Nobel italiani per la letteratura: Dario Fo

Sesto appuntamento con la rubrica Nobel italiani per la letteratura. Per il momento sarà anche l’ultimo, finché non verrà assegnato un nobel per la letteratura a un altro italiano, cosa che per quest’anno passa vista la vincitrice canadese Alice Munro. Oggi parliamo di Dario Fo che, nella lista dei sei nobel italiani per la letteratura, è un autore di teatro come Pirandello.

Dato che esistono oratori balbuzienti, umoristi tristi, parrucchieri calvi, potrebbero anche esistere politici onesti.

Dario Fo

gfhjjk

Dario Fo (Sangiano, Varese 1926) è un attore, regista e autore drammatico italiano, famoso per i suoi spettacoli di satira politica e sociale. Compiuti gli studi all’Accademia di Brera di Milano, dal 1950 iniziò a recitare e a scrivere testi satirici per la radio e la televisione; trasferitosi a Roma, dal 1955 al 1958 lavorò come soggettista.

Con la moglie Franca Rame fondò poi un proprio gruppo teatrale, la Compagnia Dario Fo – Franca Rame (1959-1968): i brevi pezzi pungenti preparati dalla coppia per il programma televisivo di varietà Canzonissima vennero censurati così spesso che i due attori e drammaturghi nel 1963 lasciarono la RAI e ripresero a recitare in teatro. Nel 1968 costituirono il gruppo Nuova Scena, che si esibiva a prezzo politico e in luoghi volutamente alternativi rispetto alle sedi ufficiali, propugnando il ritorno del teatro alle origini popolari e rivalutandone la funzione sociale.

Riscosse molto successo Mistero buffo (1969), in cui Fo, unico attore, presentava un insieme di elaborazioni fantasiose di antichi testi, in un estroso impasto linguistico. Negli anni Settanta, schieratosi al fianco delle organizzazioni extraparlamentari, diede vita al collettivo La Comune che, tra le altre attività, s’impose per l’appassionato tentativo di dare nuova linfa al teatro di strada. Tra le più efficaci trovate di Fo si colloca l’uso del ‘grammelot’: un tipo di linguaggio teatrale in cui l’attore non pronuncia parole reali, ma emette suoni che imitano, nell’intonazione e nel ritmo, un idioma esistente (francese, inglese) e il padano, dialetto inesistente, compendio di tutti i dialetti di una Val Padana viva nell’immaginario popolare.

Ideate e interpretate spesso insieme alla moglie Franca Rame, le farse di Fo sono sempre state tanto invise all’autorità ecclesiastica e dissacranti nei confronti della morale borghese, quanto ricche di valori sociali e politici. In particolare, si ricordano Gli arcangeli non giocano a flipper (1959); Aveva due pistole dagli occhi bianchi e neri (1960); Isabella, tre caravelle e un cacciaballe (1963); Settimo ruba un po’ meno (1964); La signora è da buttare (1967); Morte accidentale di un anarchico (1970) ispirata al caso della misteriosa morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli; Tutti uniti, tutti insieme, ma scusa quello non è il padrone? (1971); Pum pum. Chi è? La polizia (1972); Il Fanfani rapito (1973); Non si paga, non si paga! (1974); Coppia aperta (1983); Johan Padan a la descoverta delle Americhe (1991); Marino libero, Marino è innocente (1998), sulla vicenda giudiziaria di Adriano Sofri, Ovidio Bompressi e Giorgio Pietrostefani, ex militanti di Lotta continua, accusati dal vecchio compagno Leonardo Marino dell’omicidio del commissario di polizia Calabresi (1972), Da Tangentopoli all’inarrestabile ascesa di Ubu-Bas (2002) e L’anomalo bicefalo (2003).

Nel 1997 Fo fu insignito del premio Nobel per la letteratura; nel 2000 gran parte dei suoi testi teatrali è stata raccolta in un unico volume, Dario Fo – Teatro, curato da Franca Rame.

Fonte: Encarta

 

 

Fermare la diffusione del sapere è uno strumento di controllo per il potere perché conoscere è saper leggere, interpretare, verificare di persona e non fidarsi di quello che ti dicono. La conoscenza ti fa dubitare. Soprattutto del potere. Di ogni potere.

Caratteristiche e stile

Le caratteristiche più note, ma certo non le sole, dell’opera di Fo sono l’anticonformismo, l’anticlericalismo e, più in generale, l’esercizio di una forte critica rivolta, attraverso lo strumento della satira, alle istituzioni (politiche, sociali, ecclesiastiche) e alla morale comune. La sua costante opposizione a ogni forma di potere costituito rende Fo non soltanto un artista “scomodo”, ma l’antitesi degli intellettuali organici, tutti presi dal compito di conservare l’egemonia culturale già esistente o di crearne una alternativa. Dario Fo è ateo – cfr. sua dichiarazione in Wikiquote aggiornata al 03 maggio 2013. (da “Dario Fo Il paese dei mezaràt” – Feltrinelli, Milano, 2004).

All’interno della sua vastissima produzione (circa settanta lavori), i personaggi dell’attualità, della storia o del mito sono presentati sempre in un’ottica rovesciata, opposta a quella comune (il gigante Golia è buono e pacifico, mentre Davide è un litigioso rompiscatole, Napoleone e Nelson si comportano come bambini che si fanno reciproci dispetti, ecc.). Già nei primi spettacoli compare, sia pure in embrione, quella satira fatta di smitizzanti ribaltamenti tanto frequente nei successivi lavori di Fo.
Tanto importante quanto la componente critica della satira di Fo è la capacità di costruire e mettere in scena delle perfette macchine per far ridere, sul modello delle farse e dei vaudeville (commedie brillanti) e con rimandi sia al filone popolare dei lazzi della Commedia dell’arte, sia alle gag del circo e del cinema muto. Questo è il tipo di produzione alla quale Fo si è dedicato dal 1957 al 1961. Si tratta di testi che, anche a distanza di anni, mantengono una straordinaria vis comica e che, inoltre, risultano godibilissimi alla lettura.
Fo torna sempre ad usare i meccanismi della farsa, fondendoli con una satira di rara efficacia. Rispetto alle prime commedie, però, col tempo si fanno più accentuati gli intenti satirici nei confronti del potere costituito. Lo spettacolo spesso si articola, secondo lo schema del “teatro nel teatro”, in una struttura a cornice, con una storia esterna che ne contiene un’altra. La commedia si inserisce in un filone demistificatorio, ossia nel tentativo di raccontare fatti e personaggi della storia e dell’attualità secondo un’ottica alternativa (magari totalmente immaginaria), priva di quella retorica e di quegli stereotipi a cui la cultura ufficiale fa ricorso tanto di frequente. Questo è un nodo centrale nella poetica di Dario Fo, come egli stesso dichiara:
« La risata, il divertimento liberatorio sta proprio nello scoprire che il contrario sta in piedi meglio del luogo comune… anzi, è più vero… o almeno, più credibile. » (da Dario Fo parla di Dario Fo, Lerici, 1977)
Un personaggio frequente nel teatro di Fo è quello del Matto a cui è permesso dire le verità scomode (vedi ad esempio Morte accidentale di un anarchico). Spesso il mondo delle commedie di Fo è popolato da personaggi “da sottobosco”, visti però in chiave positiva: ubriachi, prostitute, truffatori carichi di inventiva, matti che ragionano meglio dei sani e simili. Di certo non è estranea alla scelta di questo tipo di personaggi l’influenza degli anni vissuti a Sangiano, il paese natale, che Fo descrive così:
« Paese di contrabbandieri e di pescatori, più o meno di frodo. Due mestieri per i quali, oltre a una buona dose di coraggio, occorre molta, moltissima fantasia. È risaputo che chi usa la fantasia per trasgredire la legge ne preserva sempre una certa quantità per il piacere proprio e degli amici più intimi. »
Forse proprio qui Fo deve avere intuito che, a volte, il vero delinquente non è chi trasgredisce le legge, bensì chi la legge l’ha fatta.
Anche la burocrazia è presa di mira: in Gli arcangeli non giocano a flipper, un personaggio scopre di essere iscritto all’anagrafe come cane bracco. Pur avendo scoperto che l’errore è frutto della vendetta di un impiegato impazzito per una mancata promozione, il protagonista è costretto dalle ferree leggi della burocrazia a comportarsi da vero cane bracco, e solo dopo che, come cane randagio, sarà stato ufficialmente soppresso, potrà tornare uomo e riscuotere i soldi che gli spettano. Qui la burocrazia ha una sua logica chapliniana, per cui non ciò che esiste viene annotato sulle carte, ma ciò che le carte certificano deve esistere.
Questa surreale situazione può essere vista come variazione in chiave vaudeville, de Il fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello. Non è chiaro se la parodia sia voluta o meno, ma certo è che, dopo le accuse di eccessivo cerebralismo che Fo ha sempre mosso a Pirandello, non è da escludere una deliberata volontà parodistica. Il rapporto tra Fo autore e Fo attore può essere riassunto da ciò che egli stesso scrive in un articolo nel 1962: “Gli autori negano che io sia un autore. Gli attori negano che io sia un attore. Gli autori dicono: tu sei un attore che fa l’autore. Gli attori dicono: tu sei un autore che fa l’attore. Nessuno mi vuole nella sua categoria. Mi tollerano solo gli scenografi”.
Se c’è un testo che però non può prescindere dalla presenza scenica di Fo, questo è “Mistero buffo” (1969), lungo monologo in grammelot che imita il dialetto padano, che offre una versione smitizzata di episodi storici e religiosi, coerente con l’idea che “il comico al dogma fa pernacchi, anzi ci gioca, con la stessa incoscienza con cui il clown gioca con la bomba innescata”. Una delle idee guida dello spettacolo è che la cultura alta abbia sempre rubato a mani basse elementi della cultura popolare, rielaborandoli e spacciandoli per propri (sul rapporto tra Fo e la cultura popolare, si veda Antonio Scuderi, Dario Fo and Popular Performance, Legas 1998 e, dello stesso autore, Le cuit et le cru: il simbolismo zoomorfico nelle giullarate di Dario Fo, nel volume Coppia d’arte citato nella bibliografia conclusiva).
Figura centrale di tutto lo spettacolo è quella del giullare, in cui Fo si identifica, rifacendosi alle origini dì questa figura come quella di colui che incarnava e ritrasmetteva in chiave grottesca le rabbie del popolo. Negli anni sessanta e settanta nella società italiana personaggi come Dario Fo e Leonardo Sciascia esplicavano, tramite l’analisi dialettica della situazione politica e socio-culturale e, soprattutto, del linguaggio eufemistico e accomodante di cui si avvale tuttora la classe politica, per mostrare il marciume, le fallacie logiche, le segrete connivenze fra le classi dominanti e i favoreggiamenti che si celano sotto il perbenismo politico.
Commedie come Morte accidentale di un anarchico (questa pièce sul decesso dell’anarchico Pinelli durante un interrogatorio in seguito alla strage di piazza Fontana a Milano (12 dicembre 1969) è, insieme con la giullarata Mistero buffo, il capolavoro di Fo) non sono altro che il coerente accorpamento di tutti i dati e di tutte le comunicazioni ufficiali, sempre contrastanti e sconcertanti, se raccolti sistematicamente, e segno dell’arroganza del potere. Gli interventi di Fo sull’argomento sono tipici della Commedia dell’arte e della tradizione comica italiana così come della più feroce satira politica tedesca: la forma rende il testo umoristico e nel contempo mette a nudo i soprusi del potere e la crudeltà inarrestabile della burocrazia, la fabula vera e propria invece è desunta dalla realtà.
Il procedimento usato in questi casi è quello, già visto anche in altri autori, di portare alle estreme conseguenze l’affermazione dell’avversario fino a farla cadere. Qui tale tecnica è arricchita dal fatto che colui che la usa finge di stare dalla stessa parte di chi vuol sbugiardare. Gli elementi farseschi dovuti alla girandola di situazioni create dai continui cambi di identità del protagonista, servono a mantenere lo spettacolo, pur di argomento così drammatico, su quel registro comico, essenziale per Fo, al fine di evitare il rischio della catarsi e dell’indignazione (come in Pirandello).
Fo attualizza la tecnica e la figura del giullare come reincarnazione delle voci eretiche del passato, con una funzione fortemente polemica nel presente; sincronizza passato e presente realizzando un effetto straniante, usando il grottesco e la logica e, senza confondere i piani temporali, insinua nel presente un frammento di passato che ha una valenza negli avvenimenti politici contemporanei.
In un altro contesto l’opera di Fo può essere ricondotta a Pirandello, infatti i suoi personaggi si confrontano con una società snaturante e con una crisi esistenziale che li spinge a lottare per affermare le proprie ragioni e per smascherare le false verità imposte dall’alto. Nel novembre 2009, dopo la sentenza di Strasburgo che stabilì la rimozione dei crocefissi dalle aule scolastiche, Dario Fo si schierò a favore della Corte Europea paragonando il Cristo in croce alla svastica e alla falce e martello, ovvero a simboli ideologici da rimuovere dalla società.

La satira è un’espressione che è nata in conseguenza di pressioni, di dolore, di prevaricazione, cioè è un momento di rifiuto di certe regole, di certi atteggiamenti: liberatorio in quanto distrugge la possibilità di certi canoni che intruppano la gente.

 

La controversia sulla militanza nella Repubblica Sociale Italiana

Nel 1975, Giancarlo Vigorelli sul quotidiano Il Giorno scrisse: «Anche Fo sa di avere in pancia l’incubo dei suoi trascorsi fascisti». Fo querelò il giornalista e il quotidiano per diffamazione, e la vicenda si concluse con la pubblicazione di una rettifica. Ma il senatore Giorgio Pisanò del Movimento Sociale Italiano, storico e direttore del “Candido”, documentò il trascorso repubblichino di Dario Fo, volontario nei parà e sottufficiale delle Brigate Nere, che si distinse per i rastrellamenti casa per casa nei centri vicini al Lago di Como.
Nello stesso anno il deputato democristiano Michele Zolla presentò invano un’interrogazione al Ministro della Difesa per sapere se rispondesse a verità questo fatto. Nel 1977 Fo accusò Luigi Calabresi (da lui ribattezzato “commissario Cavalcioni”), di avere gettato dalla finestra della questura di Milano l’anarchico Pino Pinelli il giorno dopo della Strage di Piazza Fontana. In seguito attaccò il PM genovese Mario Sossi per aver fatto arrestare l’ex-comandante partigiano Giambattista Lazagna. Nello stesso anno Fo querelò per diffamazione Gianni Cerutti per aver pubblicato su II Nord un articolo che lo attaccava con parole pesanti: «A Fo non conviene ritornare a Romagnano Sesia dove qualcuno lo potrebbe riconoscere: rastrellatore, repubblichino, intruppato nel battaglione Mazzarini della Guardia Nazionale della Repubblica di Salò».
Fo risponde querelando Cerutti. Il processo di svolse a Varese dove veniva stampato Il Nord: alla prima udienza, nel febbraio 1978, Fo fu messo dinanzi ad una foto che lo vedeva con la divisa della Rsi, e si giustificò raccontando che all’età di 18 anni, nel 1944, collaborava con il padre, esponente della Resistenza nel Varesotto. Preso tre volte dai tedeschi, e sempre scappato, si era arruolato volontario nei paracadutisti di Tradate, ma lo aveva fatto per non destare sospetti, anzi d’accordo con i partigiani amici del padre. Il suo sogno era sempre stato quello di unirsi alla formazione militare Lazzarini, la banda partigiana terrore dei nazifascisti sulla riva orientale del Lago Maggiore. Nel frattempo a marzo il giornalista Luciano Garibaldi sul settimanale Gente pubblicò la foto di Dario Fo in divisa da parà repubblichino con le testimonianze di una decina di ex-camerati di Tradate tra cui Carlo Maria Milani secondo il quale Fo partecipò, con il compito di portare bombe, al rastrellamento della Val Cannobina per la riconquista dell’Ossola.
Nello stesso articolo è presente l’intervista dell’ex comandante partigiano Giacinto Lazzarini: «Le dichiarazioni di Dario Fo destano in me non poca meraviglia. Dice che la casa di suo padre era a Porto Valtravaglia, era un “centro” di resistenza. Strano. Avrei dovuto per lo meno saperlo. Poi dice che “era d’accordo con Albertoli” per raggiungere la mia formazione. Io avevo in formazione due Albertoli, due cugini, Giampiero e Giacomo. Caddero entrambi eroicamente alla Gera di Voldomino, e alla loro memoria è stata concessa la medaglia di bronzo al valor militare. Forse Fo potrà spiegare come faceva ad essere d’accordo con uno dei due Albertoli di lasciare Tradate nel gennaio 1945, quando erano entrambi caduti quattro mesi prima. Senza dire, poi, che i cugini Albertoli erano tra i più vicini a me e mai nessuno dei due mi parlò di un Dario Fo che nutriva l’intento di unirsi alla nostra formazione [..] Se Dario Fo si arruolò nei paracadutisti repubblichini per consiglio di un capo partigiano, perché non lo ha detto subito, all’indomani della Liberazione? Sarebbe stato un titolo d’onore, per lui. Perché mai tenere celato per tanti anni un episodio che va a suo merito?».
Subito dopo in un’intervista a La Repubblica Fo dichiarò: «Io repubblichino? Non l’ho mai negato. Sono nato nel ’26. Nel ’43 avevo 17 anni. Fino a quando ho potuto ho fatto il renitente. Poi è arrivato il bando di morte. O mi presentavo o fuggivo in Svizzera. Mi sono arruolato volontario per non destare sospetti sull’attività antifascista di mio padre, quindi d’accordo con i partigiani amici di mio padre». Le dichiarazioni di Milani e Lazzarini provocarono grande scalpore, tant’è che testimoniarono durante il processo di Varese contro Fo il quale, dopo un acceso confronto, li denunciò per falsa testimonianza. La querela al comandante partigiano Giacinto Lazzarini provocò non poco stupore, poiché ne la biografia “La storia di Dario Fo”, di Chiara Valentini, si legge che «il leggendario comandante Lazzarini fu l’idolo della mia vita».
Il processo di Varese durò un anno e si concluse, dopo oltre dieci udienze, il 15 febbraio 1979 con una sentenza che assolve per intervenuta amnistia il direttore de II Nord. Nel 1979 nella sentenza fu scritto: «È certo che Fo ha vestito la divisa del paracadutista repubblichino nelle file del Battaglione Azzurro di Tradate. Lo ha riconosciuto lui stesso – e non poteva non farlo, trattandosi di circostanza confortata da numerosi riscontri probatori documentali e testimoniali – anche se ha cercato di edulcorare il suo arruolamento volontario sostenendo di avere svolto la parte dell’infiltrato pronto al doppio gioco. Ma le sue riserve mentali lasciano il tempo che trovano. […] lo rende in certo qual modo moralmente corresponsabile di tutte le attività e di ogni scelta operata da quella scuola nella quale egli, per libera elezione, aveva deciso di entrare. È legittima dunque per Dario Fo non solo la definizione di repubblichino, ma anche quella di rastrellatore».
Milani fu assolto dall’accusa di falsa testimonianza con sentenza definitiva nel 1980 perché «il fatto non sussiste». La sentenza non fu appellata e così passò in giudicato. Fo dichiarerà poi nel 2000 al Corriere della Sera: «Aderii alla Rsi per ragioni più pratiche: cercare di imboscarmi, portare a casa la pelle. Ho scelto l’artiglieria contraerea di Varese perché tanto non aveva cannoni ed era facile prevedere che gli arruolati sarebbero presto stati rimandati a casa. Quando capii che invece rischiavo di essere spedito in Germania a sostituire gli artiglieri tedeschi massacrati dalle bombe, trovai un’altra scappatoia. Mi arruolai nella scuola paracadutisti di Tradate. Poi tornai nelle mie valli, cercai di unirmi a qualche gruppo di partigiani, ma non ne era rimasto nessuno».
Nel 2004 Oriana Fallaci ritornerà sulla questione, attraverso numerose interviste e in particolare scrivendo ne La Forza della Ragione: «Fui esposta al pubblico oltraggio. Istigato, questo, da un vecchio giullare [Dario Fo] della repubblica di Salò. Cioè da un fascista rosso che prima d’essere fascista rosso era stato fascista nero quindi alleato dei nazisti che nel 1934, a Berlino, bruciavano libri degli avversari». Nel 2007 viene pubblicata l’autobiografia “Il mondo secondo Fo. Conversazione con Giuseppina Manin” edita Guanda. Nel libro viene riaperta la questione, Dario Fo «ha fatto parte della Repubblica di Salò», osserva l’intervistatrice Giuseppina Manin, coautrice del libro. Dario Fo non si sottrae, e risponde che quella «parentesi» lui non l’ha «mai negata».
Ammette di essersi arruolato «per salvare la pelle». E fa notare la differenza con un altro premio Nobel, Gunter Grass, che la sua militanza nelle Waffen-SS l’ha tenuta nascosta fino al 2006. «Quello che più mi ha colpito della sua vicenda è il fatto di aver tenuto quel segreto dentro per tutto il tempo. Grass ha convissuto con la sua colpa per oltre sessant’anni». Nel 2007 Ercolina Milanesi, giornalista, collaboratrice e free-lance su diversi quotidiani nazionali, ha scritto che nel 1944-1945 era sfollata a Cittiglio (VA), ha raccontato che conosceva bene Dario Fo e ha ricordato che «Un giorno si presentò tronfio come un gallo per la divisa che portava e ci tacciò di pavidi per non esserci arruolati come lui».

Fonte: Wikipedia

 

 

Mio padre, prima dell’arrivo del nazismo, aveva capito che buttava male; perché, spiegava, quando un popolo non sa più ridere diventa pericoloso.

Nobel italiani per la Letteratura: Eugenio Montale

Quinto appuntamento con la rubrica Nobel italiani per la letteratura. Parliamo di Eugenio Montale, vincitore del premio nel 1975.

Codesto solo oggi possiamo dirti: ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

 

Eugenio Montale

eugenio_montale

Eugenio Montale (Genova 1896 – Milano 1981) è stato un poeta e critico letterario italiano, premio Nobel per la letteratura nel 1975. Nato da una famiglia di commercianti, frequentò le scuole tecniche e studiò canto, ma rinunciò alla carriera musicale. Partecipò dal 1917 alla prima guerra mondiale come ufficiale sul fronte della Vallarsa in Trentino. Tornato a Genova, prese contatto con i poeti liguri (primo fra tutti Camillo Sbarbaro) e con l’ambiente torinese: furono anni di intense letture di italiani e stranieri, specie i simbolisti francesi.

Del 1916 è il testo che segna la sua nascita come poeta: Meriggiare pallido e assorto (vedi in fondo all’articolo). Nel 1925 firmò il Manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce e pubblicò, per le edizioni di Piero Gobetti, il suo primo libro, Ossi di seppia. Con un cliché nuovo e personalissimo, filtrato attraverso Pascoli, D’Annunzio e gli scrittori della ‘Voce’, la raccolta propone un linguaggio scabro ed essenziale, un po’ abbassato verso i modi colloquiali e ironici di Gozzano, vicino alla concretezza delle cose. Il paesaggio ligure (centrato su Monterosso, dove i Montale avevano una villa) che vi domina è il ‘correlativo oggettivo’ di una condizione esistenziale, in cui il senso della vita risulta inafferrabile e le vie di uscita dalla catena delle necessità naturali si possono solo intravedere, e in forma ipotetica. Si tratta di una poesia metafisica che ‘nasce dal cozzo della ragione contro qualcosa che non è ragione’.

Montale aveva anche iniziato un’attività di critico, collaborando a varie riviste, con aperture intellettuali molto ampie. A lui si deve la scoperta di Italo Svevo in Italia (Omaggio a Svevo, 1925). A Trieste, dove era stato invitato da Svevo per l’anno seguente, conobbe Umberto Saba e altri scrittori triestini come Virginio Giotti e Silvio Benco. L’incontro con il poeta americano Ezra Pound nel 1926 lo aprì alla letteratura anglosassone.

Nel 1928 Montale fu nominato direttore del Gabinetto Vieusseux a Firenze, ma ne venne allontanato dopo dieci anni perché non iscritto al partito fascista. Si dedicò allora, oltre all’attività di critico, a quella di traduttore. Nel vivace ambiente fiorentino stabilì stimolanti rapporti intellettuali con Vittorini, Gadda, Landolfi, Pratolini, Contini. Nel 1939 uscirono Le occasioni, poesie in parte già precedentemente pubblicate su riviste. In esse Montale continua l’indagine esistenziale degli Ossi di seppia. Nel modificarsi e svanire di una realtà indecifrata e incupita, acquista forza il tema della memoria (anch’essa gracile), sollecitata da ‘occasioni’ di richiamo, e si delineano le figure salvifiche di alcune donne. Il linguaggio si fa meno penetrabile e i messaggi appaiono più nascosti; Montale però non muove verso l’irrazionale gorgo analogico degli ermetici, ma riafferma la sua tensione razionale e pudicamente sentimentale. Nel 1943 pubblicò in Svizzera, per interessamento di Contini, il volumetto Finisterre.

Dopo la guerra e la breve esperienza politica nelle file del Partito d’azione, divenne per poco tempo condirettore della rivista ‘Il mondo’. Nel 1948 si trasferì a Milano, dove lavorò al ‘Corriere della Sera’ e al ‘Corriere d’informazione’, e pubblicò il Quaderno di traduzioni. Nel 1956 uscì La bufera e altro, che comprende anche le poesie già comparse in Finisterre. La ‘bufera’ è la guerra intesa come catastrofe della storia e della civiltà, e simbolo dunque di una disperata condizione umana e personale. Dalla speranza di un’immaginata salvezza attraverso la donna-angelo e dai lampi di fiducia nella possibilità di un mondo diverso, Montale passa all’angoscia per il presente. Nell’amara esperienza dell’orrore della guerra e degli anni cupi della Guerra Fredda, la poesia diventa il segno di un’estrema umana resistenza e di decenza nel quotidiano ‘mare / infinito di creta e di mondiglia’.

Ho imparato una verità che pochi conoscono: che l’arte largisce le sue consolazioni soprattutto agli artisti falliti.

Nel 1966 Montale pubblicò i saggi Auto da fé, una lucida riflessione sulle trasformazioni culturali in corso. Nel 1967 venne nominato senatore a vita. Nel 1971 uscì Satura, cui seguirono nel 1973 Diario del ’71 e ’72 e nel 1977 Quaderno di quattro anni. A partire da Satura il registro linguistico di Montale subisce una svolta. La sua poesia sceglie uno stile basso e prosastico, in cui la parodia, l’ironia amara, il tono epigrammatico sostituiscono quello lirico. Questo perché il mondo gli appare ora perduto in una civiltà dell’immagine, che ha rinunciato alla ricerca del senso di sé e alla tensione etica. Dalla bufera della guerra si è passati alla palude immobile nel vuoto del presente.

La poetica – in pillole –

maturita_montale

Montale ha scritto relativamente poco: quattro raccolte di brevi liriche, un “quaderno” di traduzioni di poesia e vari libri di traduzioni in prosa, due volumi di critica letteraria e uno di prose di fantasia. A ciò si aggiungono gli articoli della collaborazione al Corriere della sera. Il quadro è perfettamente coerente con l’esperienza del mondo così come si costituisce nel suo animo negli anni di formazione, che sono poi quelli in cui vedono la luce le liriche della raccolta Ossi di seppia. Scrivere è per Montale principalmente strumento e testimonianza dell’indagine sulla condizione esistenziale dell’uomo moderno, in cerca di un assoluto che è però inconoscibile.

La sua poesia, tesa fra realismo e simbolismo, si caratterizza per la varietà e la precisione del lessico, oltre che per l’attenzione alla qualità sonora della parola.

Cronologia delle opere

ANNO TITOLO GENERE
1922 Accordi
1925 Ossi di seppia
1932 La casa dei doganieri e altri versi Raccolta poetica poi confluita nelle Occasioni
1939 Le occasioni
1943 Finisterre
1946 Intenzioni (Intervista immaginaria) Saggi
1948 Quaderno di traduzioni
1956 La bufera e altro
Farfalla di Dinard
Raccolta di racconti apparsi tra il 1946 e il 1950 sul ‘Corriere della Sera’ e sul ‘Corriere d’informazione’
1966 Auto da fé
1969 Fuori di casa Cronache di viaggio
1971 Satura
Diario del ’71
Raccolta di poesie poi confluite in Diario del ’71 e del ’72
1973 Diario del ’71 e del ’72
1976 Sulla poesia Saggi
1977 Quaderno di quattro anni
1980 Altri versi
1981 Prime alla Scala Articoli di critica musicale
1983 Quaderno genovese Postumo
1990 Diario postumo Postumo
 

Curiosità

Onorificenze

Grande ufficiale dell'Ordine al merito della Repubblica italiana - nastrino per uniforme ordinaria Grande ufficiale dell’Ordine al merito della Repubblica italiana
— 27 dicembre 1961
Cavaliere di gran croce dell'Ordine al merito della Repubblica italiana - nastrino per uniforme ordinaria Cavaliere di gran croce dell’Ordine al merito della Repubblica italiana
— 2 giugno 1965
Fonti: Encarta, Wikipedia

 

Alcune poesie

Meriggiare pallido e assorto

Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d’orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.

Nelle crepe dei suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano
a sommo di minuscole biche.

Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.

E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com’è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.

Portami il girasole

Portami il girasole ch’io lo trapianti
nel mio terreno bruciato dal salino,
e mostri tutto il giorno agli azzurri specchianti
del cielo l’ansietà del suo volto giallino.

Tendono alla chiarità le cose oscure,
si esauriscono i corpi in un fluire
di tinte: queste in musiche.
Svanire è dunque la ventura delle venture.

Sarcofaghi

Ora sia il tuo passo
piú cauto: a un tiro di sasso
di qui ti si prepara
una più rara scena.
La porta corrosa d’un tempietto
è rinchiusa per sempre.
Una grande luce è diffusa
sull’erbosa soglia.
E qui dove peste umane
non suoneranno, o fittizia doglia,
vigila steso al suolo un magro cane.
Mai piú si muoverà
in quest’ora che s’indovina afosa.
Sopra il tetto s’affaccia
una nuvola grandiosa.

Cigola la carrucola del pozzo

Cigola la carrucola del pozzo
l’acqua sale alla luce e vi si fonde.
Trema un ricordo nel ricolmo secchio,
nel puro cerchio un’immagine ride.
Accosto il volto a evanescenti labbri:
si deforma il passato, si fa vecchio,
appartiene ad un altro…

Ah che già stride
la ruota, ti ridona all’atro fondo,
visione, una distanza ci divide.

Non chiederci la parola

Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.

Ah l’uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l’ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!

Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

I limoni

Ascoltami, i poeti laureati
si muovono soltanto fra le piante
dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti.
lo, per me, amo le strade che riescono agli erbosi
fossi dove in pozzanghere
mezzo seccate agguantanoi ragazzi
qualche sparuta anguilla:
le viuzze che seguono i ciglioni,
discendono tra i ciuffi delle canne
e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.

Meglio se le gazzarre degli uccelli
si spengono inghiottite dall’azzurro:
più chiaro si ascolta il susurro
dei rami amici nell’aria che quasi non si muove,
e i sensi di quest’odore
che non sa staccarsi da terra
e piove in petto una dolcezza inquieta.
Qui delle divertite passioni
per miracolo tace la guerra,
qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza
ed è l’odore dei limoni.

Vedi, in questi silenzi in cui le cose
s’abbandonano e sembrano vicine
a tradire il loro ultimo segreto,
talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di Natura,
il punto morto del mondo, l’anello che non tiene,
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità.
Lo sguardo fruga d’intorno,
la mente indaga accorda disunisce
nel profumo che dilaga
quando il giorno piú languisce.
Sono i silenzi in cui si vede
in ogni ombra umana che si allontana
qualche disturbata Divinità.

Ma l’illusione manca e ci riporta il tempo
nelle città rurnorose dove l’azzurro si mostra
soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase.
La pioggia stanca la terra, di poi; s’affolta
il tedio dell’inverno sulle case,
la luce si fa avara – amara l’anima.
Quando un giorno da un malchiuso portone
tra gli alberi di una corte
ci si mostrano i gialli dei limoni;
e il gelo dei cuore si sfa,
e in petto ci scrosciano
le loro canzoni
le trombe d’oro della solarità.

Spesso il male di vivere ho incontrato

Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.

Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.

Nobel italiani per la Letteratura: Salvatore Quasimodo

Eccoci al quarto appuntamento della rubrica Nobel italiani per la Letteratura. Sotto i riflettori: Salvatore Quasimodo, vincitore del premio nel 1959.

La poesia è la rivelazione di un sentimento che il poeta crede che sia personale e interiore, che il lettore riconosce come proprio.

Salvatore Quasimodo

 

 

S Quasimodo

 

 

Salvatore Quasimodo (Modica, Ragusa 1901 – Napoli 1968) fu poeta, traduttore e critico italiano, esponente di spicco del movimento ermetico (vedi approfondimento in fondo all’articolo). Cominciò a scrivere versi giovanissimo, all’età di quindici anni. Dopo il conseguimento, nel 1919, del diploma di maturità tecnica a Messina, si trasferì a Roma per continuare gli studi, che fu costretto ad abbandonare per problemi economici. Figura importante della giovinezza fu monsignor Rampolla del Tindaro, che gli insegnò il greco e il latino.

Negli anni Trenta si stabilì a Firenze, presso il cognato Elio Vittorini. Qui conobbe Eugenio Montale, Arturo Loria, Alessandro Bonsanti e il gruppo di scrittori legato a ‘Solaria’, rivista sulla quale pubblicò altre poesie. La prima raccolta, Acque e terre, è del 1930; nel 1932 uscì Oboe sommerso. Trasferitosi a Milano, fu assunto dal settimanale ‘Tempo’ e insegnò al Conservatorio.

Con Erato e Apollion (1936), Nuove poesie 1936-1942 (1942; confluite nello stesso anno nel volume Ed è subito sera), La vita non è sogno (1949), Falso e vero verde (1949-1955), la sua fama di poeta crebbe progressivamente, e i premi letterari si moltiplicarono, fino al conferimento del Nobel per la letteratura nel 1959.

Molto importanti sono le traduzioni raccolte nel volume Lirici greci (1940), in cui la sua vocazione alla semplicità e all’eleganza trova nei testi antichi il luogo ideale in cui esercitarsi. A queste sarebbero poi seguite, tra le altre, le traduzioni di Omero, Virgilio e Catullo, ma anche di Shakespeare e Neruda, e la pubblicazione delle antologie Lirica d’amore italiana dalle origini ai nostri giorni (1957) e Poesia italiana del dopoguerra (1958). La produzione critica include un saggio sulla funzione politica del poeta (Il poeta e il politico, 1960, discorso di accettazione del premio Nobel) e una serie di scritti sul teatro apparsi originariamente in ‘Omnibus’ e ‘Il Tempo’ e poi parzialmente raccolti in volume nel 1961.

Mentre nella prima fase della sua evoluzione il poeta aveva mostrato predilezione per le immagini rarefatte e per l’ambientazione in una Sicilia dal sapore mitico, che lo avvicinò all’ermetismo, in seguito la sua opera cominciò a riflettere in modo più diretto l’opposizione al regime fascista e l’orrore della guerra, particolarmente in Giorno dopo giorno (1947). In seguito prevalse un andamento di carattere narrativo, non di rado legato a temi di cronaca.

Cronologia delle opere

 

ANNO TITOLO GENERE
1930 Acque e terre Raccolta poetica; alcune poesie confluirono poi in Erato e Apollion
1932 Oboe sommerso Raccolta poetica poi confluita in
Ed è subito sera
1936 Erato e Apollion Raccolta poetica poi confluita in
Ed è subito sera
1938 Poesie Raccolta antologica
1942 Nuove poesie 1936-1942

Ed è subito sera

Raccolta poetica poi confluita in Ed è subito sera
Raccolta di poesie
1946 Con il piede straniero sopra il cuore Raccolta di poesie
1947 Giorno dopo giorno Raccolta di poesie
1949 La vita non è sogno Raccolta di poesie
1954 Falso e vero verde Raccolta di poesie
1958 La terra impareggiabile Raccolta di poesie
1960 Il poeta e il politico e altri saggi Raccolta di saggi e articoli;
comprende il discorso di accettazione del premio Nobel
1961 Scritti sul teatro Raccolta di articoli sul teatro
1964 L’amore di Galatea Mito in tre atti musicato da Michele Lizzi
1966 Dare e avere Raccolta di poesie
1971 Poesie e discorsi sulla poesia Raccolta postuma di saggi e articoli
1977 A colpo omicida e altri scritti Raccolta postuma di saggi e articoli
 

Curiosità

 

  • A Quasimodo, il poeta leccese Carlo Infante, ha dedicato nel 2011 l’Ode a Salvatore Quasimodo, pubblicata nella settima edizione dell’antologia poetica nazionale La Poesia nel Cassetto, Pubbligrafica Romana, Roma, 2011.
  • Appare in un piccolo cameo nel film La notte (film 1961) di Michelangelo Antonioni.
  • Quasimodo, lui stesso traduttore di classici dell’antichità, ha avuto traduzioni delle sue opere in diverse decine di lingue. Anche in sardo è stata tradotta da ultimo tutta la sua opera poetica: Salvatore Quasimodo, Edd est subitu sero. Tottu sas poesias, tradotte da Gian Gavino Irde, Cagliari, Aipsa, 2007, con introduzione di Alessandro Quasimodo e prefazione di Giulio Angioni.

 

 

Fonte: Encarta, Wikipedia

 

Alcune poesie

 

Autunno

Autunno mansueto, io mi posseggo
e piego alle tue acque a bermi il cielo,
fuga soave d’alberi e d’abissi.

Aspra pena del nascere
mi trova a te congiunto;
e in te mi schianto e risano:

povera cosa caduta
che la terra raccoglie.

Specchio

Ed ecco sul tronco
si rompono le gemme:
un verde più nuovo dell’erba
che il cuore riposa:
il tronco pareva già morto,
piegato sul fosso.
E tutto sa di miracolo;
e sono quell’acqua di nube
che oggi rispecchia nei fossi
più azzurro il suo pezzo di cielo,
quel verde che spacca la scorza
che pure stanotte non c’era.


Lamento per il Sud

La luna rossa, il vento, il tuo colore
di donna del Nord, la distesa di neve…
Il mio cuore è ormai su queste praterie,
in queste acque annuvolate dalle nebbie.
Ho dimenticato il mare, la grave
conchiglia soffiata dai pastori siciliani,
le cantilene dei carri lungo le strade
dove il carrubo trema nel fumo delle stoppie,
ho dimenticato il passo degli aironi e delle gru
nell’aria dei verdi altipiani
per le terre e i fiumi della Lombardia.
Ma l’uomo grida dovunque la sorte d’una patria.
Più nessuno mi porterà nel Sud.
Oh, il Sud è stanco di trascinare morti
in riva alle paludi di malaria,
è stanco di solitudine, stanco di catene,
è stanco nella sua bocca
delle bestemmie di tutte le razze
che hanno urlato morte con l’eco dei suoi pozzi,
che hanno bevuto il sangue del suo cuore.
Per questo i suoi fanciulli tornano sui monti,
costringono i cavalli sotto coltri di stelle,
mangiano fiori d’acacia lungo le piste
nuovamente rosse, ancora rosse, ancora rosse.
Più nessuno mi porterà nel Sud.
E questa sera carica d’inverno
è ancora nostra, e qui ripeto a te
il mio assurdo contrappunto
di dolcezze e di furori,
un lamento d’amore senza amore.

 

 

Uomo del mio tempo

Sei ancora quello della pietra e della fionda,
uomo del mio tempo. Eri nella carlinga,
con le ali maligne, le meridiane di morte,
t’ho visto – dentro il carro di fuoco, alle forche,
alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu,
con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,
senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,
come sempre, come uccisero i padri, come uccisero
gli animali che ti videro per la prima volta.
E questo sangue odora come nel giorno
Quando il fratello disse all’altro fratello:
«Andiamo ai campi». E quell’eco fredda, tenace,
è giunta fino a te, dentro la tua giornata.
Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue
Salite dalla terra, dimenticate i padri:
le loro tombe affondano nella cenere,
gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.

 

 

Approfondimenti

 

Ermetismo

Corrente poetica italiana sviluppatasi negli anni Venti e in modo più consistente negli anni Trenta del XX secolo. Il gruppo degli ermetici si raccolse soprattutto attorno a due riviste fiorentine, ‘Il frontespizio’ e ‘Campo di Marte’, ed ebbe come interlocutori critici privilegiati il cattolico Carlo Bo e Oreste Macrì (1913-1998). Fortemente contrari all’enfasi retorica dannunziana come pure agli aspetti più flebili e convenzionali della lirica di Giovanni Pascoli, gli ermetici si rifacevano invece alle esperienze del simbolismo, in particolare quello di autori come Stéphane Mallarmé e Paul Valéry, cercando di riconsegnare alla parola poetica una carica espressiva assoluta e rifiutando gli aspetti comunicativi del linguaggio così come l’effusione sentimentale diretta. Cercarono invece di fare della parola poetica un momento ‘puro’ e ‘assoluto’, in cui si risolvessero e culminassero le tensioni esistenziali e conoscitive di ciascuno e, ancora di più, il senso della vita, con valenze religiose più o meno accentuate.

IL VALORE EVOCATIVO DELLA PAROLA

La parola degli ermetici dilata il suo valore evocativo e si muove in uno spazio atemporale in cui le linee di forza sono rintracciabili lungo i solchi intricati e allusivi delle metafore e delle analogie, che sembrano aprire a un linguaggio esoterico.

La concentrazione linguistica e la protettiva ambiguità delle parole spiegano come l’etichetta di ‘ermetismo’ abbia avuto successo. Il termine, che sottolinea la chiusura quasi iniziatica del testo poetico, risale all’uso fattone nel 1935 dal critico crociano Francesco Flora. In seguito passò a indicare tutta la nuova poesia italiana con l’eccezione di Umberto Saba, ed è stato quindi applicato anche a Giuseppe Ungaretti e a Eugenio Montale. Oggi si preferisce impiegarlo per indicare poeti quali Salvatore Quasimodo, Alfonso Gatto, Leonardo Sinisgalli, Mario Luzi, Piero Bigongiari.

L’ermetismo contribuì ad avvicinare la poesia italiana alla cultura europea e, nonostante la sua tendenza a un’aristocratica autoreferenzialità, ha lasciato i segni anche in giovani che poi hanno battuto altre strade e che hanno maturato posizioni antifasciste quali, oltre al già citato Alfonso Gatto, Romano Bilenchi, Elio Vittorini e Vasco Pratolini. Il superamento e la liquidazione dell’ermetismo avvennero, non senza qualche ingenerosità nei confronti di questa corrente, al tempo del neorealismo e dell’impegno sociale e politico nel secondo dopoguerra.

 

Nobel italiani per la Letteratura: Pirandello

Eccoci al terzo appuntamento della rubrica Nobel italiani per la Letteratura: parliamo di Luigi Pirandello, vincitore del premio nel 1934.

La fantasia abbellisce gli oggetti cingendoli e quasi irraggiandoli d’immagini care. Nell’oggetto amiamo quel che vi mettiamo di noi.

Luigi Pirandello

 

Luigi-Pirandello2

Luigi Pirandello (Girgenti, oggi Agrigento 1867 – Roma 1936), scrittore italiano, uno dei massimi drammaturghi del Novecento. Anche se la sua fortuna critica è sempre stata molto controversa (soprattutto in Italia), Pirandello è uno dei pochi scrittori italiani del XX secolo che abbia saputo conquistarsi una fama internazionale: non tanto per il premio Nobel (1934), quanto grazie allo straordinario numero di compagnie che ne mettono in scena i drammi in molti paesi del mondo.

 

Le prime opere e i romanzi

 

Luigi Pirandello nel 1892.

Luigi Pirandello nel 1892.

Dopo aver esordito come poeta con Mal giocondo (1889), conseguì la laurea in filologia romanza all’Università di Bonn. In seguito si dedicò all’insegnamento della letteratura italiana, pubblicando nel 1894 le prime novelle, Amori senza amore. Nello stesso anno sposò Antonietta Portulano, che gli avrebbe dato tre figli. Nel 1901 pubblicò il suo primo romanzo, L’esclusa, che segna il passaggio dal modello narrativo verista allo stile ‘umoristico’, cioè a una caratteristica mescolanza di tragico e comico, che da quel momento avrebbe caratterizzato la produzione pirandelliana.

Maria Antonietta Portolano.

Maria Antonietta Portulano.

Nel 1903 lo scrittore si trovò improvvisamente in rovina e con la moglie in preda alla pazzia; risale a quest’epoca la stesura della sua migliore opera narrativa, il romanzo Il fu Mattia Pascal (1904). A questo seguirono altri romanzi, tra i quali spiccano I vecchi e i giovani (1913) e Uno, nessuno e centomila (1925-1926), che rappresenta per molti aspetti una specie di consuntivo ideologico finale.

Di ciò che posso essere io per me, non solo non potete saper nulla voi, ma nulla neppure io stesso.

Il teatro e le novelle

 

Soltanto intorno al 1910 Pirandello si decise ad affrontare anche le scene, pur avendo scritto fin dall’adolescenza testi teatrali. Dopo aver ottenuto un buon successo con Pensaci, Giacomino! e Liolà (entrambi del 1916), egli precisò i nuclei fondamentali della propria ispirazione con Così è (se vi pare) (1917) e Il giuoco delle parti (1918). L’anno decisivo per la notorietà pirandelliana fu tuttavia il 1921, quando, per la sua audacia sperimentale, il dramma Sei personaggi in cerca d’autore prima venne fischiato a Roma e poco dopo ottenne a Milano un clamoroso successo, che proseguì subito dopo in America e che continua tuttora. A questo seguì il successo della tragedia Enrico IV (1922), che consacrò definitivamente Pirandello fra i massimi drammaturghi mondiali.

Fra le numerosissime opere teatrali dello scrittore agrigentino è necessario ricordare la trilogia del ‘teatro nel teatro’, composta, oltre che da Sei personaggi in cerca d’autore, da Ciascuno a suo modo (1924) e da Questa sera si recita a soggetto (1930). La produzione novellistica pirandelliana, nucleo generatore dei suoi drammi, è raccolta nelle Novelle per un anno (1922-1937).

Luigi Pirandello con la famiglia.

Luigi Pirandello con la famiglia.

 

 

 

 

La tragedia borghese

 

Pirandello è probabilmente l’autore che meglio rappresenta il periodo che va dalla crisi successiva all’unità d’Italia all’avvento del fascismo. Pochi come lui ebbero coscienza dello scacco subito dagli ideali del Risorgimento e dei complessi cambiamenti in atto nella società italiana. Sul piano letterario il suo punto di partenza fu, come per gran parte degli autori nati nella seconda metà dell’Ottocento, il naturalismo. Fin dal primo momento però l’oggetto privilegiato, o pressoché esclusivo, delle rappresentazioni pirandelliane non fu il mondo popolare bensì la condizione della piccola borghesia. Da questa prospettiva lo scrittore seppe sviluppare una corrosiva critica di costume, cogliendo in profondità la crisi delle strutture tradizionali della famiglia patriarcale. Poiché però anch’egli apparteneva alla piccola borghesia, finì per assolutizzarne i dubbi e le sofferenze, che rappresentò come il segno di una condizione eterna di tutti gli esseri umani.

Firma di Luigi Pirandello.

Firma di Luigi Pirandello.

D’altro canto, fu proprio la direzione esistenziale e metafisica assunta dalla sua ricerca a portarlo molto vicino alle posizioni di alcuni dei più grandi scrittori europei del XX secolo. Paragonato, volta a volta, a Kafka o a Camus, a Sartre o ai drammaturghi del teatro dell’assurdo (Beckett, Ionesco), Pirandello è stato uno dei pochissimi scrittori italiani del Novecento capaci di raggiungere una fama mondiale: ancora oggi i suoi drammi sono, dopo quelli di Shakespeare, i più rappresentati in tutto il mondo.

Mangia il Governo, mangia la Provincia; mangia il Comune e il capo e il sottocapo e il direttore e l’ingegnere e il sorvegliante… Che può avanzare per chi sta sotto terra e sotto di tutti e deve portar tutti sulle spalle e resta schiacciato?

Il mondo dell’apparenza

 

pirandello_scrive

Al centro della poetica pirandelliana, delineata nel saggio l’Umorismo (1908), sta il contrasto tra apparenza e sostanza. La critica delle illusioni va di pari passo con una drastica sfiducia nella possibilità di conoscere la realtà: qualsiasi rappresentazione del mondo si rivela inadeguata all’inattingibile verità della vita, percepita come un flusso continuo, caotico e inarrestabile. In un mondo dominato dal caso e privo di senso, Pirandello conferisce alla letteratura il compito paradossale di mostrare l’inadeguatezza degli strumenti logico-linguistici di interpretazione della realtà. L’arte, espressione del dubbio sistematico, diventa così coscienza critica, dovere morale dello scrittore contro le mistificazioni e i falsi miti costruiti dagli scrittori del decadentismo, a cominciare da Gabriele d’Annunzio.

L’umorismo è un fenomeno di sdoppiamento nell’atto della concezione; è come un’erma bifronte, che ride per una faccia del pianto della faccia opposta.

Curiosità

 

  • A Luigi Pirandello è stato dedicato l’asteroide 12369 Pirandello. Si tratta di un asteroide della fascia principale. Scoperto nel 1994, presenta un’orbita caratterizzata da un semiasse maggiore pari a 2,2928839 UA e da un’eccentricità di 0,0883439, inclinata di 4,96336° rispetto all’eclittica.

  • Luigi Pirandello frequentò Arsoli per molti anni soprattutto durante i periodi estivi dove amava dissetarsi con una gassosa nell’allora bar Altieri in piazza Valeria. Il suo amore per il paese si ritrova nella definizione che egli stesso diede ad Arsoli chiamandola La piccola Parigi.

Approfondimenti

 

Leonardo Sciascia parla di Luigi Pirandello.

Nel seguente brano, che riproduce il discorso commemorativo da lui pronunciato a Palermo nel 1986 per il cinquantenario della morte di Luigi Pirandello, Leonardo Sciascia individua tre punti da cui partire per una lettura critica corretta dell’opera del grande drammaturgo e narratore suo conterraneo: la Sicilia, ossia la cultura e la tradizione da cui Pirandello prese le mosse; la religione dello scrivere invece di vivere – Pirandello diceva “la vita o la si vive o la si scrive” – e il rapporto dello scrittore con la cultura francese, in particolare con Montaigne e Pascal, che fu più importante di quello, generalmente riconosciuto, con la cultura tedesca.

Tre scrittori hanno attraversato questo secolo dando nome – il loro nome – alle nostre inquietudini, ai nostri smarrimenti, alle nostre paure e al tempo stesso, per quella catarsi o misura di contemplazione che è nelle rivelazioni dell’arte, permettendoci di viverle con temperata ansietà e disperazione: e uso questa parola – temperata – nel senso musicologico dell’accordare, dell’accordarsi, dell’accordarci; e del farsi ogni nota più pura, più cristallina, più vibrante. E sono, questi tre scrittori, Pirandello, Kafka, Borges.
In quanto al quarto cui certamente alcuni di voi stanno pensando, non è stato dimenticato: semplicemente non c’entra. O c’entra, in disparte, in quel che ha di diverso o gli manca, per aiutarci a spiegare l’elezione dei tre che abbiamo nominato: la diversa elezione, il diverso valore.
Diceva Savinio che Proust è scrittore dalla frase lunga e dal pensiero corto: e si può anche pretendere come una battuta nata dall’insofferenza e faziosità che uno scrittore legittimamente sente – e non può non sentire – nei riguardi di certi altri scrittori, e specialmente di quelli più artatamente emergenti e gridati.
Sappiamo bene che si può non badare al “pensiero corto” di Proust, presi dagli incanti della sua “frase lunga”; ma quando Savinio, alla voce Proust della Nuova enciclopedia, ci dà spiegazione della battuta che già avevamo incontrato nei Souvenirs, ecco che ci facciamo più attenti e consenzienti.
Il punto da cui parte l’incrinatura, la linea di separazione – tra Pirandello, Kafka e Borges da un lato, Proust dall’altro – è proprio quello indicato da Savinio: la mente, l’intelligenza, il pensiero: che in Proust si restringono e devolvono ad una sottospecie o sovraspecie in estinzione della società umana non solo, ma della società francese per di più – o per di meno; il che fa della Recherche – con tutta la carica moralistica che le si voglia attribuire – la grande e affascinante cronaca di una particolare e particolareggiata decadenza.
E si capisce che non intendeva Savinio, né noi intendiamo, parlare del pensiero sistematico e, per così dire, tecnico dei filosofi forti o deboli che siano; ma di un pensiero, piuttosto, che crediamo di poter definire con l’epigrafe che Stendhal pone al capitolo tredicesimo di Il rosso e il nero e che non attendibilmente – come quasi sempre capita con Stendhal – attribuisce all’abate di Saint-Réal: “Un romanzo: ecco uno specchio portato lungo una strada”.
E chi conosce Stendhal sa bene quanto questa battuta, che senz’altro possiamo dir sua, sia da collocare a ingente distanza da ogni intenzione o presentimento verista.
La strada come metafora della vita; e lo specchio come metafora della mente. Nulla di più lontano dalle cose come sono – ammesso che le cose siano – di uno specchio: e non per nulla la parola speculare si dirama nel significato che viene da specchio e nel significato che viene dal pensare.
E si noti, incidentalmente, come in questa epigrafe ci sia un vago ma irresistibile richiamo, per noi, alla macchina da presa; e qui ed ora, quasi come ad uno sviluppo del tema, nell’associarsi del romanzo al mezzo cinematografico, al Si gira… di Pirandello, poi intitolato Quaderni di Serafino Gubbio operatore, che tra le sue opere è forse la più ingiustamente trascurata.
Dunque: Pirandello, Kafka, Borges. E come Bertrand Russel diceva che tutta la filosofia occidentale non è che un’annotazione in margine a Platone, con eguale carica di spregiudicatezza, di paradosso, di estremismo, mi pare di poter dire che tutta la letteratura di questo nostro secolo è un rameggiare, uno svolgersi, un respirare (e anche un dibattersi) da questi tre scrittori.
Non c’è altro scrittore in questi nostri anni che, leggendo un suo libro – romanzo, racconti, poesie, testimonianze di vita e d’arte – ad un certo punto, e a più di un punto, non ci costringa a levar gli occhi dalla pagina per farci intenti a cogliere la provenienza e il timbro dell’eco che in quella pagina, appena avvertibile o chiaramente risonante, abbiamo sentito. Ed è l’eco di Pirandello o di Kafka o di Borges – o, in questi ultimi anni, e in certi casi, dell’intramarsi di tutti e tre.
A somiglianza di quelli astronomici, la letteratura e le arti hanno dei sistemi: ma con tutto ciò – si capisce – di cui la fluida presenza del tempo è condizione. Le stelle fisse, i pianeti, i satelliti; e con passaggi di comete e sfrecciare di meteore e meteoriti. E non che in tali sistemi si realizzino, nel volgersi e ruotare di quelli che possiamo dire i corpi minori, mimesi spurie e inautentiche (che pure vi sono, ma molto precariamente ammiccanti): vi si realizza, piuttosto, attraverso particolari intuizioni e riflessioni, in rappresentazioni di più o meno ingente originalità e vigore, il comune sentimento del tempo, dei problemi che la vita, la storia, la società pongono a quel momento e sempre in uno – indissolubilmente – al grande, immenso e quanto l’uomo eterno, problema dell’esistenza, dell’esistere. Il che può anche configurarsi nelle forme che approssimativamente possiamo dire del gioco, come a volte anche a Pirandello accade e a Borges peculiarmente. Ma non inganni il configurarsi in gioco: anche se come su una scacchiera lo scrittore affronta sempre la sua partita col mondo, con la vita, col mistero, con l’assurdo, col dolore.
A questa specie di dispositivo so bene che occorrerebbe una lunga motivazione, suscettibile – so altrettanto bene – di discussione o disapprovazione. Ma io spero che nessuno si aspetti da me – conoscendo o meno quello che finora su Pirandello ho scritto – una disamina ordinata e, come oggi si suole dire, esaustiva dell’opera. Ci vorrebbe altro; e ci vuol altro. Del resto in questo cinquantenario della morte, si sta tanto parlando di Pirandello in quelle sedi che istituzionalmente si ritengono legittimate a parlarne, che è da sperare ne venga fuori una somma finalmente attendibile; ma non priva, questa speranza, della preoccupazione che ne venga anche una saturazione e insofferenza qual quelle che si esprimono nel detto del mettiamoci una pietra sopra – o tutta una grave mora di pietre. A volte le celebrazioni, e particolarmente da noi, inconsapevolmente nascondono il desiderio e l’esortazione a dare pietre a sotterrarli ancora, gli scrittori, gli artisti, gli uomini rappresentativi di cui ufficialmente, alle scadenze temporali, viene conclamata la grandezza sempre in atto, sempre attuale.
Non dunque un discorso esegetico, vuole essere il mio, ma soltanto una breve e quasi assolutamente personale memoria di un soggiorno nell’opera pirandelliana che quasi coincide con quello che lo stesso Pirandello chiamava “l’involontario soggiorno sulla terra”, il mio involontario soggiorno sulla terra. Sui libri di Pirandello io ho passato molte ore della mia vita; e moltissime a ripensarli, a riviverli. Lo scarto tra i suoi libri e la vita è stato per me sempre minimo: e direi quasi soltanto per il fatto che i libri sono materialmente, fisicamente libri. È un paradosso, lo so: e forse nessuna poetica, nessuna estetica, potrebbe accoglierlo; ma è il miglior grado di approssimazione per esprimere quello che sento rispetto a questo mio strettamente conterraneo scrittore.
Tutto quello che ho tentato di dire, tutto quello che ho detto, è stato sempre, per me, anche un discorso su Pirandello: scontrosamente, e magari con un certo rancore, prima; cordialmente e serenamente poi.
C’era dapprima, a darmi volontà di allontanarmene e di essergli ostile, il suo fascismo: negli anni in cui l’antifascismo più urgeva ed era necessario a coloro che, come me, sotto il fascismo avevano passato i primi vent’anni della loro vita; ma c’era, soprattutto, il fatto, che sentivo come una costrizione, come un’imposizione, di non poter vedere la vita – nell’immediatezza del luogo e del tempo in cui la vivevo e nel conseguente dilagare in più vasta e dolorosa meditazione – di non poter vedere la vita altrimenti di come lui la vedeva. Sicché posso dire – come altrove ho già detto – che il mio rapporto con l’opera pirandelliana ha una qualche somiglianza col rapporto col padre: che si sconta dapprima sentendolo come ingiusta e ossessiva autorità e repressione, poi sollevandoci alla ribellione e al rifiuto; e infine liberamente e tranquillamente vagliandolo e accettandolo, più nel riscontro delle somiglianze che in quello, tipicamente adolescenziale, delle diversità.
Ho detto, e ribadisco, dell’immediatezza con cui l’opera di Pirandello, per il luogo ed il tempo in cui mi sono trovato a nascere e a vivere, si dispiegò in tutta la sua verità e profondità e sofferenza. Pirandello è nato più di mezzo secolo prima che io nascessi: ma il modo di essere, la condizione umana, la situazione economica e sociale della provincia di Girgenti non erano allora molto diverse, e si potrebbe anche dire per nulla, di quelle che mi si rivelarono appena in grado di discernerle, di coglierle, di farmene coscienza.
Pirandello ha operato per me una specie di catalizzazione, di precipitazione: la realtà mi si è fatta più reale, la verità più vera. E s’intende che questa parola – verità – altra traduzione ed esplicazione non consente, in Pirandello, che questa: la verità della “trappola”, della “pena di vivere così” – o quella, più umile e grottesca, per cui Tararà, dicendo la sua, si prende una condanna a tredici anni di reclusione, invece dell’assoluzione che avrebbe avuto mentendo.
Da ciò è venuta l’affermazione e investigazione che vado facendo da anni sul Pirandello “siciliano” e cui anche qui, lasciando ora l’autobiografia, voglio approdare. Savinio – ancora Savinio – ha scritto una volta che Pirandello aveva avuto la sfortuna che sulla sua fama si era per lo più pronunciata gente inattendibile. Grandissima la fama, ma per lo meno inattendibili le voci che l’hanno proclamata e il modo. E mi sento in dovere di ripetere il perloppiù di Savinio non dimenticando, e anzi ricordando, le attendibili pagine su Pirandello di Federico Tozzi, di Massimo Bontempelli, di Giacomo Debenedetti, dello stesso Savinio, di Gaspare Giudice, di Georges Piroué, dei due altri critici francesi – Paul Renucci e André Bouissy – che hanno curato i due volumi del teatro pubblicati nella biblioteca della Pléiade.
Aggiungerei anche, meno per lo svolgimento del discorso critico e più per le suggestioni e gli incentivi che ne vengono, le pagine sul Pirandello “religioso” del palermitano Pietro Mignosi, che significativamente furono dallo stesso Pirandello apprezzate e la cui istanza si può riassumere nell’affermazione dello scrittore, in una lettera a Silvio D’Amico, di essere “religiosissimo” e di sentire e di pensare Dio in tutto quel che pensava e sentiva.
Comunque, per schematicamente abbreviare, i punti da cui partire per un più “attendibile “ discorso su Pirandello, per una più libera e acuta lettura dell’opera sua, a me pare siano questi: 1) la Sicilia: non solo come “luogo delle metamorfosi” delle creature in personaggi, dei personaggi in creature, della vita nel teatro e del teatro nella vita – un luogo, insomma, in cui più evidente, concitato e violento si fa “el gran teatro del mundo”; ma il luogo, anche, di una cultura e di una tradizione da cui Pirandello decolla verso spazi vertiginosi (e qui bisogna tenere un certo conto della sua iniziale e poi alquanto persistente affinità al mondo realistico, fiabesco e anche “spiritistico” di Luigi Capuana); 2) la “religiosità”: che, si capisce, non ha nulla a che fare con le religioni rivelate, con la chiesa e con le chiese, anche se molto ha a che fare con l’essenza evangelica del Cristianesimo, ma che soprattutto si riconosce in quella che tout court possiamo dire la sua religione dello scrivere, dello scrivere come vivere, dello scrivere invece di vivere (“la vita” diceva “o la si vive o la si scrive”: e nella sua scelta di scriverla c’è evidentemente un religioso eroismo); 3) il suo rapporto con Montaigne, mai finora scrutato, e l’antagonistica attrattiva che certamente Pascal esercitò su di lui: e ci vorrebbe una ricerca da elaboratore elettronico – ma meglio se fatta da mente umana – per estrarre dall’opera di Pirandello i momenti diciamo pascaliani, di sentimento e sgomento cosmico particolarmente. E avendo fatto questi due nomi – Montaigne e Pascal, grandi pilastri nell’edificio della letteratura francese – ne discende in definitiva la necessità di esaminare e puntualizzare il rapporto di Pirandello con quella cultura: rapporto che finirà col rivelarsi molto più importante ed effettuale di quello, che è ormai luogo comune riconoscergli, con la cultura tedesca. Ed anche questo punto, cui ho voluto dare rilevanza a sé, in verità si appartiene al Pirandello “siciliano”, poiché il rapporto con la Francia è un dato inalienabile della cultura siciliana, e di grande intensità particolarmente lo era negli anni formativi di Pirandello.
E voglio finire con un aneddoto che riguarda il Pirandello siciliano e che, nella dilagante stupidità di oggi, che tende a relegare la Sicilia in una particolare etnia (si ha il pudore di non usare la parola “razza”: ma soltanto di non usarla), assume un grande significato. Nel 1932 Emilio Cecchi, che dirigeva la Cines, comunica a Pirandello l’intenzione di trarre un film dalla novella Lontano. Ma ha uno scrupolo: “nella novella come sta scritta, il marinaio norvegese si sente irresistibilmente attratto da una vita più vasta, e dai ricordi della patria, per il fatto di trovarsi legato, con il matrimonio, ad un ambiente meno che meschino; in fondo è in lui l’insofferenza dell’uomo appartenente a civiltà più energiche e libere, naufragato in un’isola abitata da gente ristretta, fra la quale egli sente mancarsi il fiato”.
Cecchi, scrittore che tuttora amo, era affetto da una invincibile idiosincrasia nei riguardi della Sicilia, dei siciliani: e la si può più immediatamente riscontrare nei suoi Taccuini, oltre che in questa sua lettura della novella Lontano. La novella non sta scritta come lui la leggeva; e Pirandello infatti così risponde: “Caro Cecchi, il contrasto non è tra due civiltà; ma tra due vite naturalmente diverse, quella di un uomo del Nord e quella di una donna del Sud; e il dramma che ne nasce, il dramma di restar “lontano” tra i vicini più vicini: la propria donna, il proprio figlio. Non c’è dunque da farsi scrupoli sulla natura di quelli a cui Lei mi accenna. Tutt’altro! Non era, né poteva essere nelle mie intenzioni di rappresentar barbara o di civiltà inferiore la Sicilia…”.
Naturalmente, il film non si fece. Ma queste parole di Pirandello restano, ci restano.

 

 

Leonardo Sciascia, Pirandello e la Sicilia, Adelphi, Milano 1996.

 

 
Fonti: Encarta, Wikipedia.

Nobel italiani per la Letteratura: Grazia Deledda

Eccomi qui oggi con il secondo appuntamento della rubrica Nobel italiani per la Letteratura. Parliamo dell’unica donna italiana insignita finora del premio.

Se vostro figlio vuole fare lo scrittore o il poeta sconsigliatelo fermamente. Se continua minacciatelo di diseredarlo. Oltre queste prove, se resiste, cominciate a ringraziare Dio di avervi dato un figlio ispirato, diverso dagli altri.

Grazia Deledda

 

uid_11f806a131f.580.0

 

 

Grazia Deledda (Nuoro 1871 – Roma 1936) fu una scrittrice italiana, premio Nobel per la letteratura nel 1926. Autodidatta, esordì con racconti d’amore ambientati nella natia Sardegna, pubblicati sulla rivista femminile “Ultima moda”, che causarono scandalo e dure reazioni per le vicende a tinte forti; molte delle novelle furono raccolte in Racconti sardi (1894). Si rivolse poi al romanzo, dando alle stampe, nel 1892, Fior di Sardegna e, nel 1895, Anime oneste; Romanzo famigliare, con una prefazione di Ruggero Bonghi, che ne lodò il contenuto morale.

Con Elias Portolu (1903), storia dell’amore di un ex detenuto per la cognata, Grazia Deledda creò un primo capolavoro, nel quale il tema del conflitto fra peccato e innocenza si dipana sullo sfondo dell’aspro paesaggio sardo. Seguirono altri romanzi, tra i quali si ricordano L’edera (1908) e Nel deserto (1911).

Canne al vento (1913), forse il suo romanzo più noto, denuncia l’ineluttabile fragilità dell’uomo travolto da una sorte cieca e spietata, mentre La madre (1920) scandaglia la relazione fra un sacerdote e sua madre. Già Cenere (1904), da cui fu tratto nel 1916 un film interpretato da Eleonora Duse, aveva affrontato il tema di un rapporto filiale. Il paese del vento (1931) e L’argine (1934) mescolano immaginazione e autobiografia. Cosima (1937) e Il cedro del Libano (1939) furono pubblicati postumi. Scrisse anche due testi teatrali, L’edera (1912), in collaborazione con Camillo Antona Traversi, e La grazia (1921).

Possibile che non si possa vivere senza far male agli innocenti?

La poetica

 

Nelle opere di Grazia Deledda predominano i sentimenti forti dell’amore e del dolore, mentre una tematica ricorrente è l’amara consapevolezza dell’ineluttabilità del destino. Una straordinaria consonanza fra personaggi e luoghi, fra lo stato d’animo dei protagonisti e la terra sarda, presentata in veste mitica, è un altro tratto distintivo della sua narrativa, che è stata accostata talora al verismo e talora al decadentismo, ma in realtà sfugge a una catalogazione precisa e merita un posto a sé nella nostra letteratura.

GraziaDeledda_MedagliaNobel1926

Grazia Deledda all’assegnazione del Nobel.

 

Mutiamo tutti, da un giorno all’altro, per lente e inconsapevoli evoluzioni, vinti da quella legge ineluttabile del tempo che oggi finisce di cancellare ciò che ieri aveva scritto nelle misteriose tavole del cuore umano.

 

Cronologia delle opere

 

ANNO TITOLO GENERE
1892 Fior di Sardegna Romanzo
1894 Racconti sardi Volume di racconti
1895 Anime oneste
Tradizioni popolari di Nuoro in Sardegna
Romanzo
Raccolta di tradizioni folcloriche sarde
1896 La via del mare Romanzo
1897 Il tesoro Romanzo
1899 Le tentazioni Volume di racconti
1900 Il vecchio della montagna Romanzo
1902 Dopo il divorzio Romanzo
1903 Elias Portolu Romanzo
1904 Cenere Romanzo
1905 Nostalgie
Il giuoco della vita
Romanzo
Volume di racconti
1908 L’edera Romanzo
1910 Il nostro padrone Romanzo
1911 Nel deserto Romanzo
1912 Colombi e sparvieri
L’edera

Chiaroscuro

Romanzo
Opera teatrale, in collaborazione con Camillo Antona Traversi
Volume di racconti
1913 Canne al vento Romanzo
1914 Le colpe altrui Romanzo
1915 Marianna Sirca

Il fanciullo nascosto

Romanzo pubblicato a puntate su ‘Lettura’
Volume di racconti
1918 L’incendio nell’oliveto Romanzo
1919 Il ritorno del figlio
La bambina rubata
Volume di racconti
Volume di racconti
1920 La madre Romanzo
1921 La grazia

Il segreto dell’uomo solitario
Cattive compagnie

Libretto di un’opera musicata da Vincenzo Michetti
Romanzo
Volume di racconti
1922 Il Dio dei viventi Romanzo
1923 Il flauto nel bosco Volume di racconti
1924 La danza della collana Romanzo
1925 La fuga in Egitto Romanzo
1926 Il sigillo d’amore Volume di racconti
1927 Annalena Bilsini Romanzo
1930 La casa del poeta Volume di racconti
1931 Il paese del vento Romanzo
1932 La vigna sul mare Volume di racconti
1933 Sole d’estate Volume di racconti
1934 L’argine Romanzo
1936 La chiesa della solitudine Romanzo
1937 Cosima Romanzo pubblicato postumo
1939 Il cedro del Libano Volume di racconti pubblicato postumo
 
 
 

 

Canne al vento, incipit

 

Tutto il giorno Efix, il servo delle dame Pintor, aveva lavorato a rinforzare l’argine primitivo da lui stesso costruito un po’ per volta a furia d’anni e di fatica, giù in fondo al poderetto lungo il fiume: e al cader della sera contemplava la sua opera dall’alto, seduto davanti alla capanna sotto il ciglione glauco di canne a mezza costa sulla bianca “Collina dei Colombi”.
Eccolo tutto ai suoi piedi, silenzioso e qua e là scintillante d’acque nel crepuscolo, il poderetto che Efix considerava più suo che delle sue padrone: trent’anni di possesso e di lavoro lo han fatto ben suo, e le siepi di fichi d’India che lo chiudono dall’alto in basso come due muri grigi serpeggianti di scaglione in scaglione dalla collina al fiume, gli sembrano i confini del mondo.

Cenere, incipit

 

Cadeva la notte di San Giovanni. Olì uscì dalla cantoniera biancheggiante sull’orlo dello stradale che da Nuoro conduce a Mamojada, e s’avviò pei campi. Era una ragazza quindicenne, alta e bella, con due grandi occhi felini, glauchi e un po’ obliqui, e la bocca voluttuosa il cui labbro inferiore, spaccato nel mezzo, pareva composto da due ciliegie. Dalla cuffietta rossa, legata sotto il mento sporgente, uscivano due bende di lucidi capelli neri attortigliati intorno alle orecchie: questa acconciatura ed il costume pittoresco, dalla sottana rossa e il corsettino di broccato che sosteneva il seno con due punte ricurve, davano alla fanciulla una grazia orientale. Fra le dita cerchiate di anellini di metallo, Olì recava striscie di scarlatto e nastri coi quali voleva segnare i fiori di San Giovanni, cioè i cespugli di verbasco, di timo e d’asfodelo da cogliere l’indomani all’alba per farne medicinali ed amuleti.

Fonte: Encarta

 

 

Dal sito Liber Liber è possibile scaricare gratuitamente gli ebook dei romanzi di Grazia Deledda. Cliccate qui.

Nobel italiani per la Letteratura: Giosuè Carducci

Cari followers,

metto un attimo in pausa la rubrica sugli autori italiani tra Ottocento e Novecento – di cui potete leggere i primi due articoli qui. Con la nuova, breve rubrica rimango comunque in tema: in sei appuntamenti vi parlerò dei Nobel italiani per la Letteratura. Le motivazioni che mi hanno spinta a dedicare tempo e spazio a questo argomento sono pressoché le medesime che mi hanno pungolata per la rubrica sugli autori italiani. Da sempre la letteratura alimenta l’animo e pone le basi per il rinnovamento delle idee, dunque in un tumultuoso periodo come quello che stiamo vivendo credo possa essere corroborante e anche ispiratore conoscere le personalità che nel nostro Paese si sono distinte in questo campo artistico.

Ma cos’è il Premio Nobel?

 

Il premio Nobel è un’onorificenza di valore mondiale, attribuita annualmente a persone che si sono distinte nei diversi campi dello scibile, «apportando considerevoli benefici all’umanità», per le loro ricerche, scoperte ed invenzioni, per l’opera letteraria, per l’impegno in favore della pace mondiale.
Il premio fu istituito in seguito alle ultime volontà di Alfred Nobel (1833-1896), chimico e industriale svedese, inventore della dinamite, firmate al Club Svedese-Norvegese di Parigi il 27 novembre 1895. La prima assegnazione dei premi risale al 1901, quando furono consegnati il premio per la pace, per la letteratura, per la chimica, per la medicina e per la fisica. Dal 1969 si assegna anche il premio per l’economia in memoria di Alfred Nobel. La cerimonia di consegna dei premi si tiene a Stoccolma il 10 dicembre, anniversario della morte del fondatore, ad esclusione del premio per la pace che si assegna anch’esso il 10 dicembre, ma ad Oslo.
I premi Nobel nelle specifiche discipline (fisica, chimica, medicina, letteratura, economia) sono comunemente ritenuti i più prestigiosi assegnabili in tali campi. Anche il premio Nobel per la pace conferisce grande prestigio ma, tuttavia, per l’opinabilità delle valutazioni politiche la sua assegnazione è stata qualche volta accompagnata da accese polemiche.

I premi Nobel italiani per la letteratura

 

Il Nobel per la letteratura è stato finora assegnato a sei italiani, tra i quali figurano tre poeti (Carducci, Montale e Quasimodo), due autori di teatro (Pirandello e Fo) e un narratore, unica donna del gruppo, Grazia Deledda. La recente assegnazione del premio a Dario Fo è stata accompagnata, soprattutto in Italia, da pareri discordanti sui meriti letterari del grande attore, che all’estero è molto stimato soprattutto per la sua produzione come autore teatrale.

Seguiamo l’ordine cronologico e parliamo di Giosuè Carducci, che vinse il premio Nobel nel 1906.

La vita

 

250px-Giosuè_Carducci1

 

 

Giosuè Carducci (Valdicastello, Lucca 1835 – Bologna 1907) era figlio di un medico affiliato alla Carboneria. Trascorse la fanciullezza in Maremma, il cui paesaggio farà rivivere in tante sue poesie. Dopo essersi laureato alla Scuola Normale Superiore di Pisa con una tesi sulla poesia cavalleresca (1856), insegnò in un ginnasio, esperienza, questa, che sarebbe confluita nelle autobiografiche Risorse di San Miniato (1863). Il suo interesse per la filologia lo indusse a fondare, nel 1859, la rivista “Il Poliziano”, che tuttavia ebbe vita breve.

All’insegnamento, dal quale era stato sospeso per tre anni a causa delle sue idee filorepubblicane, tornò a dedicarsi tra il 1860 e il 1904, quando, su nomina del ministro Terenzio Mamiani, fu titolare della cattedra di eloquenza dell’Università di Bologna. In politica combatté il papato e la monarchia, ma a questa si riavvicinò verso la fine degli anni Settanta e, in seguito, nominato senatore nel 1890, si schierò con il governo conservatore di Francesco Crispi. Vinse il premio Nobel nel 1906.

c_users_cesare_documents_sito_emeroteca_italiana_immagini_sito_emerotecaitaliana_19070216corsera-360x0

 

 

 

La poesia

 

Carducci fu ostile al sentimentalismo romantico e allo spiritualismo che caratterizzavano la poesia italiana di quegli anni, e fu acceso sostenitore di un ritorno alle forme classiche e al naturalismo pagano. L’antiromanticismo carducciano – che fu, da subito, antimanzonismo – non si tradusse, tuttavia, nella fredda ripresa di moduli e motivi classici. L’opera poetica di Carducci presenta invece un convivere di elementi tra loro diversi, sicché a una sensibilità romantica si ascrivono l’attenzione a una resa lirica di paesaggi interiori (si pensi alla memoria dell’infanzia che impronta poesie come Davanti San Guido o San Martino, al raccoglimento di Nevicata, contenuta nelle Odi barbare, al luminoso fantasticare di Sogno d’estate) e l’idea di una missione civile del poeta. Se questi è il supremo “artiere” (evidente la suggestione dantesca di “miglior fabbro”) nell’arte di forgiare versi, egli è altresì il rapsodo, il vate la cui parola non si esaurisce nel cerchio della letteratura: si pensi a poesie dal contenuto tra loro diversissimo, ma tutte “impegnate”, come il famoso Inno a Satana (1863), che suscitò scandalo per il suo radicale laicismo, l’ode Alla Regina d’Italia (1878) e la rima A Vittore Hugo (1881).
All’anima classica va riferita invece la struggente nostalgia per le età eroiche del passato che permea, ad esempio, le poesie “romane” delle Odi barbare o quelle che ricreano in pochi tratti il mondo di un Medioevo comunale.

Giosuè Carducci in Mugello.

Giosuè Carducci in Mugello.

 

 

Le raccolte

 

Le raccolte giovanili (Juvenilia, 1850-1857; Levia Gravia, 1857-1870) esprimono le concezioni laiche e repubblicane di Carducci, e costituiscono un complesso apprendistato poetico, in cui egli sperimentò molte forme della tradizione lirica italiana. In Giambi ed epodi (1882), che comprendeva componimenti già pubblicati nella raccolta Poesie (1871), prevalsero i toni polemici.
Le Rime nuove (1861-1887) sono probabilmente la raccolta migliore, quella in cui Carducci seppe alternare con maggiore ricchezza l’ispirazione intima e privata alla poesia storica e politica. Questo doppio registro caratterizza anche, sia pure con minore felicità espressiva, l’ultima raccolta di versi, Rime e ritmi (1898). Grande importanza hanno le Odi barbare (1877-1893), che cercano di riprodurre in versi italiani i metri della lirica greco-latina.
Grande influenza ebbe il magistero carducciano nel campo della critica. Suoi allievi furono Giovanni Pascoli, Severino Ferrari, Renato Serra, Manara Valgimigli e, se la sua lezione si iscrive entro i confini storici del positivismo, l’attenzione ai valori testuali evidente negli studi su Petrarca, Poliziano, Parini fa di Carducci un precursore della critica stilistica. A rendere meno paludata la figura di un poeta stretto nella propria ufficialità contribuisce lo sterminato, vivace ed estroso epistolario.

Cronologia delle opere

 

  • 1850-60 – Juvenilia, Raccolta di poesie
  • 1863 – Inno a Satana
  • 1861-71 –Levia gravia, Raccolta di poesie; con lo pseudonimo di Enotrio Romano
  • 1871 – Poesie, Raccolta di poesie
  • 1872 – Primavere elleniche, Raccolta poetica poi confluita nelle Rime nuove
  • 1873 – Nuove poesie di Enotrio Romano, Raccolta di poesie
  • 1874 – Studi letterari, Raccolta di saggi
  • 1877 – Odi barbare, Raccolta di poesie
  • 1882 – Giambi ed epodi, Raccolta di poesie – Nuove odi barbare, Raccolta di poesie – Le risorse di San Miniato al Tedesco e la prima edizione delle mie rime, Scritto autobiografico poi confluito in Confessioni e battaglie – Confessioni e battaglie, Raccolta di scritti polemici e autobiografici, vol. I; vol. II 1883; vol. III 1884
  • 1887 – Rime nuove, Raccolta di poesie
  • 1889 – Terze odi barbare, Raccolta di poesie
  • 1893 – Odi barbare, Raccolta poetica comprendente le Odi barbare del 1877, le Nuove odi barbare e le Terze odi barbare
  • 1899 – Rime e ritmi, Raccolta di poesie
  • 1903 – Parini minore, Saggio di critica letteraria
  • 1907 – Parini maggiore, Saggio di critica letteraria

 

 

Riporto alcuni degli scritti più significativi.

 

 

Traversando la Maremma toscana

 

Tratto dalla più ricca e varia raccolta di liriche di Giosuè Carducci – le Rime nuove, composte tra il 1861 e il 1887 – questo sonetto rievoca la mattinata del 10 aprile 1885, quando il poeta, in viaggio da Livorno a Roma, attraversò la Maremma e rivide i luoghi della sua infanzia: Castagneto, oggi Castagneto Carducci, e Bolgheri, celebrata in un’altra famosa poesia di Carducci, Davanti a San Guido.

 

Dolce paese, onde portai conforme
l’abito fiero e lo sdegnoso canto
e il petto ov’odio e amor mai non s’addorme,
pur ti riveggo, e il cuor mi balza in tanto. 

Ben riconosco in te le usate forme
con gli occhi incerti tra l’sorriso e il pianto,
e in quelle seguo de’ miei sogni l’orme
erranti dietro il giovenile incanto.

Oh, quel che amai, quel che sognai, fu in vano;
e sempre corsi, e mai non giunsi il fine;
e dimani cadrò. Ma di lontano
pace dicono al cuor le tue colline
con le nebbie sfumanti e il verde piano
ridente ne le pioggie mattutine.

21 aprile 1885

Giosuè Carducci con gli amici di Maremma.

Il comune rustico

 

Questa lirica fa parte della raccolta Rime nuove e fu composta da Giosuè Carducci tra il 10 e il 12 agosto 1885, dopo una vacanza estiva in Friuli. Il poeta, affascinato dalla bellezza del paesaggio e attratto dalla semplicità e dalla laboriosità degli abitanti, immaginò il passato medievale della regione e rievocò nella poesia un momento della vita di una piccola comunità attorno all’anno Mille: il comune rustico appunto, animato dai valori che Carducci – in aperta polemica con il Medioevo popolato di diavoli e di streghe caro al Romanticismo – attribuiva all’età medievale, ossia la libertà, la giustizia, il senso del dovere, l’amor di patria.

O che tra faggi e abeti erma su i campi
smeraldini la fredda orma si stampi
al sole del mattin puro e leggero,
o che foscheggi immobile nel giorno
morente su le sparse ville intorno
a la chiesa che prega o al cimitero

che tace, o noci de la Carnia, addio!
Erra tra i vostri rami il pensier mio
sognando l’ombre d’un tempo che fu.
Non paure di morti ed in congreghe
diavoli goffi con bizzarre streghe,
ma del comun la rustica virtù

accampata a l’opaca ampia frescura
veggo ne la stagion de la pastura
dopo la messa il giorno de la festa.
Il consol dice, e poste ha pria le mani
sopra i santi segnacoli cristiani:
– Ecco, io parto fra voi quella foresta

d’abeti e di pini ove al confin nereggia.
E voi trarrete la mugghiante greggia
e la belante a quelle cime là.
E voi, se l’unno o se lo slavo invade,
eccovi, figli, l’aste, ecco le spade,
morrete per la nostra libertà. –

Un fremito d’orgoglio empieva i petti,
ergea le bionde teste; e de gli eletti
in su le fronti il sol grande feriva.
Ma le donne piangenti sotto i veli
invocavan la Madre alma de’ cieli.
Con la mano tesa il console seguiva:

– Questo, al nome di Cristo e di Maria,
ordino e voglio che nel popol sia. –
A man levata il popol dicea Sì.
E le rosse giovenche di su ’l prato
vedean passare il piccolo senato,
brillando sugli abeti il mezzodì.

Piano d’Arta, 10-12 agosto 1885

 

Piemonte

 

Fa parte della raccolta Rime e ritmi ed è forse la più celebre delle poesie epiche di Carducci, gonfia di patriottismo e di ammirazione per i Savoia. Fu composta nell’estate del 1890 a Ceresole Reale, una località di villeggiatura montana dominata dal Gran Paradiso. Nella fantasia di Carducci il panorama si amplia fino a comprendere tutte le Alpi piemontesi, da dove scendono i fiumi che bagnano Aosta, Ivrea, Biella, Cuneo, Mondovì, Torino, e Asti, patria di Vittorio Alfieri, il cui patriottismo evoca in Carducci il ricordo della prima guerra d’indipendenza e di Carlo Alberto di Savoia. La seconda parte della poesia è tutta dedicata al re sabaudo, del quale è sottolineata l’incertezza politica poi riscattata dalla partecipazione alla guerra contro l’Austria: perciò il re viene accolto tra gli eroi piemontesi della libertà d’Italia che, guidati da Santorre di Santarosa, ne accompagnano l’anima davanti Dio, al quale chiedono di rendere “l’Italia a gl’italiani”.


Su le dentate scintillanti vette
salta il camoscio, tuona la valanga
da’ ghiacci immani rotolando per le
selve croscianti:

ma da i silenzi de l’effuso azzurro
esce nel sole l’aquila, e distende
in tarde ruote digradanti il nero
volo solenne.

Salve, Piemonte! A te con melodia
mesta da lungi risonante, come
gli epici canti del tuo popol bravo,
scendono i fiumi.

Scendon pieni, rapidi, gagliardi,
come i tuoi cento battaglioni, e a valle
cercan le deste a ragionar di gloria
ville e cittadi:

la vecchia Aosta di cesaree mura
ammantellata, che nel varco alpino
èleva sopra i barbari manieri
l’arco d’Augusto:

Ivrea la bella che le rosse torri
specchia sognando a la cerulea Dora
nel largo seno, fosca intorno è l’ombra
di re Arduino:

Biella tra ‘l monte e il verdeggiar de’ piani
lieta guardante l’ubere convalle,
ch’armi ed aratri e a l’opera fumanti
camini ostenta:

Cuneo possente e pazïente, e al vago
declivio il dolce Mondovì ridente,
e l’esultante di castella e vigne
suol d’Aleramo;

e da Superga nel festante coro
de le grandi Alpi la regal Torino
incoronata di vittoria, ed Asti
repubblicana.

Fiere di strage gotica e de l’ira
di Federico, dal sonante fiume
ella, o Piemonte, ti donava il carme
novo d’Alfieri.

Venne quel grande, come il grande augello
ond’ebbe nome; e a l’umile paese
sopra volando, fulvo, irrequïeto,
– Italia, Italia –

egli gridava a’ dissueti orecchi,
a i pigri cuori, a gli animi giacenti:
– Italia, Italia – rispondeano l’urne
d’Arquà e Ravenna:

e sotto il volo scricchiolaron l’ossa
sé ricercanti lungo il cimitero
de la fatal penisola a vestirsi
d’ira e di ferro.

– Italia, Italia! – E il popolo de’ morti
surse cantando a chiedere la guerra;
e un re a la morte nel pallor del viso
sacro e nel cuore

trasse la spada. Oh anno de’ portenti,
oh primavera de la patria, oh giorni,
ultimi giorni del fiorente maggio,
oh trionfante

suon de la prima italica vittoria
che mi percosse il cuor fanciullo! Ond’io
vate d’Italia a la stagion piú bella,
in grige chiome

oggi ti canto, o re de’ miei verd’anni,
re per tant’anni bestemmiato e pianto,
che via passasti con la spada in pugno
ed il cilicio

al cristian petto, italo Amleto. Sotto
il ferro e il fuoco del Piemonte, sotto
di Cuneo ‘l nerbo e l’impeto d’Aosta
sparve il nemico.

Languido il tuon de l’ultimo cannone
dietro la fuga austriaca morìa:
il re a cavallo discendeva contra
il sol cadente:

a gli accorrenti cavalieri in mezzo,
di fumo e polve e di vittoria allegri,
trasse, ed, un foglio dispiegato, disse
resa Peschiera.

Oh qual da i petti, memori de gli avi,
alte ondeggiando le sabaude insegne,
surse fremente un solo grido: Viva
il re d’Italia!

Arse di gloria, rossa nel tramonto,
l’ampia distesa del lombardo piano;
palpitò il lago di Virgilio, come
velo di sposa

che s’apre al bacio del promesso amore:
pallido, dritto su l’arcione, immoto,
gli occhi fissava il re: vedeva l’ombra
del Trocadero.

E lo aspettava la brumal Novara
e a’ tristi errori mèta ultima Oporto.
Oh sola e cheta in mezzo de’ castagni
villa del Douro,

che in faccia il grande Atlantico sonante
a i lati ha il fiume fresco di camelie,
e albergò ne la indifferente calma
tanto dolore!

Sfaceasi; e nel crepuscolo de i sensi
tra le due vite al re davanti corse
una miranda visïon: di Nizza
il marinaro

biondo che dal Gianicolo spronava
contro l’oltraggio gallico: d’intorno
splendeagli, fiamma di piropo al sole,
l’italo sangue.

Su gli occhi spenti scese al re una stilla,
lenta errò l’ombra d’un sorriso. Allora
venne da l’alto un vol di spirti, e cinse
del re la morte.

Innanzi a tutti, o nobile Piemonte,
quei che a Sfacteria dorme e in Alessandria
diè a l’aure primo il tricolor, Santorre
di Santarosa.

E tutti insieme a Dio scortaron l’alma
di Carl’Alberto. – Eccoti il re, Signore,
che ne disperse, il re che ne percosse.
Ora, o Signore,

anch’egli è morto, come noi morimmo,
Dio, per l’Italia. Rendine la patria.
A i morti, a i vivi, pe ‘l fumante sangue
da tutt’i campi,

per il dolore che le regge agguaglia
a le capanne, per la gloria, Dio,
che fu ne gli anni, pe ‘l martirio, Dio,
che è ne l’ora,

a quella polve eroïca fremente,
a quella luce angelica esultante,
rendi la patria, Dio; rendi l’Italia
a gl’italiani.

carducci

 

 

 

Nella piazza di San Petronio

 

Composta tra il 6 e il 7 febbraio 1877, Nella piazza di San Petronio è un omaggio che Giosuè Carducci offrì a Bologna, la città nella quale visse dal 1860 fino alla morte. La piazza bolognese è rappresentata al tramonto, quando il sole, illuminando le torri, i palazzi e la cattedrale che vi si affacciano, sembra risvegliare il ricordo del glorioso passato medievale della città. Nell’aria fredda di febbraio si diffonde allora la nostalgia di tramonti primaverili e dei balli che si tenevano sulla piazza nelle serate tiepide e profumate.

 

Surge nel chiaro inverno la fosca turrita Bologna,
e il colle sopra bianco di neve ride.

È l’ora soave che il sol morituro saluta
le torri e ‘l tempio, divo Petronio, tuo;

le torri i cui merli tant’ala di secolo lambe,
e del solenne tempio la solitaria cima.

Il cielo in freddo fulgore adamàntino brilla;
e l’aër come velo d’argento giace

su ‘l fòro, lieve sfumando a torno le moli
che levò cupe il braccio clipeato de gli avi.

Su gli alti fastigi s’indugia il sole guardando
con un sorriso languido di viola,

che ne la bigia pietra nel fosco vermiglio mattone
par che risvegli l’anima de i secoli,

e un desio mesto pe ‘l rigido aëre sveglia
di rossi maggi, di calde aulenti sere,

quando le donne gentili danzavano in piazza
e co’ i re vinti i consoli tornavano.

Tale la musa ride fuggente al verso in cui trema
un desiderio vano de la bellezza antica.

Alla stazione una mattina d’autunno

 

L’importanza delle Odi barbare risiede, più che nei contenuti, negli aspetti metrici e formali. Nelle poesie della raccolta, infatti, Carducci sperimenta versi non tradizionali e non legati dalla rima, cercando di riprodurre i metri della lirica greca e latina. Le variazioni metriche obbligano a una lettura più attenta e scandita dei versi, con il risultato di conferire forte rilievo alla parola singola. Per quanto riguarda il linguaggio, invece, Carducci rimane legato a un lessico aulico e ricco di latinismi, con l’importante eccezione della poesia Alla stazione una mattina d’autunno, dove il poeta utilizza, sorprendentemente, termini moderni come “fanali”, “tessera”, “sportelli sbattuti”, che acquistano maggiore risalto proprio perché inseriti in un contesto metrico e linguistico classicheggiante.

Oh quei fanali come s’inseguono
accidïosi là dietro gli alberi,
tra i rami stillanti di pioggia
sbadigliando la luce su ‘l fango!

Flebile, acuta, stridula fischia
la vaporiera da presso. Plumbeo
il cielo e il mattino d’autunno
come un grande fantasma n’è intorno.

Dove e a che move questa, che affrettasi
a’ carri fóschi, ravvolta e tacita
gente? a che ignoti dolori
o tormenti di speme lontana?

Tu pur pensosa, Lidia, la tessera
al secco taglio dài de la guardia,
e al tempo incalzante i begli anni
dài, gl’istanti gioiti e i ricordi.

Van lungo il nero convoglio e vengono
incappucciati di nero i vigili,
com’ombre; una fioca lanterna
hanno, e mazze di ferro: ed i ferrei

freni tentati rendono un lugubre
rintócco lungo: di fondo a l’anima
un’eco di tedio risponde
doloroso, che spasimo pare.

E gli sportelli sbattuti al chiudere
paion oltraggi: scherno par l’ultimo
appello che rapido suona:
grossa scroscia su’ vetri la pioggia.

Già il mostro, conscio di sua metallica
anima, sbuffa, crolla, ansa, i fiammei
occhi sbarra; immane pe ‘l buio
gitta il fischio che sfida lo spazio.

Va l’empio mostro; con traino orribile
sbattendo l’ale gli amor miei portasi.
Ahi, la bianca faccia e ‘l bel velo
salutando scompar ne la tenebra.

O viso dolce di pallor roseo,
o stellanti occhi di pace, o candida
tra’ floridi ricci inchinata
pura fronte con atto soave!

Fremea la vita nel tepid’aere,
fremea l’estate quando mi arrisero;
e il giovine sole di giugno
si piacea di baciar luminoso

in tra i riflessi del crin castanei
la molle guancia: come un’aureola
più belli del sole i miei sogni
ricingean la persona gentile.

Sotto la pioggia, tra la caligine
torno ora, e ad esse vorrei confondermi;
barcollo com’ebro, e mi tócco,
non anch’io fossi dunque un fantasma.

Oh qual caduta di foglie, gelida,
continua, muta, greve, su l’anima!
io credo che solo, che eterno,
che per tutto nel mondo è novembre.

Meglio a chi ‘l senso smarrì de l’essere,
meglio quest’ombra, questa caligine:
io voglio io voglio adagiarmi
in un tedio che duri infinito.

Fonti: Encarta, Wikipedia