica, National Gallery of Ireland, Dublino
  • Cristo in casa di Marta e Maria, National Gallery of Scotland, Edimburgo
  • Donna con collana di perle, Staatliche Museen, Berlino
  • Bicchiere di vino, Staatliche Museen, Berlino
  • Il geografo, Städelsches Kunstinstitut, Francoforte sul Meno
  • Allegoria della pittura, Kunsthistorisches Museum, Vienna
  • Mezzana, Staatliche Gemäldegalerie, Dresda
  • Fanciulla con bicchiere di vino, Herzog Anton Ulrich Museum, Brunswick
  • Fantesca che porge una lettera (Mistress and Maid), Frick Collection, New York
  • Soldato con ragazza sorridente, Frick Collection, New York
  • Concerto interrotto, Frick Collection, New York
  • Giovane donna seduta al virginale, Collezione privata, New York[6]
  • Giovane donna assopita, Metropolitan Museum of Art, New York
  • Giovane donna con una brocca d’acqua, Metropolitan Museum of Art, New York
  • Allegoria della fede, Metropolitan Museum of Art, New York
  • Ragazza con velo, Metropolitan Museum of Art, New York
  • Suonatrice di liuto, Metropolitan Museum of Art, New York
  • Pesatrice di perle, National Gallery of Art, Washington
  • Donna che scrive una lettera, National Gallery of Art, Washington
  • Fanciulla con cappello rosso, National Gallery of Art, Washington
  • Fanciulla con flauto, National Gallery of Art, Washington
  • Concerto a tre, Isabella Stewart Gardner Museum, Boston
  • Santa Prassede, Barbara Piasecka Johnson Collection, Princeton

Ragazza col turbante

Johannes_Vermeer_(1632-1675)_-_The_Girl_With_The_Pearl_Earring_(1665)

La Ragazza con l’orecchino di perla o Ragazza col turbante è uno dei più famosi quadri di Jan Vermeer.
Pare che l’artista olandese lo abbia dipinto fra il 1665 ed il 1666 (secondo alcune fonti in anni ancora successivi). Dipinto ad olio su tela, misura 44,5 × 39 cm ed è conservato al Mauritshuis dell’Aia.

Il dipinto

Raffigura una fanciulla volta di tre quarti. Colpisce in particolar modo l’espressione estatica, assolutamente languida ed ammaliante (secondo alcuni carica anche di un innocente erotismo), dello sguardo della giovane modella: sembra sia stato lo stesso Vermeer a chiedere alla ragazza, posta di fronte alla grande finestra illuminata dalla luce naturale del suo atelier, di voltare il capo più volte lentamente, tenendo socchiuse le labbra per produrre questo effetto.
La suggestiva leggenda che circonda questo quadro – e che colora con una punta di sentimentalismo la biografia di un grande pittore del quale si sa tuttora ben poco, e che poco ha lasciato: una trentina di dipinti in tutto e tutti di piccole dimensioni – è stata rievocata per la letteratura nel 1986 dal libro La ragazza col turbante (tradotto in nove lingue) della scrittrice Marta Morazzoni e poi anche nel 2003 per il cinema da un film dal titolo La ragazza con l’orecchino di perla, interpretato dall’attrice Scarlett Johansson ed ispirato al romanzo omonimo del 1999 della scrittrice Tracy Chevalier.

La perla

L’orecchino con perla del quadro, che cattura quasi da solo la centralità della luce di cui è pervaso il dipinto, è di grandi dimensioni e a forma di goccia. Sebbene la ragazza che lo indossa appaia di modeste condizioni, tale monile era al tempo di Vermeer prerogativa delle dame aristocratiche dell’alta borghesia.
La perla è disegnata utilizzando solo due pennellate a forma di goccia separate l’una dall’altra: è l’occhio umano che ha l’illusione di vedere l’intera perla.
Nel XVII secolo le perle erano una preziosa rarità: venivano importate dall’estremo oriente. Nel caso della perla raffigurata nel dipinto, si tratta di un esemplare di grandi dimensioni che, a parere di alcuni studiosi, in natura non esisterebbe. Un aspetto misterioso e leggendario del dipinto, al pari di quello che lo vorrebbe ricavato da una immagine fotografica (si vuole che Vermeer compisse esperimenti con le prime apparecchiature allo studio per riprodurre immagini).

Fonte: Wikipedia

194 anni fa nasceva Léon Foucault

Diversamente dal solito, in questo articolo non trattiamo di libri ma di scienza. 194 anni fa nasceva Léon Foucalt, anniversario di cui mi fa molto piacere parlare vista la mia passione – più o meno segreta – per l’astronomia.

Léon Foucault

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Léon Jean-Bernard Foucault (Parigi 1819-1868), fu un fisico francese. Il suo nome è legato alla misura della velocità della luce (vedi approfondimento in fondo all’articolo) e alla prima prova fornita a dimostrazione della rotazione terrestre.

Foucault misurò la velocità della luce con un esperimento analogo a quello della ruota dentata, effettuato poco tempo prima da Armand Fizeau. Dimostrò inoltre che la velocità della luce dipende dal mezzo in cui si propaga e, in particolare, che è maggiore nell’aria di quanto non sia nell’acqua.

Nel 1851 fornì la sua spettacolare dimostrazione della rotazione della Terra mediante un pendolo nella cupola del Panthéon di Parigi. Il pendolo era costituito da un grosso peso sospeso a un filo molto lungo (Foucault utilizzò un peso di 28 kg attaccato a un filo lungo 67 m). Posto il pendolo in oscillazione in un piano verticale ma libero di ruotare, a causa del moto di rotazione della Terra il piano di oscillazione ruota leggermente rispetto al terreno sottostante. L’effetto è più pronunciato al Polo Nord e al Polo Sud, dove il pendolo compie una rotazione completa ogni 24 ore, e diminuisce con la latitudine: all’equatore, infatti, non si osserva alcuna rotazione. Il peso del pendolo recava all’estremità inferiore uno stilo che segnava la traccia delle oscillazioni su un fondo di sabbia; nell’arco di una giornata, Foucault mostrò che la traccia non rimaneva sempre nella stessa posizione, ma compiva una rotazione completa; poiché in assenza di forze esterne il piano di oscillazione del pendolo deve rimanere sempre uguale a se stesso, la rotazione della traccia rappresentava una dimostrazione incontestabile della rotazione della Terra.

Il pendolo di Foucault al Pantheon di Parigi.

Il pendolo di Foucault al Pantheon di Parigi.

Nel campo dell’elettromagnetismo (vedi approfondimento in fondo all’articolo), Foucault fu uno dei primi scienziati a dimostrare l’esistenza delle correnti parassite (vedi approfondimento in fondo all’articolo) generate dai campi magnetici. Sviluppò inoltre un metodo di misurazione della curvatura degli specchi dei telescopi e ideò strumenti di vario genere, tra i quali un prisma polarizzante e il giroscopio (vedi approfondimento in fondo all’articolo), che è la base della moderna bussola giroscopica.

Nel 1866 lo scienziato fu colpito da quello che allora era un morbo misterioso che gli tolse l’uso delle gambe e poi anche quello della parola: non è chiaro se si trattasse di sclerosi laterale amiotrofica – malattia all’epoca non conosciuta – o di una sclerosi multipla primariamente progressiva. Si fece posizionare lo specchio che aveva inventato e che inseguiva il moto degli astri, in modo da vedere la volta stellata anche se paralizzato nel letto. Morì nel febbraio 1868 a Parigi e fu sepolto nel cimitero di Montmartre.

Approfondimenti

 

Velocità della luce

Grandezza fisica considerata una delle costanti naturali fondamentali. Essa è pari a 299.792.458 m/s e viene indicata con la lettera c. È la velocità con cui la radiazione elettromagnetica, e quindi la luce, si propaga nello spazio vuoto.

Il suo valore fu determinato sperimentalmente per la prima volta, quasi contemporaneamente, dall’astronomo Armand Fizeau (1819-1869) e dal fisico Jean-Bernard-Léon Foucault nel XIX secolo, che bene approssimarono il valore misurato in seguito. In un mezzo rifrangente, caratterizzato da un indice di rifrazione n, la velocità di propagazione della luce viene ridotta di un fattore 1/n, e risulta pari a c/n.

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La luce del sole impiega 8 minuti per raggiungere la Terra.

 

Elettromagnetismo

Teoria che studia le connessioni e l’interdipendenza fra fenomeni elettrici e magnetici, derivandoli da un unico sistema di equazioni. Tali equazioni sono le cosiddette “equazioni di Maxwell”, che descrivono la propagazione del campo elettromagnetico e costituiscono il nucleo della teoria dell’elettromagnetismo, formulata nel 1873 dal fisico britannico James Clerk Maxwell.

Le equazioni di Maxwell mostrano che il campo elettromagnetico si propaga in forma di onde, le onde elettromagnetiche appunto, con velocità pari a 1/√eµ. Nel vuoto, tale velocità corrisponde a quella di propagazione della luce: è partendo da questa osservazione che Maxwell riuscì a interpretare la luce come una delle manifestazioni del campo elettromagnetico. Per confermare la teoria di Maxwell si dovette attendere circa vent’anni, quando il fisico tedesco Heinrich Rudolf Hertz riuscì a mostrare la reale esistenza delle onde elettromagnetiche, generandole con oscillatori elettronici (dipoli metallici lineari alimentati da corrente di altissima frequenza) e rivelandoli con circuiti elettrici risonanti.

Secondo la teoria di Maxwell, le onde elettromagnetiche si propagavano in un mezzo, l’etere, che permeava tutto lo spazio: lo stesso dunque avrebbe dovuto essere vero per la luce. Ma gli esperimenti di fine secolo mostrarono che l’etere non esisteva: partendo da queste considerazioni, Albert Einstein formulò la sua teoria della relatività ristretta, che, partendo da una revisione dei concetti di spazio e tempo, conteneva anche le equazioni di propagazione e trasformazione dei campi elettromagnetici dinamici. Oggi questa teoria, inquadrata nella relatività, è definita elettrodinamica, mentre alla teoria che spiega i fenomeni elettrodinamici in relazione al mondo microscopico, sviluppata successivamente, viene dato il nome di elettrodinamica quantistica.

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Correnti parassite o correnti di Foucault

Effetto elettromagnetico che si osserva in un corpo conduttore massiccio attraversato da un campo magnetico variabile. Il fenomeno consiste nell’insorgenza di correnti elettriche parassite, che circolano su circuiti chiusi all’interno del corpo conduttore, dissipando energia. Tali correnti sono alimentate dalla forza elettromotrice indotta che insorge per induzione elettromagnetica: secondo la legge di Faraday-Neumann, se il conduttore è investito da un campo magnetico il cui flusso attraverso la sua superficie varia nel tempo, si produce una forza elettromotrice indotta, pari appunto alla variazione di flusso nell’unità di tempo; il verso delle correnti parassite, così come prescrive la legge di Lenz, è tale da opporsi al campo magnetico che le ha generate. Poiché, come risulta dalla seconda legge di Ohm, la resistenza elettrica diminuisce all’aumentare della sezione del conduttore, in un corpo massiccio è relativamente piccola, ed è quindi piuttosto intensa la corrente che vi può circolare. Questo spiega il motivo per cui le correnti di Foucault, che nei comuni fili elettrici sono di intensità pressoché trascurabile, si rilevano soprattutto all’interno di conduttori di grosse dimensioni.

La presenza di correnti parassite all’interno di un conduttore si può rivelare facilmente osservando che il corpo in questione a poco a poco si riscalda. Come è noto, infatti, l’attraversamento di un conduttore da parte di una corrente elettrica avviene con dispendio di energia, che viene dissipata sotto forma di calore – un fenomeno noto con il nome di effetto Joule.

Il fenomeno delle correnti parassite trova un impiego nei freni elettrodinamici, utilizzati soprattutto per mezzi pesanti come i treni. Il principio di funzionamento di questo tipo di freni sfrutta essenzialmente la legge di Lenz, vale a dire, il fatto che il campo magnetico generato dalle correnti di Foucault si opponga al campo magnetico che le ha generate. Durante la frenata, le ruote metalliche del treno vengono investite dal campo magnetico di un apposito elettromagnete, e quindi interessate dal fenomeno delle correnti parassite. Queste correnti generano a loro volta un campo magnetico opposto a quello che le ha prodotte, causando il rallentamento delle ruote, tanto più efficientemente quanto maggiore è la velocità di rotazione. Poiché l’efficienza della frenata diminuisce al diminuire della velocità, i freni elettrodinamici hanno la caratteristica di produrre un rallentamento non brusco, ma graduale.

 

Giroscopio

Qualunque sistema fisico dotato di una simmetria di rotazione intorno a un asse. Con il termine giroscopio si indica comunemente un corpo di forma sferica o di ruota o di disco, montato su sospensione cardanica in modo da poter ruotare in qualunque direzione.

Le caratteristiche fondamentali di un sistema di questo tipo sono l’elevata inerzia, ovvero la permanenza dell’asse di rotazione, e la precessione, ovvero la tendenza dell’asse di rotazione a disporsi ad angolo retto rispetto al piano individuato dall’asse stesso e da una qualsiasi forza a esso applicata, e che consiste sostanzialmente in un lento moto conico dell’asse. Queste due proprietà sono comuni a qualunque corpo in rotazione intorno a un asse di simmetria, compresa la Terra.

Un giroscopio vincolato a mantenere costante la direzione del proprio asse di rotazione viene detto talvolta girostato: in quasi tutte le applicazioni pratiche, il giroscopio funziona appunto in questo modo. Il prefisso ‘giro’ viene d’abitudine aggiunto al nome dell’applicazione come, ad esempio, ‘girobussola’, ‘girostabilizzatore’ e ‘giropilota’.

L’elevata inerzia dell’asse di rotazione e la forza di gravità vengono sfruttate per utilizzare un giroscopio come indicatore di direzione o bussola. Brevemente, se immaginiamo di porre un giroscopio sull’equatore, montato con l’asse orizzontale di rotazione in direzione est-ovest, esso continuerà a indicare l’equatore, mantenendo la medesima direzione nello spazio, mentre la Terra ruota da ovest verso est: di conseguenza, l’estremo est dell’asse si muoverà verso l’alto rispetto al suolo. Se alla struttura portante del giroscopio si applica un tubo, parzialmente riempito di mercurio, in modo che subisca la stessa deflessione dell’asse del giroscopio rispetto al suolo, il peso del mercurio, che si accumula verso l’estremo più basso (ovest), applica una forza verticale all’asse del giroscopio. Il giroscopio tende a resistere a questa forza, e precede intorno al suo asse verticale, verso il meridiano. Nella girobussola le forze di controllo sono applicate automaticamente con intensità e direzione opportune, in modo che l’asse del giroscopio mantenga la direzione del meridiano, vale a dire punti fra nord e sud.

Le girobussole sono ormai montate su tutte le navi del mondo. Esse sono esenti dalle anomalie delle bussole magnetiche; indicano il nord geografico invece del nord magnetico e hanno abbastanza stabilità da rendere possibile il governo di apparecchi ausiliari come registratori di rotta, giropiloti e bussole ripetitrici. Il giropilota da marina non ha un proprio giroscopio, ma acquisisce elettricamente qualunque scostamento dalla rotta prestabilita rilevata dalla girobussola; questi segnali elettrici sono amplificati e applicati a un servomeccanismo che controlla il timone in modo che la nave riprenda la giusta rotta.

Orizzonte giroscopico artificiale. Per guidare un aereo è indispensabile una strumentazione che fornisca le informazioni necessarie per l’orientamento anche in caso di scarsa visibilità. L’orizzonte artificiale, costituito da una coppia di giroscopi, indica l’inclinazione del velivolo rispetto all’orizzonte. In caso di volo cieco, esso diventa lo strumento di bordo più importante; perciò si trova al centro del cruscotto.

Orizzonte giroscopico artificiale. Per guidare un aereo è indispensabile una strumentazione che fornisca le informazioni necessarie per l’orientamento anche in caso di scarsa visibilità. L’orizzonte artificiale, costituito da una coppia di giroscopi, indica l’inclinazione del velivolo rispetto all’orizzonte. In caso di volo cieco, esso diventa lo strumento di bordo più importante; perciò si trova al centro del cruscotto.

Fonti: Encarta, Wikipedia

 

11 settembre 2001 – 11 settembre 1973

Ricordiamo con rispetto i morti del famoso 11 settembre 2001. Anche se sono convinta che il miglior modo per onorarne la memoria è parlare della verità di ciò che è accaduto e non di ciò che ci hanno propinato i media. Ciò a cui mi riferisco è disponibile sul web in tutte le forme e le salse e credo che quasi tutti ne abbiano sentito parlare – vi invito a leggere un articolo particolarmente esaustivo qui. Personalmente, dopo tutte le informazioni che ho raccolto e i libri dedicati che ho letto, non credo affatto alla leggenda dell’attentato terroristico contro gli Stati Uniti. In ogni caso, vorrei oggi riportare alla mente un altro 11 settembre, quello del 1973, ben più esoso in termini di vite umane ingiustamente cancellate, senza contare tutte le conseguenze. Vi lascio a tal proposito il link di qualche interessante articolo da leggere.

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Salvador Allende, il presidente cileno deposto dal colpo di Stato in data 11 settembre 1973.

 

 

Informare per resistere

Wikipedia

Huffington post

Settant’anni fa l’armistizio con gli Alleati: una pace che portò purtroppo alla guerra civile e al martirio del suolo italiano

8 settembre 1943, ore 19.42. Il maresciallo Pietro Badoglio parla dai microfoni di Radio EIAR:

Il governo italiano, riconosciuta la impossibilità di continuare la impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza.

L’armistizio di Cassibile

Il generale Castellano (in borghese) ed il generale Eisenhower si stringono la mano dopo la firma dell'armistizio a Cassibile, il 3 settembre 1943.

Il generale Castellano (in borghese) ed il generale Eisenhower si stringono la mano dopo la firma dell’armistizio a Cassibile, il 3 settembre 1943.

Accordo che stabiliva le condizioni dell’armistizio chiesto dall’Italia agli Alleati dopo la caduta del regime fascista. Fu firmato a Cassibile, in provincia di Siracusa, il 3 settembre 1943 alla presenza del comandante delle forze alleate Eisenhower dai generali Giuseppe Castellano, per l’Italia, e Walter Bedell Smith, per gli Alleati. L’armistizio, articolato in 12 punti, prevedeva che l’Italia si ritirasse dalla guerra e dall’alleanza con la Germania e consegnasse la flotta e gli aerei nelle basi meridionali agli Alleati. L’Italia si impegnava inoltre ad accettare le direttive di ordine politico ed economico che sarebbero state comunicate in un secondo tempo. Secondo gli accordi l’armistizio doveva essere divulgato sei ore prima dell’imminente sbarco angloamericano sulle coste italiane, ma una serie di fraintendimenti tra le parti costrinse a rinviare l’operazione. La notizia dell’armistizio fu diffusa in tutto il mondo l’8 settembre 1943.

Le conseguenze

La scelta

L’annuncio dell’armistizio prese parecchi italiani alla sprovvista: le circostanze in cui esso venne reso pubblico determinarono la sensazione tra militari e civili di essere stati abbandonati e lasciati a sé stessi, rispettivamente i primi dagli ufficiali ed i secondi dall’autorità pubblica, e vi è stato chi ha visto nell’8 settembre e nelle sue conseguenze il momento della venuta meno del tessuto connettivo nazionale.
Nei giorni immediatamente successivi all’armistizio, con l’eclissi del potere dello Stato regio, iniziarono a delinearsi i due schieramenti della guerra civile, i partigiani e i fascisti, entrambi convinti di rappresentare legittimamente l’Italia. Molti di coloro che imbracciarono le armi si trovarono, colti di sorpresa dall’armistizio, da una parte o dall’altra quasi casualmente e dovettero compiere la propria scelta di campo sulla base delle circostanze. La decisione fu resa maggiormente drammatica per la solitudine in cui avvenne, in quanto di fronte al crollo dello Stato non esisteva più la possibilità di rifarsi ad un’autorità, ma solo ai propri valori. Naturalmente le scelte non furono tutte istantanee e basate su certezze assolute.
La scelta fu particolarmente gravosa per i militari, vincolati da una parte al giuramento al re e dall’altra al rispetto dell’alleanza con i tedeschi, pena in entrambi i casi il proprio onore di soldati; risolsero il problema facendo appello alla propria coscienza: alcuni, considerando sciolto il giuramento al Re per via del suo comportamento, si presentarono ai comandi tedeschi chiedendo d’essere arruolati, ricevendo come distintivo una fascia da braccio con un tricolore e la scritta Im Dienst der Deutschen Wehrmacht (al servizio della Wehrmacht germanica); altri, pur essendo del medesimo avviso, scelsero comunque di non parteggiare per l’Asse.
Disordini e scontri a fuoco avvennero durante i giorni dell’armistizio, ma raramente coinvolsero italiani di entrambi gli schieramenti. Lo stato maggiore del Regio Esercito provvide in alcuni casi a modificare i comandi con elementi di sicura fede monarchica, come accadde alla 1ª Divisione corazzata “M”, che divenne 136ª Divisione corazzata “Centauro II” e fu assegnata al generale Giorgio Carlo Calvi di Bergolo, genero del re; tuttavia il Comando Supremo non giudicava affidabile la divisione, che infatti durante gli eventi dell’8 settembre non si mosse a difesa di Roma. Ciò non di meno, vi furono alcuni episodi in cui italiani delle due parti si scontrarono.

Rilevanti fatti di sangue si registrarono in Sardegna, dove il contingente italiano, godendo di una netta superiorità numerica e di una buona qualità dei reparti a disposizione, tra i quali la 184ª Divisione paracadutisti “Nembo”, obbligò i tedeschi ad una veloce ritirata dall’isola. Di conseguenza, diversamente che dal resto d’Italia, non vi fu margine di manovra per quegli italiani che non avessero voluto obbedire alle disposizioni armistiziali e che pertanto dovettero compiere la scelta di campo immediatamente. La Sardegna fu quindi teatro di uno dei primi episodi di guerra civile, quando all’annuncio dell’armistizio il XII battaglione della “Nembo”, al comando del maggiore Mario Rizzatti, si ammutinò per seguire i tedeschi della 90ª Divisione Panzergrenadier e continuare quindi la lotta contro gli angloamericani. A sedare questa sedizione venne inviato il tenente colonnello Alberto Bechi Luserna, che fu ucciso dagli ammutinati. Cinque giorni dopo veniva ucciso da un ignoto il maresciallo ordinario Pierino Vascelli, che, sebbene non si fosse unito agli ammutinati, non aveva nascosto i propri sentimenti fascisti.
Si schierarono con i tedeschi anche il 63º battaglione della legione Camicie Nere Tagliamento, un centinaio di paracadutisti della scuola di Viterbo, una parte del 10º reparto Arditi presso Civitavecchia, nonché i militari della Xª Flottiglia MAS di stanza a La Spezia, al comando del principe Junio Valerio Borghese, che ricostituì il corpo mantenendo lo stesso nome, principalmente come fanteria di marina. In altre parti d’Italia i fascisti non presero posizione contro i reparti fedeli alla monarchia, ma si limitarono a non opporre resistenza ai tedeschi.
Nel clima generale in cui tutti erano come posseduti da un “bisogno di grandi tradimenti” contro i quali rivalersi, entrambe le parti (sebbene tra i partigiani non mancasse una minoranza di convinti monarchici) erano accomunate dalla condanna del re e di Badoglio: i fascisti li accusavano di aver tradito l’alleanza con i tedeschi e di aver così compromesso l’onore dell’Italia agli occhi del mondo, mentre i resistenti di aver impedito all’8 settembre di «trasformarsi in una trionfale e redentrice giornata di resurrezione» (Silvio Trentin).
I primi gruppi di fascisti ripresero l’iniziativa; contemporaneamente a Roma – perduranti ancora i combattimenti fra Regio Esercito e Wehrmacht – veniva fondato dagli esponenti dell’antifascismo politico il primo Comitato di Liberazione Nazionale, mentre, specialmente in Piemonte e in Abruzzo, si formarono i primi gruppi partigiani. In quei giorni furono gettate le basi sia della “resistenza attiva” sia della “resistenza passiva”, con la popolazione civile che offriva solidarietà ed aiuto ai soldati che si davano alla macchia o che sceglieva “di non scegliere”, mettendosi nella “zona grigia” o fra gli “attendisti”.

La Repubblica Sociale Italiana

Organismo statale sorto in Italia dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 nei territori centrosettentrionali del paese occupati dai nazisti (a esclusione di quelli annessi di fatto al Terzo Reich, come il Trentino, l’Alto Adige e il Friuli). Detta anche Repubblica di Salò (dal nome del comune sul lago di Garda, in provincia di Brescia, che fu sede del governo), fu presieduta da Benito Mussolini, che ne ufficializzò la costituzione in un discorso trasmesso da radio Monaco il 18 settembre 1943. Il governo, i cui ministeri furono dislocati in diverse città dell’Italia settentrionale, si costituì il 23 settembre al rientro di Mussolini in Italia e fu riconosciuto soltanto dalle nazioni dell’Asse e dagli stati satelliti.

La Repubblica di Salò fu nei fatti uno strumento al servizio dell’occupazione tedesca, sebbene Mussolini tentasse di rilanciare un’autonoma proposta politica riprendendo i toni sociali e repubblicani tipici delle origini del fascismo. Più che da Mussolini la RSI fu orientata dagli esponenti oltranzisti del regime, tra i quali Alessandro Pavolini, segretario del neocostituito Partito fascista repubblicano, e il maresciallo Rodolfo Graziani, responsabile della Difesa.

Un tribunale della RSI processò a Verona i gerarchi del Gran consiglio del fascismo, che, nella seduta del 25 luglio 1943, avevano votato un ordine del giorno contro Mussolini, provocandone la caduta. Il processo si concluse il 10 gennaio 1944 con cinque condanne a morte, che colpirono tra gli altri il genero di Mussolini, Galeazzo Ciano, e il generale Emilio De Bono, quadrumviro della marcia su Roma del 1922.

In mancanza di una partecipazione alle operazioni contro le forze degli Alleati, anche per la diffidenza con la quale i tedeschi guardavano alle formazioni “repubblichine”, compito principale della RSI diventò la repressione antipartigiana, nella quale si distinse per spietatezza la X MAS di Junio Valerio Borghese. Fu inoltre costituito un esercito della RSI, al quale molti giovani si sottrassero non rispondendo alla leva o disertando, e una milizia fascista, autonoma struttura militare ricostituita da Mussolini. Non mancò peraltro l’apporto all’esercito della RSI e alla milizia di gruppi di giovani che in buona fede avevano vissuto l’armistizio dell’8 settembre come una grave onta inferta all’onore nazionale e un tradimento nei confronti dell’alleato tedesco.

Le rare iniziative di carattere politico, come la manifestazione fascista al teatro Lirico di Milano (16 dicembre 1944), non ottennero risonanza e dimostrarono l’isolamento sostanziale, rispetto alla maggioranza della popolazione, in cui agiva la RSI. I suoi destini furono perciò intrecciati alle sorti delle forze di occupazione tedesche, così che la RSI crollò con l’avanzata degli Alleati e con il successo della Resistenza. La morte di Mussolini, giustiziato dai partigiani il 28 aprile 1945, e quella dei principali capi fascisti (Pavolini, Starace, Farinacci) suggellò la fine della RSI.

La Resistenza

La Resistenza armata al nazifascismo si organizzò dopo l’armistizio dell’8 settembre, quando dalle fila dell’esercito lasciato allo sbando uscirono i primi gruppi di volontari combattenti, reclutati dalle nascenti formazioni partigiane. Queste furono costituite dai rappresentanti dell’antifascismo, che crearono il Comitato di liberazione nazionale (CLN), al quale si collegarono successivamente organismi analoghi nati su base regionale: Il CLN fu lo strumento politico della guerra partigiana, le cui prime azioni furono messe a segno nell’inverno 1943-44 nel territorio alle spalle delle linee tedesche.

La Resistenza fu espressione di una volontà di riscatto dal fascismo e di difesa dell’Italia dall’aggressione tedesca e coinvolse complessivamente circa 300.000 uomini armati, che svolsero attività di guerriglia e di controllo, dove possibile, del territorio liberato dai nazifascisti. Fu dunque guerra patriottica di liberazione dall’occupazione tedesca, ma fu anche guerra civile contro la Repubblica sociale italiana, nel cui esercito pure militarono gruppi di giovani che in buona fede considerarono l’armistizio con gli Alleati un tradimento nei confronti dell’alleato tedesco.

Il movimento della Resistenza si sviluppò sostanzialmente nell’Italia del Nord e, in secondo luogo, nell’Italia centrale. I raggruppamenti più numerosi furono quelli organizzati dai comunisti nelle Brigate Garibaldi; gli uomini del Partito d’azione formarono le brigate di Giustizia e Libertà, i socialisti le Matteotti. Operarono inoltre altre formazioni di diversa impronta ideologica: cattolica, liberale, nazionalista e monarchica. Quasi assente fu la Resistenza nell’Italia meridionale, che peraltro al 12 ottobre 1943 era già stata occupata dalle forze angloamericane fino alla linea Gustav, il fronte difensivo tedesco che tagliava la penisola dalle foci del Volturno, sul Tirreno, fino a Termoli, sul litorale Adriatico. Fece eccezione l’insurrezione di Napoli, dove il popolo nelle quattro giornate liberò la città dall’occupazione tedesca.

L’unità operativa che i diversi gruppi della Resistenza italiana riuscirono, seppure imperfettamente, a conseguire sul piano militare non ebbe riscontro in un’analoga unità d’azione politica. Gli obiettivi finali per i quali era giustificata la lotta di liberazione apparivano assai divergenti a seconda delle appartenenze partitiche: tali divergenze erano presenti tra le stesse forze di sinistra. Il Partito d’azione, il Partito comunista e il Partito socialista rifiutavano l’idea che lo scopo della guerra partigiana fosse quello di ripristinare lo stato liberale prefascista; sulla base di questa comune premessa, tuttavia, anche questi partiti differivano tra di loro su contenuti e modalità della struttura del nuovo stato democratico per il quale si battevano. Gli azionisti ritenevano che fosse necessario attribuire alle organizzazioni partigiane un ruolo rilevante nella costruzione di una nuova democrazia, dai contenuti sociali più avanzati di quelli del vecchio stato monarchico; per i comunisti e i socialisti, invece, i CLN dovevano esaurire la loro funzione in ambito militare, lasciando ai partiti il compito di promuovere le future forme politiche e istituzionali.

Altrettanto differenti erano le motivazioni ideologiche che circolavano tra i partigiani. Molti di quelli che militavano nelle formazioni di sinistra, spinti da una forte carica ideologica, pensavano che la guerra di liberazione dovesse sfociare in un cambiamento radicale della società. Tale cambiamento per i comunisti coincideva con la rivoluzione sociale, per gli azionisti con l’instaurazione di una democrazia avanzata, libera dai compromessi e dalle debolezze che nel 1922 avevano portato alla vittoria del fascismo. La caduta della monarchia avrebbe dovuto rappresentare la premessa obbligata di qualsiasi rinnovamento futuro. La monarchia continuava invece a riscuotere consensi tra i partigiani democratico-cristiani, liberali e autonomi, oltre che tra i soldati e gli ufficiali delle forze dell’esercito che, non avendo aderito alla Repubblica di Salò, avevano scelto di partecipare alla Resistenza. Inoltre il modello dello stato prefascista appariva tutt’altro che accantonato.

I partigiani del Nord operarono prevalentemente nelle montagne e nelle campagne, ma la loro azione si saldò anche agli imponenti scioperi operai che nel marzo del 1944 paralizzarono le maggiori città industriali (Torino, Milano, Genova). Nelle fabbriche e nelle città, soprattutto per opera dei militanti comunisti clandestini, si organizzarono nuclei partigiani denominati GAP (Gruppi d’azione patriottica), formati ciascuno da tre o quattro militanti, che svolgevano operazioni di sabotaggio, atti di guerriglia e opera di propaganda politica.

Via via che cresceva il ruolo combattente della Resistenza, si poneva il problema del rapporto con gli interlocutori politici e militari italiani e Alleati. Frequenti attriti si manifestarono anche dopo che i partigiani furono ufficialmente militarizzati nel Corpo volontari della libertà (giugno 1944), comandato dal generale Raffaele Cadorna, con vicecomandanti il comunista Luigi Longo e l’azionista Ferruccio Parri, e riconosciuto sia dai comandi militari alleati che dal governo nazionale. Causa dei contrasti con il governo italiano che operava nei territori liberati erano le strategie politiche da assumere per il futuro, mentre tra le forze militari angloamericane correva il timore che a guerra conclusa i partigiani divenissero protagonisti di azioni insurrezionali. Confermava tale timore l’esperienza, peraltro di breve durata, delle repubbliche partigiane che si formarono in alcune zone del Nord, liberate dall’occupazione nazifascista tra l’estate e l’autunno del 1944.

La Resistenza culminò nell’insurrezione generale, proclamata dal Comitato di liberazione nazionale per l’Alta Italia il 25 aprile 1945 e conclusasi con la liberazione delle principali città del Nord prima dell’arrivo delle forze alleate; la resa incondizionata dei tedeschi si ebbe il 29 aprile.

Fonti: Encarta, Wikipedia

 

Per approfondire gli accadimenti legati alla Resistenza, di cui qui ho riportato una sintesi, visitate la pagina Wikipedia dedicata.

Vi lascio con due estratti dal seguito di Tregua nell’ambra: il primo tratto dalla campagna d’Italia cui partecipa anche Alec, il secondo dalle attività della Resistenza ad Asti cui partecipa Elisa. E non chiedetemi cosa ci fa lì perché al momento non posso dirvelo 😉

 

Estratto 1

Alec si risistemò lo zaino sulla spalla gocciante, sistemò le armi e corse verso la boscaglia che gli stava dinanzi, i suoi uomini disposti in formazione come ordinato, pronti a fare fuoco. Si portò davanti a loro e fu il primo ad addentrarsi nella vegetazione, i sensi tesi al massimo nel buio, preparati a cogliere anche il minimo infido stormire di fronde. Avanzò velocemente ma con cautela con le armi puntate verso un nemico invisibile. I piedi che calpestavano un tappeto di bossoli. Dopo pochi metri alla luce lunare filtrata dai fogliami degli alberi, scorse uno sbarramento di legno e filo spinato. Attorno a lui altri soldati, altre vite intrecciate alla morte. Il fumo che si levava dai tronchi bruciati e dal terreno violentato cominciò a ottenebrargli la visuale. Socchiuse gli occhi e seguitò ad avanzare. Lo sbarramento c’era, ma era praticamente distrutto, travi e detriti di ferro sparsi ovunque. Lo valicò con facilità, affiancato dal sergente Wilson e da un paio di reclute. Oltre quello, il nulla. Soltanto frammenti indefinibili e macerie. Nessuna tenda, nessun nazista.

Gli uomini cominciarono a tranquillizzarsi ma lui intimò di non abbassare la guardia. Si chiese se i tedeschi fossero fuggiti. Che fosse invece una trappola? Considerato il numero dei soldati britannici e quello dei tedeschi non credeva potesse trattarsi di un’imboscata. I nemici erano in netta inferiorità; se erano riusciti a resistere fino a quel momento era stato solo grazie alla conformazione morfologica del territorio. Continuarono ad addentrarsi nei boschi e trovarono una cinquantina di cadaveri. Tutti sottoufficiali e soldati semplici. Alec diede ordine ai suoi uomini di raccogliere armi ed equipaggiamento.

Si chinò sul corpo senza vita di un tedesco. Gli occhi ancora aperti in un’espressione di terrore, la divisa bruciata, gli arti inferiori atrocemente mutilati dal fosforo, le ossa dell’avambraccio in bella vista. Non gli fece alcuna impressione, aveva visto cose ben peggiori. Sfilò con attenzione un Gewehr 98 dalla spalla ustionata del cadavere.

Continuarono ad avanzare. Per diverse centinaia di metri non trovarono anima viva, soltanto altri cadaveri dilaniati dalle granate e arsi dal fosforo, sguardi vacui che parevano seguirli a ogni passo e ossa fuori dalle membra. Raggiunsero con facilità l’area retrostante, quella che non era stata percossa dai fuochi dell’artiglieria. Ciò voleva dire che il resto dei crucchi aveva battuto in ritirata. Alec si fermò e gli uomini attorno a lui fecero altrettanto. In quel momento udì una voce familiare.

«Alec!»

Russell gli correva incontro dalla vegetazione alla sua destra. Anch’egli era bagnato fradicio come tutti gli altri.

«Russ, al momento giusto. Uomini a posto?», gli chiese Alec non appena l’amico si fu avvicinato.

«Sì, griglia 5001B sicura. Anche qui sembra tutto tranquillo.»

«Prima di accamparci dobbiamo scoprire dove sono. Andiamo in avanscoperta», disse Alec guardandosi attorno.

«Era quello che pensavo anch’io. Aspettami. Vado a dare nuovi ordini ai miei.» Si mosse nella direzione dalla quale era giunto.

Alec si voltò verso il suo plotone, i cinque sergenti erano proprio dietro di lui. «Sullivan, Adams, scegliete tre caporali e venite con me.»

«Sissignore», risposero quelli allontanandosi tra gli alberi alla ricerca dei loro uomini migliori.

Estratto 2

L’Osteria dei santi – appellativo nient’affatto adatto ai suoi avventori – si trovava subito dopo il ponte sul fiume. Era costruita in travi di legno scuro e pesante, con un’insegna anch’essa lignea che dondolava allegramente a ogni refolo di brezza. Sul lato ovest, nascoste alla via e alla cima della china su cui erano i miei compagni, erano parcheggiate diverse camionette militari.
Varcai la soglia del locale quasi fosse quella di casa mia. Indossai una maschera civettuola e mi mossi ancheggiando fino al bancone. Il posto era zeppo di nazisti. Non solo ufficiali, come potei notare in una rapida scorsa sulle loro spalline, ma pure soldati semplici. Dall’uniforme parevano tutti membri dell’Heer, niente SS. Una bruma di fumo aleggiava nel punto più alto del soffitto spiovente, mentre l’aria ad altezza d’uomo puzzava dannatamente di alcol. Risa maschili ed esclamazioni in tedesco infastidivano i timpani.
Mi sedetti rapidamente su uno sgabello. Un uomo mi venne incontro dall’altra parte. Con un gesto del palmo gettò dietro di sé un moccolo di candela che si esibiva squallido sul bancone bisunto, quindi mi concesse un’occhiata curiosa.
«Mia cara, non vi ho mai vista da queste parti, qualche problema?», mi chiese in un italiano dalla forte inflessione piemontese. Aveva il viso rincagnato e il capo privo di capelli, a parte qualche ciuffo sale e pepe ai lati.
Risposi con un sorriso suadente. «È gentile da parte vostra prendervi pena per me. Tuttavia credo sappiate bene perché giovani donne astigiane decidano di frequentare questo posto, non è vero?» Pronunciai il tutto con un tono di voce basso, nel tentativo di apparire sicura del fatto mio e al contempo mascherare quanto più possibile l’inevitabile strascico della mia parlata meridionale.
«Oh, bene, capisco benissimo», rispose poggiando i gomiti sul bancone e sporgendosi verso di me. Un tanfo di sudore rancido mi raggiunse senza pietà. «Mi piange il cuore nel vedere una così bella italiana vendersi», asserì rivolgendo un’impudica occhiata all’apertura del mio cappotto.
Afferrai al volo l’occasione per portarlo fuori da lì. Non potevo certo dirgli che i partigiani stavano per distruggere la sua osteria; oltretutto era probabile che fosse in buoni rapporti con i nazisti. «Magari potremmo approfondire la questione. Diciamo… in privato?», incalzai ammiccando.
Dio, pensai. Se mi vedesse Enea scoppierebbe a ridere.
Un rossore improvviso e visibile nonostante la luce poco intensa dei lampadari si fece strada attraverso il collo tarchiato per approdare infine alle orecchie leggermente a punta dell’oste.
Annuì fingendosi sicuro di sé, come se si fosse trovato decine di volte in situazioni come quella.

Accadde oggi: nel 1926 muore Rodolfo Valentino

Chi non ha mai sentito parlare di Rodolfo Valentino? Amato ovunque, la sua fama lo ha reso immortale, capace di raccogliere ammiratori anche dopo quasi novant’anni dalla sua morte. Ebbene, leggendo qualcosa su di lui ho scoperto che suo padre era di Martina Franca, la mia città. Ora, a parte uno slancio di orgoglio campanilistico, nonostante l’emigrazione negli Stati Uniti Rodolfo Valentino aveva il cuore italiano, con la passionale personalità meridionale. Dunque ricordiamolo nell’anniversario della sua morte.

Rodolfo Valentino

 

Le donne non sono innamorate di me, bensì dell’immagine che hanno di me sullo schermo. Io sono soltanto la tela su cui le donne dipingono i loro sogni.

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Rodolfo Valentino, o Rudolph Valentino, nome d’arte di Rodolfo Alfonso Raffaello Pierre Filibert Guglielmi di Valentina D’Antonguella (Castellaneta, 6 maggio 1895 – New York, 23 agosto 1926), è stato un attore e ballerino italiano del cinema muto. Fu uno dei più grandi divi cinematografici della sua epoca, noto anche per esser stato il sex symbol di quegli anni, tanto che gli fu affibbiato il soprannome di “Latin Lover”. Il suo stile recitativo fu ammirato da altri grandi, tra cui lo stesso Charlie Chaplin. Di una bellezza considerata straordinaria, Rodolfo Valentino era dotato di un fascino magnetico e ambiguo che ne faceva un latin lover e un tombeur de femme quanto mai moderno e differente dai modelli – un po’ stereotipati e per certi versi datati – di un Casanova o di un Don Giovanni; sotto questo aspetto fu anche uno dei primi sex symbol se non addirittura un vero e proprio oggetto del desiderio, destinato al culto di massa. Questo suo fascino – oltre che gli indubbi meriti di attore, in un’epoca in cui il cinema muoveva ancora tutto sommato i primi passi – lo consegnerà alla leggenda.

La famiglia

Terzo di quattro figli (Beatrice, Alberto e Maria erano i suoi fratelli), era nato a Castellaneta, in provincia di Taranto, da padre italiano, Giovanni Guglielmi di Valentina D’Antonguolla, un veterinario ex capitano di cavalleria originario di Martina Franca appassionato d’araldica (i suoi studi lo convinsero d’essere imparentato a certi nobili papalini e decise, di conseguenza, di aggiungere al proprio cognome il titolo “di Valentina D’Antonguella”), e da madre francese, Marie Gabrielle Bardin, dama di compagnia della marchesa del posto. La madre nata in Francia, da genitori nobili di origine piemontese al servizio dei Savoia, poi, per lavoro, trasferitisi in Francia. Il cognome italiano della madre non è altro che Bardini, poi francesizzato per motivi pratici e di costume.

Gli studi

A Castellaneta frequentò le classi elementari per proseguire gli studi dapprima (1904) a Taranto, dove si trasferì con la sua famiglia, in un appartamento sito in via Massari 16 sul lungomare e poi (1906) a Perugia, anche in seguito alla difficile situazione che si ebbe dopo la prematura morte del padre, presso l’O.N.A.O.S.I. (Opera Nazionale Assistenza Orfani Sanitari Italiani), dove rimase tre anni. Il caso vuole che in collegio fu ricordato come bruttarello e fu spesso preso in giro per l’accentuata forma a punta delle sue orecchie. Dal collegio fu radiato a causa della sua indisciplina. Nel 1909 tentò di entrare nel Collegio Navale Morosini della Marina a Venezia, ma fu scartato per problemi fisici e di vista. Si diplomò a Genova in agraria, nell’istituto Bernardo Marsano di Sant’Ilario ed infine tornò a Taranto.

Parigi e l’America

The Son Of The Sheik

Dopo qualche mese a Taranto partì in vacanza per Parigi. Qui si diede alla vita frivola, ben presto rimase senza denaro e fu costretto a chiedere alla famiglia del denaro per poter tornare a casa. Questa esperienza non fu poi così negativa, poiché affinò le sue doti di ballerino. Ritornato a Taranto decise di partire per l’America per avverare il suo sogno. Ad aumentare il fascino dell’America su Rodolfo contribuirono anche i racconti dei successi del musicista tarantino Domenico Savino che anni addietro, era partito per l’America. I Guglielmi conoscevano bene la famiglia Savino e la sorella di Domenico talvolta raccontava a Rodolfo della fama del fratello. Nel 1913 si imbarcò sul mercantile Cleveland e raggiunse New York il 23 dicembre dello stesso anno. Nuovamente Rodolfo rimase in breve tempo “al verde” e quindi iniziò ad intraprendere mestieri di fortuna come il cameriere e il giardiniere. Grazie all’amico Domenico Savino, che gli regalò un tight, si presentò al Night-Club Maxim dove riuscì a fare una buona impressione e venne immediatamente assunto come Taxi-dancer. Con le mance cospicue ricevute dalle signore riuscì a superare il periodo di crisi economica nel quale era incappato. Nel frattempo ebbe dapprima una relazione con la nota ballerina Bonnie Glass, che si era appena separata dal compagno Clifton Webb. Da questa “relazione” Rodolfo ebbe anche vantaggi economici, poiché fu ingaggiato dalla stessa per cinquanta dollari alla settimana. In seguito Valentino fece coppia con un’altra ballerina, Joan Sawyer, con la quale lavorò per sei mesi. Valentino dopo queste esperienze si trasferì sulla costa occidentale degli Stati Uniti, a San Francisco, dove venne ingaggiato da una compagnia teatrale di operetta. Qui incontrò Norman Kerry, vecchia conoscenza newyorkese che lo convinse a trasferirsi a Hollywood. Qui girò una serie di film di secondo piano da comparsa, prima di interpretare I quattro cavalieri dell’Apocalisse (The Four Horsemen of the Apocalypse, 1921) il film che gli diede il successo a lungo sognato.

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Al successo arriva anche e soprattutto grazie anche alla sua bellezza e al magnetismo che la sua figura sprigionava; fu forse uno dei primi sex symbol maschili portati alla ribalta dal cinema; divenne in breve – forse anche in conseguenza della sua morte precoce – un’icona destinata ad entrare nella memoria collettiva.Valentino (come lo chiamavano le sue fan in delirio) recitava e dettava la moda (gli abiti alla, i capelli alla, gli stivali alla Valentino, e soprattutto lo sguardo alla Valentino). Fu il primo “divo” – o meglio, “iperdivo” maschile del cinema degli albori. Altri suoi film importanti sono Lo sceicco (The Sheik, 1921), Sangue e arena (Blood and Sand, 1922), Aquila nera (The Eagle 1925) e Il figlio dello sceicco (The Son of the Sheik, 1926), in cui impersonava l’eroe romantico e mascalzone, che col suo fascino magnetico ipnotizzava l’attraente protagonista.

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Le donne

Rodolfo Valentino è – al pari di altre stelle del mondo della celluloide che verranno dopo di lui – una icona dello star system, un bene di patrimonio comune.
Si dice che il suo sguardo magnetico incantasse senza possibilità di scampo il pubblico, specialmente quello femminile, che per Valentino stravedeva. Subito dopo la morte della madre (1918) Valentino conobbe la sua prima moglie, Jean Acker, in occasione di una festa danzante organizzata dal suo amico Douglas Gerrard (direttore del Circolo Atletico di Los Angeles). Si sposarono il 5 novembre 1919. Dopo appena un mese i due però si separarono.

Rodolfo Valentino e Jean Acker.

Rodolfo Valentino e Jean Acker.

Grazie al film Camille Valentino incontrò Natacha Rambova che sarebbe diventata la sua seconda moglie. La Rambova fu molto importante sia per la sua vita sentimentale che per la sua carriera artistica. A Hollywood era molto apprezzata per gli scenari e i costumi che disegnava. La Rambova era molto ambiziosa e si indignava quando il marito veniva impiegato in ruoli di scarso valore qualitativo. Valentino sposò la Rambova, ma otto giorni dopo il matrimonio, fu arrestato con l’accusa di bigamia, per non aver rispettato una legge californiana che obbligava i divorzianti a non contrarre matrimonio prima di un anno dalla sentenza di divorzio. Un anno dopo i due si sposarono definitivamente. La delusione del film “The Young Rajah”, portò alla rottura definitiva di Valentino con la Paramount. Fu ingaggiato poi dalla United Artists che vietò per contratto alla Rambova di intervenire sulle scelte artistiche del marito. Anche per questo motivo i due si separarono.

Rodolfo Valentino e Natacha Rambova.

Rodolfo Valentino e Natacha Rambova.

Nell’ultimo periodo della sua vita Valentino ebbe una relazione con l’attrice Pola Negri. La sceneggiatrice June Mathis intuì per prima il fascino che Rodolfo Valentino esercitava sulle donne e fu, in sostanza, l’artefice del suo mito. La Metro le aveva affidato il compito di sceneggiare “I Quattro Cavalieri dell’Apocalisse” di Vicente Blasco Ibáñez, un romanzo di successo, considerato, tuttavia, poco adatto allo schermo, dal quale, contro ogni previsione, riuscì a trarre un’eccellente sceneggiatura. Richard Rowland, direttore dello Studio, decise allora di ricorrere al suo intuito per la scelta del regista e del protagonista maschile. June Mathis indicò Rex Ingram per la regia, e impose Rodolfo Valentino per il ruolo di Julio, malgrado le resistenze dello Metro, riluttante ad affidare il ruolo di protagonista a uno sconosciuto. Il 6 marzo 1921 il film uscì nelle sale di New York, riscuotendo un enorme successo. Rodolfo Valentino entrò a passo di tango nella storia del cinema mondiale e nell’immaginario femminile, consolidando il mito dell’amante latino, del cavaliere senza macchia e senza paura che muore giovane, come tragicamente accadde, a soli trentuno anni, all’apice di un successo per molti versi ancora insuperato. Nemmeno il genio dissacrante di Ken Russell (Valentino, 1977, interpretato da Rudolph Nureyev) riuscì a scalfire il suo mito.June Mathis contribuì alla sua folgorante e breve carriera, anche dopo il successo dei Quattro Cavalieri. Firmò, infatti, la sceneggiatura di “Camille” (La signora delle Camelie) dove Valentino interpretava il ruolo di Armand, al fianco di Alla Nazimova, regina della Metro e stella delle scene teatrali. Valentino, conscio del richiamo commerciale legato al asuo nome, decise, malgrado il diverso parere della Mathis, di firmare un contratto con la Famous Players-Lasky (futura Paramount) che gli proponeva un considerevole aumento retributivo per interpretare “Lo Sceicco”, un film che avrebbe immortalato l’immagine esotica dell’attore, connotandolo, tuttavia, in modo non sempre positivo. L’anno successivo sceneggiò “Sangue e Arena”, un altro romanzo di Vicente Blasco Ibáñez intriso d’amore, di fatalità e di morte. Il soggetto calzava molto bene con il temperamento di Valentino che riuscì a trasformarsi realisticamente nel torero Gallardo. Un’interpretazione che lo confermò attore di talento oltre che divo di successo, agevolato in questo dalla duttile regia di Fred Niblo che assecondò la sua recitazione.Dopo aver girato “L’Aquila”, nel 1925, diretto da Clarence Brown, considerata una delle sue migliori interpretazioni, Valentino ritornò ad interpretare lo “Sceicco”, il ruolo che tanto aveva contribuito alla sua immagine. Il figlio dello sceicco amplificato dalla sua scomparsa, a soli trentuno anni, all’apice del successo, diretto da George Fitzmaurice, con Vilma Banky come attrice protagonista, usci nelle sale il sei settembre 1926, pochi giorni dopo la morte del suo protagonista, scatenando scene d’isteria collettiva che non hanno più avuto uguali nella storia del cinema statunitense.

La fine

Nessun interprete maschile prima di lui era diventato così famoso a livello mondiale grazie alla settima arte. La sua stella era però destinata a non durare a lungo: si spense infatti all’età di trentuno anni al Polyclinic Hospital di New York dove era stato ricoverato per un malore dovuto ad un’ulcera gastrica di cui soffriva e ad una infiammazione dell’appendice; era destinato a non percorrere alcun “viale del tramonto”, fu colpito da un attacco di peritonite. L’intervento chirurgico a cui venne sottoposto si rivelò inutile ed alle 12:10 del 23 agosto, un lunedì, Valentino morì, senza nemmeno poter vedere sugli schermi il suo ultimo film (Il figlio dello Sceicco). Scene di isteria e fanatismo, oltre che una trentina di suicidi – non si sa quanto legati alla sua morte – si registrarono nel giorno dei suoi funerali, a New York. Nello stesso giorno furono organizzati due cortei funebri, uno appunto a New York, l’altro a Hollywood; quando, il 30 agosto, il corteo funebre attraversò un quartiere di New York, furono decine di migliaia le persone che vi parteciparono. C’era anche una corona con nastro che si diceva inviata da Mussolini e quindici giovanotti in camicia nera, ma un giornale scoprì che la corona era una trovata del capoufficio stampa delle pompe funebri, il quale aveva anche provveduto a mascherare almeno due dei quindici giovanotti. Le sue spoglie furono sepolte nel Mausoleo della Cattedrale all’Hollywood Memorial Park (ora Hollywood Forever Cemetery) di Los Angeles, California. Negli anni a seguire, una misteriosa donna, velata di nero, continuò a portare dei fiori sulla sua tomba il giorno dell’anniversario della morte dell’attore. Nonostante in molte siano professate come la “Donna in Nero”, nessuna ha poi saputo comprovare la veridicità delle sue parole e questa figura è tuttora avvolta nel mistero. Mistero che ha lanciato una sorta di tradizione, ancora viva adesso, che vede parecchie figure femminili velate di nero portare fiori sulla tomba di Valentino.

Nella sua città natale sorsero poi il Museo Rodolfo Valentino e (posta al termine della passeggiata, a lui dedicata, lungo un ramo della Gravina, nel pieno centro cittadino) una scultura (1961) in maiolica richiama la sua interpretazione nel film Il figlio dello sceicco, a tinte molto forti, dello scultore Gheno. Sul prospetto della casa natale è ricordato mediante un targa bronzea donata da un suo fan club di Cincinnati, Ohio.

Castellaneta, Taranto. Monumento a Rodolfo Valentino.

Castellaneta, Taranto. Monumento a Rodolfo Valentino.

 

 

Targa bronzea affissa sui muri della casa natale di Rodolfo Valentino.

Targa bronzea affissa sui muri della casa natale di Rodolfo Valentino.

In occasione del Centenario della nascita, nel 1995, Castellaneta gli ha dedicato una serie di manifestazioni culturali ed eventi, compreso un annullo postale, sotto la direzione artistica dell’attore pugliese Michele Placido. Per l’occasione era stata preparata una produzione originale, con musica dal vivo composta e diretta dal compositore jazz Bruno Tommaso e l’intervento dell’orchestra da lui messa insieme per quella particolare data. Per un problema tecnico dell’organizzazione l’evento non poté essere portato a termine. Si sarebbe trattato della sonorizzazione dal vivo di due film, tra cui “Il figlio dello sceicco”, con musiche originali composte proprio per celebrare la ricorrenza.Alla sua vita è ispirata la commedia musicale di Garinei e Giovannini Ciao Rudy (1966), interpretata da Marcello Mastroianni e musicata da Armando Trovajoli.

Curiosità

Uno degli aspetti meno conosciuti di Valentino è forse la sua grande cultura. La sua biblioteca era piena di libri, esemplari unici e opere d’arte in numerose lingue. Durante uno dei suoi viaggi in Italia è entrato più volte in contatto con i più importanti letterati del momento (D’Annunzio su tutti) e ha composto diverse poesie. Eccone una:

Ha incrociato il sentiero
Del mio sogno di te
Una sottile reticola grigia,
Così tenue il suo riflesso,
Quasi invisibile
Pure ha ostruito
Il mio Cammino

Come freddo bastione di puro granito
Mi ha intrappolato, 
Ché un acciaio cridele,
Era nel filo
Della serica tela del dubbio.

Fonte biografia: Wikipedia

 

 

Anniversario della nascita di Debussy

Oggi non parliamo di letteratura ma di musica, la quale essendo comunque arte ben si adatta agli argomenti di questo blog.

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Claude Debussy

 

Claude Achille Debussy (Saint-Germain-en-Laye, 1862 – Parigi, 1918), fu un compositore francese. Iniziò gli studi musicali al Conservatorio di Parigi all’età di dieci anni. Compì numerosi viaggi in tutta Europa e fu a Mosca nel 1879 come musicista privato. Durante il soggiorno in Russia, Debussy entrò in contatto con la musica di compositori quali Čajkovskij, Aleksandr Borodin, Milij Balakirev e Modest Musorgskij e con le tradizioni popolari.

Nel 1884 compose la cantata L’enfant prodigue. L’opera gli fece vincere il più importante riconoscimento culturale francese per giovani artisti, il Prix de Rome, che gli valse un soggiorno a Roma di due anni, durante il quale continuò a presentare regolarmente (ma senza successo) nuovi lavori alla commissione del premio. Tra questi, la suite sinfonica Printemps e una cantata, La demoiselle élue, composta su una poesia di Dante Gabriel Rossetti.

Nell’ultimo decennio del secolo, la fama di Debussy cominciò a consolidarsi. Tra le opere di questi anni spiccano il Quartetto per archi in sol minore (1893), e il Prélude à l’après-midi d’un faune (1894), basato sul poemetto di Stéphane Mallarmé.

L’opera Pelléas et Mélisande, dal lavoro teatrale omonimo di Maurice Maeterlinck, andata in scena nel 1902, consacrò definitivamente la fama del compositore francese. Dal 1902 al 1910 Debussy scrisse soprattutto per il pianoforte con uno stile che, rifiutando l’approccio tradizionale di tipo percussivo a questo strumento, ne sottolineava le capacità delicatamente espressive. Tra le importanti composizioni del periodo sono Estampes (1903), L’Isle joyeuse (1904), Images (due serie, 1905 e 1907), e numerosi preludi.

Nel 1909 Debussy scoprì di essere ammalato di un tumore che, nove anni dopo, lo portò alla morte. La maggior parte della produzione di questo ultimo periodo comprende musica da camera, con un gruppo straordinario di sonate (per violino e pianoforte, per violoncello e pianoforte, e per flauto, viola e arpa) in cui l’essenza del suo stile viene distillato in rarefatte strutture di gusto quasi neoclassico.

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Un precursore dello stile moderno

 

La musica dello stile maturo di Debussy anticipò molta musica moderna e fece di lui uno dei più importanti compositori a cavallo dei due secoli. Le sue innovazioni furono di tipo soprattutto armonico. Pur non essendo stato lui a ideare la scala di toni interi, fu il primo a utilizzarla con successo. Il suo trattamento degli accordi è rivoluzionario per i tempi: essi vengono disposti in modo da indebolire, anziché rafforzare, la percezione di una specifica tonalità, e vengono usati per il loro individuale colore ed effetto, piuttosto che funzionalmente all’interno di una progressione tradizionale. L’assenza di una tonalità fissa fornisce alla sua musica un carattere vago e sfumato che fece parlare di impressionismo musicale, in analogia con l’effetto pittorico dell’omonima corrente nelle arti visive. Debussy non creò una scuola compositiva, ma liberò la musica dalle limitazioni dell’armonia tradizionale; inoltre, la qualità delle sue composizioni sollecitò altri compositori a sperimentare nuove idee e tecniche.

Tra i numerosi lavori di rilievo di Debussy si ricordano inoltre i Cinq poèmes de Baudelaire (1887-1889) per canto e pianoforte, il poema sinfonico La Mer (1903-1905), il balletto Jeux (1912), le liriche per canto e pianoforte Trois ballades de F.Villon (1910) e Trois poèmes de Stéphane Mallarmé (1913), e la composizione per pianoforte En blanc et noir (1915).

Nobel italiani per la Letteratura: Pirandello

Eccoci al terzo appuntamento della rubrica Nobel italiani per la Letteratura: parliamo di Luigi Pirandello, vincitore del premio nel 1934.

La fantasia abbellisce gli oggetti cingendoli e quasi irraggiandoli d’immagini care. Nell’oggetto amiamo quel che vi mettiamo di noi.

Luigi Pirandello

 

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Luigi Pirandello (Girgenti, oggi Agrigento 1867 – Roma 1936), scrittore italiano, uno dei massimi drammaturghi del Novecento. Anche se la sua fortuna critica è sempre stata molto controversa (soprattutto in Italia), Pirandello è uno dei pochi scrittori italiani del XX secolo che abbia saputo conquistarsi una fama internazionale: non tanto per il premio Nobel (1934), quanto grazie allo straordinario numero di compagnie che ne mettono in scena i drammi in molti paesi del mondo.

 

Le prime opere e i romanzi

 

Luigi Pirandello nel 1892.

Luigi Pirandello nel 1892.

Dopo aver esordito come poeta con Mal giocondo (1889), conseguì la laurea in filologia romanza all’Università di Bonn. In seguito si dedicò all’insegnamento della letteratura italiana, pubblicando nel 1894 le prime novelle, Amori senza amore. Nello stesso anno sposò Antonietta Portulano, che gli avrebbe dato tre figli. Nel 1901 pubblicò il suo primo romanzo, L’esclusa, che segna il passaggio dal modello narrativo verista allo stile ‘umoristico’, cioè a una caratteristica mescolanza di tragico e comico, che da quel momento avrebbe caratterizzato la produzione pirandelliana.

Maria Antonietta Portolano.

Maria Antonietta Portulano.

Nel 1903 lo scrittore si trovò improvvisamente in rovina e con la moglie in preda alla pazzia; risale a quest’epoca la stesura della sua migliore opera narrativa, il romanzo Il fu Mattia Pascal (1904). A questo seguirono altri romanzi, tra i quali spiccano I vecchi e i giovani (1913) e Uno, nessuno e centomila (1925-1926), che rappresenta per molti aspetti una specie di consuntivo ideologico finale.

Di ciò che posso essere io per me, non solo non potete saper nulla voi, ma nulla neppure io stesso.

Il teatro e le novelle

 

Soltanto intorno al 1910 Pirandello si decise ad affrontare anche le scene, pur avendo scritto fin dall’adolescenza testi teatrali. Dopo aver ottenuto un buon successo con Pensaci, Giacomino! e Liolà (entrambi del 1916), egli precisò i nuclei fondamentali della propria ispirazione con Così è (se vi pare) (1917) e Il giuoco delle parti (1918). L’anno decisivo per la notorietà pirandelliana fu tuttavia il 1921, quando, per la sua audacia sperimentale, il dramma Sei personaggi in cerca d’autore prima venne fischiato a Roma e poco dopo ottenne a Milano un clamoroso successo, che proseguì subito dopo in America e che continua tuttora. A questo seguì il successo della tragedia Enrico IV (1922), che consacrò definitivamente Pirandello fra i massimi drammaturghi mondiali.

Fra le numerosissime opere teatrali dello scrittore agrigentino è necessario ricordare la trilogia del ‘teatro nel teatro’, composta, oltre che da Sei personaggi in cerca d’autore, da Ciascuno a suo modo (1924) e da Questa sera si recita a soggetto (1930). La produzione novellistica pirandelliana, nucleo generatore dei suoi drammi, è raccolta nelle Novelle per un anno (1922-1937).

Luigi Pirandello con la famiglia.

Luigi Pirandello con la famiglia.

 

 

 

 

La tragedia borghese

 

Pirandello è probabilmente l’autore che meglio rappresenta il periodo che va dalla crisi successiva all’unità d’Italia all’avvento del fascismo. Pochi come lui ebbero coscienza dello scacco subito dagli ideali del Risorgimento e dei complessi cambiamenti in atto nella società italiana. Sul piano letterario il suo punto di partenza fu, come per gran parte degli autori nati nella seconda metà dell’Ottocento, il naturalismo. Fin dal primo momento però l’oggetto privilegiato, o pressoché esclusivo, delle rappresentazioni pirandelliane non fu il mondo popolare bensì la condizione della piccola borghesia. Da questa prospettiva lo scrittore seppe sviluppare una corrosiva critica di costume, cogliendo in profondità la crisi delle strutture tradizionali della famiglia patriarcale. Poiché però anch’egli apparteneva alla piccola borghesia, finì per assolutizzarne i dubbi e le sofferenze, che rappresentò come il segno di una condizione eterna di tutti gli esseri umani.

Firma di Luigi Pirandello.

Firma di Luigi Pirandello.

D’altro canto, fu proprio la direzione esistenziale e metafisica assunta dalla sua ricerca a portarlo molto vicino alle posizioni di alcuni dei più grandi scrittori europei del XX secolo. Paragonato, volta a volta, a Kafka o a Camus, a Sartre o ai drammaturghi del teatro dell’assurdo (Beckett, Ionesco), Pirandello è stato uno dei pochissimi scrittori italiani del Novecento capaci di raggiungere una fama mondiale: ancora oggi i suoi drammi sono, dopo quelli di Shakespeare, i più rappresentati in tutto il mondo.

Mangia il Governo, mangia la Provincia; mangia il Comune e il capo e il sottocapo e il direttore e l’ingegnere e il sorvegliante… Che può avanzare per chi sta sotto terra e sotto di tutti e deve portar tutti sulle spalle e resta schiacciato?

Il mondo dell’apparenza

 

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Al centro della poetica pirandelliana, delineata nel saggio l’Umorismo (1908), sta il contrasto tra apparenza e sostanza. La critica delle illusioni va di pari passo con una drastica sfiducia nella possibilità di conoscere la realtà: qualsiasi rappresentazione del mondo si rivela inadeguata all’inattingibile verità della vita, percepita come un flusso continuo, caotico e inarrestabile. In un mondo dominato dal caso e privo di senso, Pirandello conferisce alla letteratura il compito paradossale di mostrare l’inadeguatezza degli strumenti logico-linguistici di interpretazione della realtà. L’arte, espressione del dubbio sistematico, diventa così coscienza critica, dovere morale dello scrittore contro le mistificazioni e i falsi miti costruiti dagli scrittori del decadentismo, a cominciare da Gabriele d’Annunzio.

L’umorismo è un fenomeno di sdoppiamento nell’atto della concezione; è come un’erma bifronte, che ride per una faccia del pianto della faccia opposta.

Curiosità

 

  • A Luigi Pirandello è stato dedicato l’asteroide 12369 Pirandello. Si tratta di un asteroide della fascia principale. Scoperto nel 1994, presenta un’orbita caratterizzata da un semiasse maggiore pari a 2,2928839 UA e da un’eccentricità di 0,0883439, inclinata di 4,96336° rispetto all’eclittica.

  • Luigi Pirandello frequentò Arsoli per molti anni soprattutto durante i periodi estivi dove amava dissetarsi con una gassosa nell’allora bar Altieri in piazza Valeria. Il suo amore per il paese si ritrova nella definizione che egli stesso diede ad Arsoli chiamandola La piccola Parigi.

Approfondimenti

 

Leonardo Sciascia parla di Luigi Pirandello.

Nel seguente brano, che riproduce il discorso commemorativo da lui pronunciato a Palermo nel 1986 per il cinquantenario della morte di Luigi Pirandello, Leonardo Sciascia individua tre punti da cui partire per una lettura critica corretta dell’opera del grande drammaturgo e narratore suo conterraneo: la Sicilia, ossia la cultura e la tradizione da cui Pirandello prese le mosse; la religione dello scrivere invece di vivere – Pirandello diceva “la vita o la si vive o la si scrive” – e il rapporto dello scrittore con la cultura francese, in particolare con Montaigne e Pascal, che fu più importante di quello, generalmente riconosciuto, con la cultura tedesca.

Tre scrittori hanno attraversato questo secolo dando nome – il loro nome – alle nostre inquietudini, ai nostri smarrimenti, alle nostre paure e al tempo stesso, per quella catarsi o misura di contemplazione che è nelle rivelazioni dell’arte, permettendoci di viverle con temperata ansietà e disperazione: e uso questa parola – temperata – nel senso musicologico dell’accordare, dell’accordarsi, dell’accordarci; e del farsi ogni nota più pura, più cristallina, più vibrante. E sono, questi tre scrittori, Pirandello, Kafka, Borges.
In quanto al quarto cui certamente alcuni di voi stanno pensando, non è stato dimenticato: semplicemente non c’entra. O c’entra, in disparte, in quel che ha di diverso o gli manca, per aiutarci a spiegare l’elezione dei tre che abbiamo nominato: la diversa elezione, il diverso valore.
Diceva Savinio che Proust è scrittore dalla frase lunga e dal pensiero corto: e si può anche pretendere come una battuta nata dall’insofferenza e faziosità che uno scrittore legittimamente sente – e non può non sentire – nei riguardi di certi altri scrittori, e specialmente di quelli più artatamente emergenti e gridati.
Sappiamo bene che si può non badare al “pensiero corto” di Proust, presi dagli incanti della sua “frase lunga”; ma quando Savinio, alla voce Proust della Nuova enciclopedia, ci dà spiegazione della battuta che già avevamo incontrato nei Souvenirs, ecco che ci facciamo più attenti e consenzienti.
Il punto da cui parte l’incrinatura, la linea di separazione – tra Pirandello, Kafka e Borges da un lato, Proust dall’altro – è proprio quello indicato da Savinio: la mente, l’intelligenza, il pensiero: che in Proust si restringono e devolvono ad una sottospecie o sovraspecie in estinzione della società umana non solo, ma della società francese per di più – o per di meno; il che fa della Recherche – con tutta la carica moralistica che le si voglia attribuire – la grande e affascinante cronaca di una particolare e particolareggiata decadenza.
E si capisce che non intendeva Savinio, né noi intendiamo, parlare del pensiero sistematico e, per così dire, tecnico dei filosofi forti o deboli che siano; ma di un pensiero, piuttosto, che crediamo di poter definire con l’epigrafe che Stendhal pone al capitolo tredicesimo di Il rosso e il nero e che non attendibilmente – come quasi sempre capita con Stendhal – attribuisce all’abate di Saint-Réal: “Un romanzo: ecco uno specchio portato lungo una strada”.
E chi conosce Stendhal sa bene quanto questa battuta, che senz’altro possiamo dir sua, sia da collocare a ingente distanza da ogni intenzione o presentimento verista.
La strada come metafora della vita; e lo specchio come metafora della mente. Nulla di più lontano dalle cose come sono – ammesso che le cose siano – di uno specchio: e non per nulla la parola speculare si dirama nel significato che viene da specchio e nel significato che viene dal pensare.
E si noti, incidentalmente, come in questa epigrafe ci sia un vago ma irresistibile richiamo, per noi, alla macchina da presa; e qui ed ora, quasi come ad uno sviluppo del tema, nell’associarsi del romanzo al mezzo cinematografico, al Si gira… di Pirandello, poi intitolato Quaderni di Serafino Gubbio operatore, che tra le sue opere è forse la più ingiustamente trascurata.
Dunque: Pirandello, Kafka, Borges. E come Bertrand Russel diceva che tutta la filosofia occidentale non è che un’annotazione in margine a Platone, con eguale carica di spregiudicatezza, di paradosso, di estremismo, mi pare di poter dire che tutta la letteratura di questo nostro secolo è un rameggiare, uno svolgersi, un respirare (e anche un dibattersi) da questi tre scrittori.
Non c’è altro scrittore in questi nostri anni che, leggendo un suo libro – romanzo, racconti, poesie, testimonianze di vita e d’arte – ad un certo punto, e a più di un punto, non ci costringa a levar gli occhi dalla pagina per farci intenti a cogliere la provenienza e il timbro dell’eco che in quella pagina, appena avvertibile o chiaramente risonante, abbiamo sentito. Ed è l’eco di Pirandello o di Kafka o di Borges – o, in questi ultimi anni, e in certi casi, dell’intramarsi di tutti e tre.
A somiglianza di quelli astronomici, la letteratura e le arti hanno dei sistemi: ma con tutto ciò – si capisce – di cui la fluida presenza del tempo è condizione. Le stelle fisse, i pianeti, i satelliti; e con passaggi di comete e sfrecciare di meteore e meteoriti. E non che in tali sistemi si realizzino, nel volgersi e ruotare di quelli che possiamo dire i corpi minori, mimesi spurie e inautentiche (che pure vi sono, ma molto precariamente ammiccanti): vi si realizza, piuttosto, attraverso particolari intuizioni e riflessioni, in rappresentazioni di più o meno ingente originalità e vigore, il comune sentimento del tempo, dei problemi che la vita, la storia, la società pongono a quel momento e sempre in uno – indissolubilmente – al grande, immenso e quanto l’uomo eterno, problema dell’esistenza, dell’esistere. Il che può anche configurarsi nelle forme che approssimativamente possiamo dire del gioco, come a volte anche a Pirandello accade e a Borges peculiarmente. Ma non inganni il configurarsi in gioco: anche se come su una scacchiera lo scrittore affronta sempre la sua partita col mondo, con la vita, col mistero, con l’assurdo, col dolore.
A questa specie di dispositivo so bene che occorrerebbe una lunga motivazione, suscettibile – so altrettanto bene – di discussione o disapprovazione. Ma io spero che nessuno si aspetti da me – conoscendo o meno quello che finora su Pirandello ho scritto – una disamina ordinata e, come oggi si suole dire, esaustiva dell’opera. Ci vorrebbe altro; e ci vuol altro. Del resto in questo cinquantenario della morte, si sta tanto parlando di Pirandello in quelle sedi che istituzionalmente si ritengono legittimate a parlarne, che è da sperare ne venga fuori una somma finalmente attendibile; ma non priva, questa speranza, della preoccupazione che ne venga anche una saturazione e insofferenza qual quelle che si esprimono nel detto del mettiamoci una pietra sopra – o tutta una grave mora di pietre. A volte le celebrazioni, e particolarmente da noi, inconsapevolmente nascondono il desiderio e l’esortazione a dare pietre a sotterrarli ancora, gli scrittori, gli artisti, gli uomini rappresentativi di cui ufficialmente, alle scadenze temporali, viene conclamata la grandezza sempre in atto, sempre attuale.
Non dunque un discorso esegetico, vuole essere il mio, ma soltanto una breve e quasi assolutamente personale memoria di un soggiorno nell’opera pirandelliana che quasi coincide con quello che lo stesso Pirandello chiamava “l’involontario soggiorno sulla terra”, il mio involontario soggiorno sulla terra. Sui libri di Pirandello io ho passato molte ore della mia vita; e moltissime a ripensarli, a riviverli. Lo scarto tra i suoi libri e la vita è stato per me sempre minimo: e direi quasi soltanto per il fatto che i libri sono materialmente, fisicamente libri. È un paradosso, lo so: e forse nessuna poetica, nessuna estetica, potrebbe accoglierlo; ma è il miglior grado di approssimazione per esprimere quello che sento rispetto a questo mio strettamente conterraneo scrittore.
Tutto quello che ho tentato di dire, tutto quello che ho detto, è stato sempre, per me, anche un discorso su Pirandello: scontrosamente, e magari con un certo rancore, prima; cordialmente e serenamente poi.
C’era dapprima, a darmi volontà di allontanarmene e di essergli ostile, il suo fascismo: negli anni in cui l’antifascismo più urgeva ed era necessario a coloro che, come me, sotto il fascismo avevano passato i primi vent’anni della loro vita; ma c’era, soprattutto, il fatto, che sentivo come una costrizione, come un’imposizione, di non poter vedere la vita – nell’immediatezza del luogo e del tempo in cui la vivevo e nel conseguente dilagare in più vasta e dolorosa meditazione – di non poter vedere la vita altrimenti di come lui la vedeva. Sicché posso dire – come altrove ho già detto – che il mio rapporto con l’opera pirandelliana ha una qualche somiglianza col rapporto col padre: che si sconta dapprima sentendolo come ingiusta e ossessiva autorità e repressione, poi sollevandoci alla ribellione e al rifiuto; e infine liberamente e tranquillamente vagliandolo e accettandolo, più nel riscontro delle somiglianze che in quello, tipicamente adolescenziale, delle diversità.
Ho detto, e ribadisco, dell’immediatezza con cui l’opera di Pirandello, per il luogo ed il tempo in cui mi sono trovato a nascere e a vivere, si dispiegò in tutta la sua verità e profondità e sofferenza. Pirandello è nato più di mezzo secolo prima che io nascessi: ma il modo di essere, la condizione umana, la situazione economica e sociale della provincia di Girgenti non erano allora molto diverse, e si potrebbe anche dire per nulla, di quelle che mi si rivelarono appena in grado di discernerle, di coglierle, di farmene coscienza.
Pirandello ha operato per me una specie di catalizzazione, di precipitazione: la realtà mi si è fatta più reale, la verità più vera. E s’intende che questa parola – verità – altra traduzione ed esplicazione non consente, in Pirandello, che questa: la verità della “trappola”, della “pena di vivere così” – o quella, più umile e grottesca, per cui Tararà, dicendo la sua, si prende una condanna a tredici anni di reclusione, invece dell’assoluzione che avrebbe avuto mentendo.
Da ciò è venuta l’affermazione e investigazione che vado facendo da anni sul Pirandello “siciliano” e cui anche qui, lasciando ora l’autobiografia, voglio approdare. Savinio – ancora Savinio – ha scritto una volta che Pirandello aveva avuto la sfortuna che sulla sua fama si era per lo più pronunciata gente inattendibile. Grandissima la fama, ma per lo meno inattendibili le voci che l’hanno proclamata e il modo. E mi sento in dovere di ripetere il perloppiù di Savinio non dimenticando, e anzi ricordando, le attendibili pagine su Pirandello di Federico Tozzi, di Massimo Bontempelli, di Giacomo Debenedetti, dello stesso Savinio, di Gaspare Giudice, di Georges Piroué, dei due altri critici francesi – Paul Renucci e André Bouissy – che hanno curato i due volumi del teatro pubblicati nella biblioteca della Pléiade.
Aggiungerei anche, meno per lo svolgimento del discorso critico e più per le suggestioni e gli incentivi che ne vengono, le pagine sul Pirandello “religioso” del palermitano Pietro Mignosi, che significativamente furono dallo stesso Pirandello apprezzate e la cui istanza si può riassumere nell’affermazione dello scrittore, in una lettera a Silvio D’Amico, di essere “religiosissimo” e di sentire e di pensare Dio in tutto quel che pensava e sentiva.
Comunque, per schematicamente abbreviare, i punti da cui partire per un più “attendibile “ discorso su Pirandello, per una più libera e acuta lettura dell’opera sua, a me pare siano questi: 1) la Sicilia: non solo come “luogo delle metamorfosi” delle creature in personaggi, dei personaggi in creature, della vita nel teatro e del teatro nella vita – un luogo, insomma, in cui più evidente, concitato e violento si fa “el gran teatro del mundo”; ma il luogo, anche, di una cultura e di una tradizione da cui Pirandello decolla verso spazi vertiginosi (e qui bisogna tenere un certo conto della sua iniziale e poi alquanto persistente affinità al mondo realistico, fiabesco e anche “spiritistico” di Luigi Capuana); 2) la “religiosità”: che, si capisce, non ha nulla a che fare con le religioni rivelate, con la chiesa e con le chiese, anche se molto ha a che fare con l’essenza evangelica del Cristianesimo, ma che soprattutto si riconosce in quella che tout court possiamo dire la sua religione dello scrivere, dello scrivere come vivere, dello scrivere invece di vivere (“la vita” diceva “o la si vive o la si scrive”: e nella sua scelta di scriverla c’è evidentemente un religioso eroismo); 3) il suo rapporto con Montaigne, mai finora scrutato, e l’antagonistica attrattiva che certamente Pascal esercitò su di lui: e ci vorrebbe una ricerca da elaboratore elettronico – ma meglio se fatta da mente umana – per estrarre dall’opera di Pirandello i momenti diciamo pascaliani, di sentimento e sgomento cosmico particolarmente. E avendo fatto questi due nomi – Montaigne e Pascal, grandi pilastri nell’edificio della letteratura francese – ne discende in definitiva la necessità di esaminare e puntualizzare il rapporto di Pirandello con quella cultura: rapporto che finirà col rivelarsi molto più importante ed effettuale di quello, che è ormai luogo comune riconoscergli, con la cultura tedesca. Ed anche questo punto, cui ho voluto dare rilevanza a sé, in verità si appartiene al Pirandello “siciliano”, poiché il rapporto con la Francia è un dato inalienabile della cultura siciliana, e di grande intensità particolarmente lo era negli anni formativi di Pirandello.
E voglio finire con un aneddoto che riguarda il Pirandello siciliano e che, nella dilagante stupidità di oggi, che tende a relegare la Sicilia in una particolare etnia (si ha il pudore di non usare la parola “razza”: ma soltanto di non usarla), assume un grande significato. Nel 1932 Emilio Cecchi, che dirigeva la Cines, comunica a Pirandello l’intenzione di trarre un film dalla novella Lontano. Ma ha uno scrupolo: “nella novella come sta scritta, il marinaio norvegese si sente irresistibilmente attratto da una vita più vasta, e dai ricordi della patria, per il fatto di trovarsi legato, con il matrimonio, ad un ambiente meno che meschino; in fondo è in lui l’insofferenza dell’uomo appartenente a civiltà più energiche e libere, naufragato in un’isola abitata da gente ristretta, fra la quale egli sente mancarsi il fiato”.
Cecchi, scrittore che tuttora amo, era affetto da una invincibile idiosincrasia nei riguardi della Sicilia, dei siciliani: e la si può più immediatamente riscontrare nei suoi Taccuini, oltre che in questa sua lettura della novella Lontano. La novella non sta scritta come lui la leggeva; e Pirandello infatti così risponde: “Caro Cecchi, il contrasto non è tra due civiltà; ma tra due vite naturalmente diverse, quella di un uomo del Nord e quella di una donna del Sud; e il dramma che ne nasce, il dramma di restar “lontano” tra i vicini più vicini: la propria donna, il proprio figlio. Non c’è dunque da farsi scrupoli sulla natura di quelli a cui Lei mi accenna. Tutt’altro! Non era, né poteva essere nelle mie intenzioni di rappresentar barbara o di civiltà inferiore la Sicilia…”.
Naturalmente, il film non si fece. Ma queste parole di Pirandello restano, ci restano.

 

 

Leonardo Sciascia, Pirandello e la Sicilia, Adelphi, Milano 1996.

 

 
Fonti: Encarta, Wikipedia.

Nobel italiani per la Letteratura: Grazia Deledda

Eccomi qui oggi con il secondo appuntamento della rubrica Nobel italiani per la Letteratura. Parliamo dell’unica donna italiana insignita finora del premio.

Se vostro figlio vuole fare lo scrittore o il poeta sconsigliatelo fermamente. Se continua minacciatelo di diseredarlo. Oltre queste prove, se resiste, cominciate a ringraziare Dio di avervi dato un figlio ispirato, diverso dagli altri.

Grazia Deledda

 

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Grazia Deledda (Nuoro 1871 – Roma 1936) fu una scrittrice italiana, premio Nobel per la letteratura nel 1926. Autodidatta, esordì con racconti d’amore ambientati nella natia Sardegna, pubblicati sulla rivista femminile “Ultima moda”, che causarono scandalo e dure reazioni per le vicende a tinte forti; molte delle novelle furono raccolte in Racconti sardi (1894). Si rivolse poi al romanzo, dando alle stampe, nel 1892, Fior di Sardegna e, nel 1895, Anime oneste; Romanzo famigliare, con una prefazione di Ruggero Bonghi, che ne lodò il contenuto morale.

Con Elias Portolu (1903), storia dell’amore di un ex detenuto per la cognata, Grazia Deledda creò un primo capolavoro, nel quale il tema del conflitto fra peccato e innocenza si dipana sullo sfondo dell’aspro paesaggio sardo. Seguirono altri romanzi, tra i quali si ricordano L’edera (1908) e Nel deserto (1911).

Canne al vento (1913), forse il suo romanzo più noto, denuncia l’ineluttabile fragilità dell’uomo travolto da una sorte cieca e spietata, mentre La madre (1920) scandaglia la relazione fra un sacerdote e sua madre. Già Cenere (1904), da cui fu tratto nel 1916 un film interpretato da Eleonora Duse, aveva affrontato il tema di un rapporto filiale. Il paese del vento (1931) e L’argine (1934) mescolano immaginazione e autobiografia. Cosima (1937) e Il cedro del Libano (1939) furono pubblicati postumi. Scrisse anche due testi teatrali, L’edera (1912), in collaborazione con Camillo Antona Traversi, e La grazia (1921).

Possibile che non si possa vivere senza far male agli innocenti?

La poetica

 

Nelle opere di Grazia Deledda predominano i sentimenti forti dell’amore e del dolore, mentre una tematica ricorrente è l’amara consapevolezza dell’ineluttabilità del destino. Una straordinaria consonanza fra personaggi e luoghi, fra lo stato d’animo dei protagonisti e la terra sarda, presentata in veste mitica, è un altro tratto distintivo della sua narrativa, che è stata accostata talora al verismo e talora al decadentismo, ma in realtà sfugge a una catalogazione precisa e merita un posto a sé nella nostra letteratura.

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Grazia Deledda all’assegnazione del Nobel.

 

Mutiamo tutti, da un giorno all’altro, per lente e inconsapevoli evoluzioni, vinti da quella legge ineluttabile del tempo che oggi finisce di cancellare ciò che ieri aveva scritto nelle misteriose tavole del cuore umano.

 

Cronologia delle opere

 

ANNO TITOLO GENERE
1892 Fior di Sardegna Romanzo
1894 Racconti sardi Volume di racconti
1895 Anime oneste
Tradizioni popolari di Nuoro in Sardegna
Romanzo
Raccolta di tradizioni folcloriche sarde
1896 La via del mare Romanzo
1897 Il tesoro Romanzo
1899 Le tentazioni Volume di racconti
1900 Il vecchio della montagna Romanzo
1902 Dopo il divorzio Romanzo
1903 Elias Portolu Romanzo
1904 Cenere Romanzo
1905 Nostalgie
Il giuoco della vita
Romanzo
Volume di racconti
1908 L’edera Romanzo
1910 Il nostro padrone Romanzo
1911 Nel deserto Romanzo
1912 Colombi e sparvieri
L’edera

Chiaroscuro

Romanzo
Opera teatrale, in collaborazione con Camillo Antona Traversi
Volume di racconti
1913 Canne al vento Romanzo
1914 Le colpe altrui Romanzo
1915 Marianna Sirca

Il fanciullo nascosto

Romanzo pubblicato a puntate su ‘Lettura’
Volume di racconti
1918 L’incendio nell’oliveto Romanzo
1919 Il ritorno del figlio
La bambina rubata
Volume di racconti
Volume di racconti
1920 La madre Romanzo
1921 La grazia

Il segreto dell’uomo solitario
Cattive compagnie

Libretto di un’opera musicata da Vincenzo Michetti
Romanzo
Volume di racconti
1922 Il Dio dei viventi Romanzo
1923 Il flauto nel bosco Volume di racconti
1924 La danza della collana Romanzo
1925 La fuga in Egitto Romanzo
1926 Il sigillo d’amore Volume di racconti
1927 Annalena Bilsini Romanzo
1930 La casa del poeta Volume di racconti
1931 Il paese del vento Romanzo
1932 La vigna sul mare Volume di racconti
1933 Sole d’estate Volume di racconti
1934 L’argine Romanzo
1936 La chiesa della solitudine Romanzo
1937 Cosima Romanzo pubblicato postumo
1939 Il cedro del Libano Volume di racconti pubblicato postumo
 
 
 

 

Canne al vento, incipit

 

Tutto il giorno Efix, il servo delle dame Pintor, aveva lavorato a rinforzare l’argine primitivo da lui stesso costruito un po’ per volta a furia d’anni e di fatica, giù in fondo al poderetto lungo il fiume: e al cader della sera contemplava la sua opera dall’alto, seduto davanti alla capanna sotto il ciglione glauco di canne a mezza costa sulla bianca “Collina dei Colombi”.
Eccolo tutto ai suoi piedi, silenzioso e qua e là scintillante d’acque nel crepuscolo, il poderetto che Efix considerava più suo che delle sue padrone: trent’anni di possesso e di lavoro lo han fatto ben suo, e le siepi di fichi d’India che lo chiudono dall’alto in basso come due muri grigi serpeggianti di scaglione in scaglione dalla collina al fiume, gli sembrano i confini del mondo.

Cenere, incipit

 

Cadeva la notte di San Giovanni. Olì uscì dalla cantoniera biancheggiante sull’orlo dello stradale che da Nuoro conduce a Mamojada, e s’avviò pei campi. Era una ragazza quindicenne, alta e bella, con due grandi occhi felini, glauchi e un po’ obliqui, e la bocca voluttuosa il cui labbro inferiore, spaccato nel mezzo, pareva composto da due ciliegie. Dalla cuffietta rossa, legata sotto il mento sporgente, uscivano due bende di lucidi capelli neri attortigliati intorno alle orecchie: questa acconciatura ed il costume pittoresco, dalla sottana rossa e il corsettino di broccato che sosteneva il seno con due punte ricurve, davano alla fanciulla una grazia orientale. Fra le dita cerchiate di anellini di metallo, Olì recava striscie di scarlatto e nastri coi quali voleva segnare i fiori di San Giovanni, cioè i cespugli di verbasco, di timo e d’asfodelo da cogliere l’indomani all’alba per farne medicinali ed amuleti.

Fonte: Encarta

 

 

Dal sito Liber Liber è possibile scaricare gratuitamente gli ebook dei romanzi di Grazia Deledda. Cliccate qui.

Per non dimenticare la strage di Bologna: 2 agosto 1980

Il 2 agosto 1980 alle 10:25, nella sala d’aspetto di 2ª classe della stazione di Bologna, affollata di turisti e di persone in partenza o di ritorno dalle vacanze, un ordigno a tempo, contenuto in una valigia abbandonata, esplose causando il crollo dell’ala ovest dell’edificio. L’esplosivo, di fabbricazione militare, era posto nella valigia, sistemata a circa 50 centimetri d’altezza su di un tavolino portabagagli sotto il muro portante dell’ala ovest, allo scopo di aumentarne l’effetto; l’onda d’urto, insieme ai detriti provocati dallo scoppio, investì anche il treno Ancona-Chiasso, che al momento si trovava in sosta sul primo binario, distruggendo circa 30 metri di pensilina, ed il parcheggio dei taxi antistante l’edificio.
L’esplosione causò la morte di 85 persone e il ferimento o la mutilazione di oltre 200.

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“Parlate della mafia. Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali. Però parlatene.” Paolo Borsellino

Politica e mafia sono due poteri che vivono sul controllo dello stesso territorio: o si fanno la guerra o si mettono d’accordo.

Paolo Borsellino

 

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A ventun anni dall’attentato che uccise Paolo Borsellino ricordiamo la sua vita e il suo pensiero lucido, tagliente e ispiratore.

Se la gioventù le negherà il consenso, anche l’onnipotente e misteriosa mafia svanirà come un incubo.

Paolo Borsellino

 

La vita

 

A fine mese, quando ricevo lo stipendio, faccio l’esame di coscienza e mi chiedo se me lo sono guadagnato.

Paolo Borsellino

 

Paolo Borsellino (Palermo 1940-1992), magistrato italiano. Giudice istruttore, fu membro del pool antimafia, gruppo di magistrati nato per affrontare in maniera organica i procedimenti relativi alla mafia, di cui facevano parte anche Giovanni Falcone e Antonino Caponnetto. Con questi, durante il maxiprocesso contro la mafia del 1986, sostenne la tesi che Cosa nostra fosse un’organizzazione unitaria, guidata da una direzione di tipo piramidale, la cupola, responsabile di tutti i delitti commessi dall’organizzazione. In seguito procuratore aggiunto alla procura di Palermo, il 19 luglio 1992 venne ucciso con la sua scorta in un attentato mafioso.

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È normale che esista la paura, in ogni uomo, l’importante è che sia accompagnata dal coraggio. Non bisogna lasciarsi sopraffare dalla paura, altrimenti diventa un ostacolo che impedisce di andare avanti.

Paolo Borsellino

 

L’attentato

 

Mi uccideranno, ma non sarà una vendetta della mafia, la mafia non si vendica. Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri.

Paolo Borsellino

 

Il 19 luglio 1992, dopo aver pranzato a Villagrazia con la moglie Agnese e i figli Manfredi e Lucia, Paolo Borsellino si recò insieme alla sua scorta in via D’Amelio, dove viveva sua madre.
Una Fiat 126 parcheggiata nei pressi dell’abitazione della madre con circa 100 kg di esplosivo a bordo detonò al passaggio del giudice, uccidendo oltre a Paolo Borsellino anche i cinque agenti di scorta Emanuela Loi (prima donna della Polizia di Stato caduta in servizio), Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. L’unico sopravvissuto fu Antonino Vullo, scampato perché al momento della deflagrazione stava parcheggiando uno dei veicoli della scorta.

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La lotta alla mafia, il primo problema da risolvere nella nostra terra bellissima e disgraziata, non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale che coinvolgesse tutti e specialmente le giovani generazioni, le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità.

Paolo Borsellino

 

Grazie a Paolo Borsellino per ciò che ha fatto. La sua morte violenta ha reso la sua voce immortale.

Approfondimenti

 

Cosa nostra

 

L’espressione Cosa nostra (più comunemente e genericamente mafia siciliana) viene utilizzata per indicare un’organizzazione criminale di stampo mafioso-terroristico presente in Sicilia dagli inizi del XIX secolo e trasformatasi nella prima metà del XX secolo in una organizzazione internazionale.
Con il termine “Cosa nostra” oggi ci si riferisce esclusivamente alla mafia siciliana (anche per indicare le sue ramificazioni internazionali, specie negli Stati Uniti d’America), per distinguerla dalle altre, internazionali, genericamente indicate col termine di “mafie”.
Gli interventi dello Stato, che in passato aveva trascurato anche volutamente il problema, si sono fatti più decisi a partire dagli anni ottanta. In ciò grande merito ha avuto il Pool antimafia, creato dal giudice Rocco Chinnici e dopo la sua morte subentrò Antonino Caponnetto di cui facevano parte i magistrati Giuseppe Di Lello, Leonardo Guarnotta, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Costoro, anche a costo della loro vita, hanno distrutto il cuore di Cosa nostra, dimostrandone la reale esistenza e garantendo la possibilità di punirne gli adepti. Fino ad allora l’impunità dei suoi membri era pressoché garantita attraverso infiltrazioni politiche e nei palazzi di giustizia.
Negli anni novanta la Sicilia venne militarizzata allo scopo di liberare gli organi di Polizia dalle attività di piantonamento, lasciandoli liberi di dedicarsi in pieno alle indagini e alla ricerca dei latitanti.
Nel 2006, l’arresto dopo una latitanza record di 43 anni del superlatitante Bernardo Provenzano ad opera della Procura Antimafia di Palermo ha inflitto un ulteriore duro colpo all’organizzazione, che ora sta probabilmente subendo l’evoluzione in Stidda (sempre di stampo mafioso ma meno potente e pericolosa).
Anche economicamente Cosa nostra ha subito un ridimensionamento, ciò anche a causa dell’applicazione della legge sul sequestro dei beni e il contestuale aumento di potere della ‘Ndrangheta, che ha assunto il controllo e il predominio del traffico internazionale di droga.

Fonti: Encarta, Wikipedia

Il coraggio di credere nella libertà. La liberazione.

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Oggi è una giornata importante e non posso non dedicare un post a ciò che essa rappresenta. La cosa spiacevole è che molta gente non ricorda nemmeno cosa è accaduto o non gli attribuisce la giusta importanza o, ancora peggio, rimpiange la dittatura fascista. Su Facebook ad esempio esistono svariate pagine inneggianti al Duce e al fascismo che contano su migliaia di fan. Alcune addirittura parlano del 25 aprile come giornata di lutto nazionale, assieme al 28 aprile, data in cui Mussolini fu giustiziato a Giulino di Mezzegra, sul lago di Como. Premesso che secondo me Facebook e gli altri social network dovrebbero assolutamente impedire la costituzione di queste pagine o perlomeno eliminarle prima che si diffondano, direi che si tratta di un vero e proprio crimine contro la coscienza del nostro Paese, contro tutti coloro che hanno combattuto e pagato a caro prezzo per la liberazione.

Ma dove sta il problema? I social network costituiscono un potente mezzo di comunicazione, al punto che tramite poche frasi mirate e ad effetto si possono “reclutare” followers per questa o quell’altra ideologia.  In un periodo di crisi non solo economica ma anche morale come quello in cui ci troviamo queste azioni assumono pericolosa efficacia sfruttando appunto il bisogno della gente di un punto fermo, di qualcosa in cui credere. L’ignoranza in materia di certi argomenti può dare un’ulteriore spinta.

Come difendersi? Come reagire? Ognuno di noi dovrebbe – non solo in questi casi ma sempre – essere in grado di pensare da sé, valutare con la propria testa ed essere capace di decidere al meglio, sfuggendo le dottrine esecrabili. Dell’argomento in questione, ossia il fascismo, molti ricordano solo le nozioni scolastiche e non sanno nulla di come realmente è stata la vita della popolazione in quel periodo. Ancora una volta la memoria storica dimostra il suo valore. Ben vengano allora manifestazioni ed eventi che festeggiano la liberazione e l’attività partigiana. Leggere libri a riguardo, ascoltare testimonianze, parlarne con gli altri sono senz’altro le azioni alla base di una “lotta” alimentata da ognuno di noi. Non bisogna dare per scontato che certe cose non avverranno mai più, soprattutto come dicevo prima in periodi particolari come quello che stiamo vivendo. Alcuni infatti desiderano un governo che prenda con la forza le redini del Paese, illudendosi che una simile soluzione possa giovare all’Italia. Pensandoci bene negli ultimi anni ci sono state forme di “controllo” subdole e non apertamente dichiarate che sono riuscite a mantenere ai vertici del governo determinate persone. Le belle promesse sono soltanto specchi per allodole e, ahimè, spesso le allodole vanno in massa ad abbeverarsi a quegli specchi d’acqua marcia e putrida.

Eccovi un breve video a riguardo che, durante una discussione su Facebook, mi ha segnalato un amico.

Ora però parliamo del significato di questa festa nazionale. La liberazione dell’Italia dall’occupazione nazista, nonché la caduta definitiva del fascismo. La Resistenza italiana è stata più diffusa di quanto si pensa, indipendentemente dalla fede politica. Non si dimentichi che un numero non indifferente di partigiani era apartitico, quindi lasciamo perdere critiche verso comunismo e socialismo. Attorno alle vere e proprie squadre d’azione, ruotavano altri gruppi attivi in maniera diversa ma ugualmente fondamentali, come ad esempio le SAP cittadine.

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Il popolo italiano, dapprima incantato dal personaggio del Duce, si rese gradualmente conto che le ammalianti dottrine fasciste non facevano altro che ridurre la libertà del singolo individuo e sottomettere la massa. La situazione peggiorò nel periodo della guerra. Migliaia di tragedie si consumarono in città ma anche nei piccoli centri, nelle campagne, e altrettante vite furono spezzate, in patria o ai fronti di guerra di un “impero” in realtà mai esistito.

imagesQuando i nazisti invasero l’Italia dopo l’armistizio dell’8 settembre del ’43, molti italiani scesero in campo. La maggior parte inesperti, ma arditi e convinti fermamente che fosse ora per la giustizia e la libertà di fare ritorno sul suolo italiano. Pensate a quanti si sono improvvisati soldati o genieri, armati di poche armi sottratte ai repubblichini o ai nazisti o recuperate dagli aviolanci alleati. Molti fuggirono sulle colline o in montagna, altri restarono in città in incognito, ma tutti rischiarono la vita ogni giorno, furono torturati e molti infine fucilati o impiccati. Sabotarono i tedeschi e i fascisti, le loro comunicazioni, armi o treni di armamenti e vettovaglie; offrirono protezione e sostentamento a ebrei.

Al giorno d’oggi, secondo voi, saremmo capaci di compiere nuovamente atti di simile coraggio e altruismo? O la vita comoda ha rammollito il corpo e surclassato lo spirito combattivo, spento la scintilla ribelle che dovrebbe brillare a ogni ingiustizia?

Oggi si festeggia la liberazione dell’Italia ma anche i nostri nonni, bisnonni che hanno offerto un grande sacrificio all’altare della libertà. Grazie soprattutto a loro.

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Un libro che racconta da vicino la Resistenza e la vita con gli occupanti nazisti è Al di là delle frontiere di Nini Wiedemann, tra l’altro una storia vera. Ma anche un saggio di Almerino Lunardon: La resistenza vadese.

Come film invece segnalo L’Agnese va a morire, Roma città aperta, La notte di San Lorenzo.

Ciò che si può e si deve fare è riflettere su ciò che è ora e su ciò che è stato e soprattutto non dimenticare.

Iniziativa per la giornata della memoria

In vista della giornata della memoria 2013, pubblicherò qualche estratto dal mio romanzo “Tregua nell’ambra”, finalista nel concorso nazionale ilmioesordio feltrinelli. Gli estratti riguarderanno il periodo che la protagonista Elisa trascorre nel campo di concentramento di Alberobello, in provincia di Bari, nello stabile chiamato “casa rossa”.
Difatti anche in Italia ci sono stati svariati campi di concentramento, seppur con regolamenti meno crudeli dei campi nazisti.
Per non dimenticare. E per non ripetere.
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