Suite francese – Irène Némirovsky

Salve amici,

in occasione dell’uscita del film Suite francese, vi propongo la lettura del romanzo a cui è ispirato.

SUITE FRANCESE

Irène Némirovsky

Cattura

Trama

“Suite francese”, pubblicato postumo nel 2004, è l’ultimo romanzo di Irene Némirovsky, nata a Kiev nel 1903, emigrata a Parigi nel 1919, morta ad Auschwitz nel 1942. È un affresco spietato, in diretta, della disfatta francese nel giugno 1940 e dell’occupazione tedesca, in cui le tragedie della Storia si intrecciano alla vita quotidiana e ai destini individuali. È un caleidoscopio inesauribile di comportamenti condizionati dalla paura, dal sordido egoismo, dalla viltà, dall’indifferenza, dagli istinti di sopravvivenza e di sopraffazione, dall’ordinaria crudeltà, dall’ansia di amore. Con lucida indignazione ma anche con passione, Némirovsky mette a nudo le dinamiche profonde dell’esistenza umana di fronte alla prova della guerra. Perché è nei momenti di crisi che si arriva davvero, a conoscere gli altri, specchio di noi stessi. Prefazione e traduzione di Lanfranco Binni.

Recensione

Come sapete la Némirovsky è un’autrice che apprezzo molto (l’ho presentata qui) e mi fa sempre piacere leggere uno dei suoi libri.

In Suite francese non c’è solo una storia. In realtà si tratta dei primi due movimenti di quello che avrebbe dovuto essere un poema composto da cinque parti (Tempesta di giugno, Dolce, Prigionia, Battaglie, La Pace). L’autrice infatti dopo aver terminato Tempesta di giugno e Dolce viene arrestata e internata ad Auschwitz, dove muore.

Nel primo movimento, Tempesta di giugno, la Némirovsky descrive il momento del grande esodo da Parigi poco prima dell’invasione tedesca: è il caos.

Il modo in cui l’autrice intreccia vite e storie, esperienze e tragedie, è una delle sue più grandi abilità. La descrizione di dettagli e scene è così vivida e abbondante (ma non pesante) che le pagine fanno vivere al lettore l’atmosfera delle vicende, fanno letteralmente respirare l’aria che respirano i personaggi, sentire sulla pelle le stesse sensazioni. La Némirovsky è maestra nella descrizione della propria epoca attraverso un occhio critico e pungente, che mostra in maniera cruda ma non crudele le contrapposizioni di classe e le battaglie interne di ogni individuo. Storie di coraggio, dolore, passione e lotta, che trascende gli standard di genere e offre il ritratto reale di un’epoca e più generazioni, in maniera individuale ma anche collettiva.

Nel secondo movimento, Dolce, l’autrice pone l’accento su un aspetto più intimo della vita umana sebbene non tralasci mai il contesto: l’amore, la passione tra uomo e donna. Non lascia stupiti il fatto che, nel momento in cui inizia la storia d’amore che ci aspettavamo (quella tanto pubblicizzata dalla quarta e dal trailer del film) non ci si rende nemmeno conto di essere stati trasportati fin lì, perché ormai si era un tutt’uno con l’universo di personaggi creati dall’autrice, con ogni piccolo e grande dramma di ciascuno di essi. Le emozioni e le attenzioni tra i due protagonisti hanno i toni lievi, come pastelli, delle storie d’amore d’altri tempi senza perdere nulla in romanticismo e passione.

È un vero peccato che le altre parti del poema non siano state scritte, difatti non sapremo mai l’epilogo di alcune vicende presentate in Tempesta di giugno e Dolce. In ogni caso gli scritti della Némirovsky meritano sempre.

Valutazione:

4

Per quanto riguarda il film non l’ho ancora visto, ma lo farò sicuramente. Ecco il trailer:

L’amore ai tempi del colera – Gabriel García Márquez

Gabriel García Márquez è scomparso da poco ma ha lasciato il segno nella letteratura mondiale. Commentiamo uno dei suoi libri.

 

L’AMORE AI TEMPI DEL COLERA

Gabriel García Márquez

Mondadori

AmoreColera

Trama

Per cinquantun anni, nove mesi e quattro giorni Fiorentino Ariza ha perseverato nel suo amore per Fermina Daza, la più bella ragazza dei Caraibi, senza mai vacillare davanti a nulla, resistendo alle minacce del padre di lei e senza perdere le speranze neppure di fronte al matrimonio d’amore di Fermina con il dottor Urbino. Un eterno incrollabile sentimento che Fiorentino continua a nutrire contro ogni possibilità fino all’inattesa, quasi incredibile, felice conclusione. Una storia d’amore e di speranza con la quale, per una volta, Gabriel García Márquez abbandona la sua abituale inquietudine e il suo continuo impegno di denuncia sociale per raccontare un’epopea di passione e di ottimismo. Un romanzo atipico da cui emergono il gusto intenso per una narrazione corposa e fiabesca, le colorate descrizioni dell’assolato Caribe e della sua gente. Un affresco nel quale, non senza ironia, si dipana mezzo secolo di storia, di vita, di mode e abitudini, aggiungendo una nuova folla di protagonisti a una tra le più straordinarie gallerie di personaggi della letteratura contemporanea.

 

L’autore

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Gabriel José de la Concordia García Márquez, soprannominato Gabo (Aracataca, 6 marzo 1927 – Città del Messico, 17 aprile 2014), è stato uno scrittore, giornalista e saggista colombiano, insignito del Premio Nobel per la letteratura nel 1982.

Tra i maggiori scrittori in lingua spagnola, García Márquez è considerato il maggior esponente del cosiddetto realismo magico, la cui opera ha fortemente contribuito a rilanciare l’interesse per la letteratura latinoamericana.

Dotato di uno stile scorrevole, ricco e costantemente pervaso di un’amara ironia, i suoi romanzi sono caratterizzati da articolate strutture narrative, con frequenti intrecci fra realtà e fantasia, fra storia e leggenda, con la presenza di molteplici piani di lettura, anche allegorici, e con un uso sapiente di prolessi ed analessi.

Il suo romanzo più famoso, Cent’anni di solitudine, è stato votato, durante il IV Congresso internazionale della Lingua Spagnola, tenutosi a Cartagena nel marzo del 2007, come seconda opera in lingua spagnola più importante mai scritta, preceduta solo da Don Chisciotte della Mancia di Miguel de Cervantes.

Lo stile letterario e le tematiche

Gabriel García Márquez fu uno dei quattro scrittori latinoamericani coinvolti per primi nel boom letterario latinoamericano degli anni Sessanta e Settanta; gli altri tre autori erano il peruviano Mario Vargas Llosa, l’argentino Julio Cortázar e il messicano Carlos Fuentes (ad essi è da aggiungersi la figura discostata di Jorge Luis Borges). Sarà Cent’anni di solitudine il romanzo che gli porterà fama internazionale di romanziere del movimento magico-realista della letteratura latinoamericana, che influenzerà gli scrittori di periodi successivi, come Paulo Coelho e Isabel Allende. Egli appartiene alla generazione che recuperò la narrativa fantastica del romanticismo, come quella di E.T.A. Hoffmann, e il romance europeo, lo stile dei poemi lirici, epici e mitologici che andavano di moda fino all’alba del romanzo moderno nel XVIII secolo, quando la particolare mescolanza di reale e invenzione venne relegata nella letteratura del romanzo gotico o in altri sottogeneri.

Come una metaforica e critica interpretazione della storia colombiana, dalla fondazione allo Stato contemporaneo, Cent’anni di solitudine riporta diversi miti e leggende locali attraverso la storia della famiglia Buendía, che per il loro spirito avventuroso si collocano entro le cause decisive degli eventi storici della Colombia — come le polemiche del XIX secolo a favore e contro la riforma politica liberale di uno stile di vita coloniale; l’arrivo della ferrovia in una regione montuosa; la Guerra dei mille giorni (Guerra de los Mil Días, 1899–1902); l’egemonia economica della United Fruit Company (“Compagnia bananiera” nel libro); il cinema; l’automobile; e il massacro militare dei lavoratori in sciopero come politica di relazioni fra governo e manodopera. La ripetitività del tempo e dei fatti è appunto il grande tema del romanzo, un tema in cui l’autore riconosce la caratteristica della vita colombiana e attraverso cui vediamo delinearsi altri elementi: l’utilizzo di un “realismo magico” che mostra un microcosmo arcano in cui la linea di demarcazione fra vivi e morti non è più così nitida e in cui ai vivi è dato il dono tragico della chiaroveggenza, il tutto con un messaggio cinicamente drammatico di fondo, di decadenza, nostalgia del passato e titanismo combattivo di personaggi talvolta eroici ma votati alla sconfitta. Su questa linea, dopo un inizio nella letteratura realistica di stile hemingwayano, proseguirà tutta l’opera di García Márquez (tranne gli scritti prettamente autobiografici), in equilibrio tra l’allegoria, il reale e il mito, influenzato dalle tematiche surreali di Franz Kafka e dal simbolismo. Lo stile presenta notevoli intrecci, digressioni, prolessi e analessi, con l’uso di frasi quasi poetiche nella prosa, un linguaggio ricercato e prosaico alternato a seconda del personaggio, e lo svolgimento di storie “corali” e parallele. Il narratore è spesso esterno e onnisciente, cioè conosce già gli avvenimenti futuri.

Recensione

Avevo più volte sentito nominare questo libro che ormai è entrato ufficialmente tra i più famosi libri mai scritti. Mi sono accostata alle pagine con vivo interesse.
Questo libro è stato capace di mostrarmi vivamente dinanzi agli occhi le atmosfere calde e variegate di un’isola caraibica alla fine dell’Ottocento e all’inizio del Novecento. Gabriel Garcia Marquez descrive con maestria e poesia, armonia, ogni strada, ogni palazzo, ogni carrozza, ogni giardino, ogni nave nonché il mare. Questa caratteristica – assieme a poche altre quali la descrizione approfondita dei personaggi principali e le ricche informazioni sulle pratiche quotidiane del tempo – è stata quella che mi è piaciuta maggiormente e per la quale “L’amore ai tempi del colera” merita di essere letto.

Lo stile è una delle maggiori qualità dell’autore: non so spiegare in cosa sia particolare, di preciso, ma leggendo ci si ritrova a pensare “Ovvio che questo è un premio Nobel”.

Ad ogni modo l’interesse per la storia è andato perdendosi pagina per pagina. Nonostante infatti la storia sia verosimile, non ho trovato nulla dell’amore epico e tanto decantato. Anche se ha la forza di resistere tra alti e bassi per più di cinquant’anni si tratta di un ossessivo amore platonico, provato tra l’altro solo da Florentino Ariza. Fermina Daza, dal canto suo, dopo l’iniziale innamoramento decide all’improvviso che non vuole più aver nulla a che fare con il suo fidanzato officioso. Questi inizia così una vita votata a lei che ben presto cadrà nella perdizione sessuale. Fermina dal canto suo lo dimentica troppo facilmente sposando il dottor Urbino. Altra cosa che ha svelato ogni curiosità, è il capitolo principale che parte dalla fine della storia, spiegandone in poche pagine l’evoluzione che poi sarà ciò che riempirà prolissamente tutti i capitoli successivi. D’altro canto la quarta di copertina svela sin da subito che ci sarà un lieto fine.
Ripeto: dinanzi all’innegabile e straordinaria maestria letteraria dell’autore che finora mi è sembrato il più abile scrittore io abbia mai letto, troviamo una scarsità di trama e di passione. Si tratta comunque di un buon libro.

Valutazione:

4

 

Dal libro è stato tratto un film la cui visione, come la lettura del testo, risulta un po’ impegnativa.

 

 

Accadde oggi: nel 1828 nasce Lev Tolstoj

Oggi ricordiamo l’anniversario della nascita di uno dei grandi della letteratura: Lev Tolstoj.

 

Lev Tolstoj

 

La caratteristica che distingue la vera arte da quella contraffatta è una sola e indubitabile: il contagio dell’arte. […] non sarà un’opera d’arte se non suscita nell’uomo quel sentimento, completamente differente dagli altri, di gioia nell’unione spirituale con un altro (l’autore) e con altri ancora (gli ascoltatori o spettatori) che contemplano la stessa opera d’arte.

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Lev Nikolaevič Tolstoj (Jasnaja Poljana, Tula 1828 – Astapovo, Rjazan 1910) fu un romanziere russo, uno dei maggiori autori della letteratura mondiale. Orfano a due anni della madre e a nove del padre, fu allevato dalla zia, che affidò la sua educazione a precettori tedeschi e francesi. Nel 1844 si iscrisse all’Università di Kazan, dove frequentò prima i corsi di lingue orientali e poi di giurisprudenza, senza tuttavia concludere gli studi. Dopo un breve quanto inefficace tentativo di migliorare le condizioni dei contadini che, in stato di servitù, lavoravano nella proprietà familiare di Jasnaja Poljana, Tolstoj si trasferì a Mosca dove prese a frequentare l’alta società, con l’ingenuo proposito, come annotava nel diario, di migliorarne i costumi.

 

Poiché i piaceri sono pochi e tutti alla fine annoiano e i desideri sono infiniti, ciò significa che per quanto un uomo sia ricco e in buona salute non sarà mai soddisfatto, anzi al contrario, più diverrà ricco più sarà annoiato, perché più numerosi sono i godimenti che uno ha e meno essi lo rallegrano.

 

Nel 1851 si unì al reggimento del fratello, di stanza nel Caucaso, esperienza che in seguito gli avrebbe dato lo spunto per il romanzo breve I cosacchi (1863), in cui il languore sofisticato di un giovane moscovita viene contrapposto al semplice vigore di chi vive in armonia con la natura. Fece tuttavia il suo esordio letterario con una trilogia autobiografica (Infanzia, 1852; Adolescenza, 1854; Giovinezza, 1856) in cui tracciava senza retorica o sentimentalismi il processo di crescita comune a ogni giovane. Il favore della critica si rinnovò con i successivi Racconti di Sebastopoli (1855-56), ritratto amaro del falso eroismo degli alti ranghi militari e dell’abnegazione coraggiosa dei soldati semplici sullo sfondo della guerra di Crimea, nella quale egli stesso combatté.

Nel 1856 Tolstoj cominciò a interessarsi di pedagogia e, durante alcuni viaggi all’estero (1857 e 1861), visitò le scuole elementari in Francia e in Germania per documentarsi e avviare un progetto educativo rivolto ai figli dei contadini di Jasnaja Poljana. Negli anni successivi al 1862 scrisse i suoi due maggiori romanzi, Guerra e pace (1865-1869) e Anna Karenina (1875-1877).

 

L’uomo ama, non perché sia suo interesse amar questo o quello, ma perché l’amore è l’essenza dell’anima sua; perché non può non amare.

 

 

Le opere

 

1852 Infanzia Racconto
1853 L’incursione Racconto
1854 Adolescenza Racconto
1855-56 Racconti di Sebastopoli Racconti
1856 Giovinezza Racconto
1859 La felicità domestica Racconto
1863 I cosacchi Romanzo
1865-69 Guerra e pace Romanzo
1875-77 Anna Karenina Romanzo
1880-82 Confessione Saggio sulla religione
1886 La morte di Ivan Il’ic Racconto
1888 La potenza delle tenebre Dramma
1887-89 La sonata a Kreutzer Racconto
1894 Il regno di Dio è in voi Saggio sulla religione
1895 Padrone e servitore Racconto
1898 Che cos’è l’arte? Saggio sull’estetica
1899 Resurrezione Romanzo

 

 

I capolavori

 

Ritenuto uno dei maggiori romanzi mai scritti, Guerra e pace è una grandiosa descrizione epica della società russa fra il 1805 e il 1815, negli anni cioè che di poco precedettero e seguirono l’invasione napoleonica. Capolavoro del realismo, fa agire centinaia di personaggi, alcuni dei quali storici, e descrive le battaglie di quegli anni, ma è soprattutto la cronaca della vita di cinque famiglie aristocratiche. I personaggi sono tratteggiati con grande concretezza e analizzati con acuta introspezione. La figura di Nataša Rostova, ad esempio, che alla vita chiede amore, matrimonio e figli, esprime la visione ottimistica dell’autore sullo scorrere della vita umana, ed esemplifica in termini narrativi la sua concezione del processo storico, secondo la quale la storia è soprattutto il risultato di forze anonime e accadimenti individuali, non il succedersi di eventi grandiosi determinati da figure carismatiche. La consapevolezza degli orrori della guerra e delle manchevolezze umane non soffoca il fondamentale ottimismo che pervade il romanzo né il suo messaggio, ispirato dalla felicità personale di Tolstoj in quegli anni creativi, che è quello di appassionato amore per la vita in tutte le sue manifestazioni.

Anna Karenina è uno dei capolavori psicologici moderni, in cui venne raggiunta una nuova compattezza narrativa. La visione esuberante di Guerra e pace cede qui a toni pessimistici e il conflitto interiore dei protagonisti rimane irrisolto. La passione adultera di Anna per il giovane ufficiale Vronskij, entro la cornice dell’alta società di San Pietroburgo, è in netto contrasto con l’amore, consacrato dal matrimonio, di Kitty e Constantin Levin, i quali impersonano la radicata convinzione di Tolstoj della superiorità della vita rurale, a contatto con la natura, rispetto al mondo urbano, fatuo e superficiale. Ciò non impedisce all’autore di manifestare profonda pietà per la sua eroina, condannata alla sofferenza e infine al suicidio per aver violato le regole sociali e morali.

 

Per quanto riguarda le trasposizioni cinematografiche dei libri di Tolstoj, ho apprezzato molto l’ultimo film su Anna Karenina (2013). L’impostazione delle scene infatti è particolare e tutti i personaggi sembrano muoversi su un palcoscenico, in un omaggio alle metafore di Tolstoj.

 

 

 

Fonte: Encarta

Nuova rubrica: Best seller inizialmente respinti #1 – Christie

Eccomi qui amici con una nuova interessante rubrica. Essendo autrice e lettrice, sono spesso a contatto con scrittori emergenti che faticano a farsi largo nel sovraffollato mondo dell’editoria. Spesso non importa quanto bene essi scrivano o quanto sia originale la loro storia: se non si ha la giusta “spinta” è difficile fare il salto e pubblicare con un grande editore (soprattutto qui in Italia). La vita dello scrittore emergente è densa di ostacoli e molti si lasciano buttare giù, finendo per mollare. Ma avete mai pensato a quanti libri best seller siano stati inizialmente respinti e rifiutati da editori e agenti letterari? La percentuale è molto più alta di quanto pensiate e soprattutto i rifiuti riguardano libri che, grazie alla perseveranza dei loro autori, hanno avuto giustizia e venduto infine milioni di copie. Durante le tappe di questa rubrica spulceremo un po’ tra i rifiuti più clamorosi della storia dell’editoria. Pronti per partire?

 

L’autrice che inaugura la rubrica è Agatha Christie. Chi non la conosce? Eppure l’inizio della carriera letteraria della famosa giallista non fu rose e fiori. Sopportò ben 5 anni di continui rifiuti prima di ottenere un contratto editoriale. Ebbe così l’occasione di dimostrare il proprio valore: i suoi libri sono tra i più venduti di tutti i tempi. Pare che soltanto William Shakespeare abbia venduto di più. Conosciamo meglio lei e le sue opere.

Agatha Christie

Agatha-Christie

 

Dama Agatha Mary Clarissa Miller, Lady Mallowan, nota come Agatha Christie (Torquay, 1891 – Wallingford, 1976), è stata una scrittrice britannica. Tra le sue opere si annoverano, oltre ai romanzi gialli che l’hanno resa celebre, anche alcuni romanzi rosa pubblicati sotto lo pseudonimo di Mary Westmacott.

Carriera

Giallista di fama mondiale, scrisse sempre i suoi romanzi con grande abilità, creando un’atmosfera intrigante attraverso personaggi e ambienti di facile riconoscibilità: descrizioni accurate, senso della suspense e della sintesi, ambientazioni realistiche dettagliate, personaggi mai privi di spessore o di caratterizzazione. I suoi personaggi maggiori sono famosi in tutto il mondo: i più celebri, protagonisti di buona parte della sua produzione letteraria e di una serie corposissima di adattamenti cinematografici e televisivi, sono l’investigatore belga Hercule Poirot e la simpatica vecchietta, nonché acuta indagatrice, Miss Marple. Ancora oggi i suoi romanzi sono pubblicati con successo in tutto il mondo. È la scrittrice inglese più tradotta. Nella lingua originale e in 44 lingue differenti i suoi libri contano complessivamente all’incirca due miliardi di copie vendute.

Biografia

Figlia di padre statunitense e madre britannica, Agatha cresce in una famiglia borghese e non frequenta alcuna scuola ma viene istruita dalla madre, Clara Boehmer, donna della buona società, nonché dalla nonna e dalle governanti di casa. Il padre, Fred Miller, agente di cambio, muore nel 1901; Agatha trascorre l’adolescenza tra lo studio e la vita di società all’interno della famiglia.

Nel frattempo si appassiona alla musica e, nel 1906, va a Parigi per studiare canto: vuole diventare una cantante lirica, ma gli studi non le danno molte soddisfazioni, e decide così di tornare in Inghilterra. Conosce Archibald Christie, colonnello della Royal Flying Corps, con cui si fidanza.

Durante la prima guerra mondiale, Agatha lavora presso l’ospedale di Torquay, e lì impara molto sui veleni e sui medicinali, cosa che le tornerà molto utile quando, ispirata da queste conoscenze, deciderà di scrivere romanzi gialli stimolata anche da una sorta di scommessa che aveva fatto con sua sorella la quale riteneva che non sarebbe riuscita a diventare una scrittrice di detective story. Il 24 dicembre 1914 si sposa con Archibald con una cerimonia semplice e da questo matrimonio nascerà nel 1919 la sua unica figlia, Rosalind.

In pieno conflitto mondiale inizia a scrivere il suo primo romanzo: The Mysterious Affair at Styles (Poirot a Styles Court); che ha come ambientazione la prima guerra mondiale ma che verrà però pubblicato solo successivamente, nel 1920. L’ispirazione di inventare un personaggio da romanzo giallo venne a Christie, oltre che dalla sua conoscenza sui veleni appresa al dispensario, dalla lettura dei libri che i degenti, rispediti al fronte, lasciavano in ospedale: libri che davano vita a personaggi ricchi di suggestione come l’Arsenio Lupin di Maurice Leblanc o il giornalista-investigatore Joseph Rouletabille, uscito dalla penna di Gaston Leroux. Le venne così l’idea di inventare a sua volta un personaggio che fosse abile come lo Sherlock Holmes di Conan Doyle ma che non gli somigliasse troppo, sia nell’aspetto che nella conduzione delle indagini.

Con un finanziamento del British Museum nel 1923 parte insieme al marito per un viaggio intorno al mondo; nello stesso anno firma un contratto con la rivista “Sketch” per scrivere dodici racconti che abbiano come protagonista Hercule Poirot.

Nel 1926 la vita di Christie è scossa da due eventi per certi versi traumatizzanti: muore sua madre e suo marito chiede il divorzio. Agatha improvvisamente scompare dalla sua casa, vagabondando in stato di amnesia (qualcuno però malignerà che potrebbe essersi trattato di una montatura pubblicitaria); il caso desta grande scalpore e dopo una decina di giorni Agatha, che viene ritrovata ad Harrogate, località termale dell’Inghilterra settentrionale, dove soggiornava in un albergo del posto registrata con il nome dell’amante del marito, non sa dare alcuna spiegazione al riguardo. Il suo biografo nel 2001 ha riscoperto un documento, secondo il quale Christie scappò e si nascose nell’hotel dove venne poi ritrovata, nella speranza che il marito Archie venisse incolpato dell’omicidio e dell’occultamento del cadavere della moglie; il tutto fatto perché Archie la tradiva con la sua segretaria.

Sempre nel 1926 parte per le isole Canarie con la figlia Rosalind. Dopo il divorzio Agatha conserverà comunque il cognome del marito, ma solo per ragioni commerciali.

Nei tre anni successivi la sua produzione letteraria sembra conoscere una certa stasi qualitativa e di vendite; poi, durante un viaggio in treno verso Bagdad, trova l’ispirazione per Assassinio sull’Orient Express, considerato uno dei suoi capolavori. Durante lo stesso viaggio fece la conoscenza dell’archeologo Max Mallowan, di molti anni più giovane, che sposerà poco tempo dopo (1930). Nell’hotel Pera Palace di Istanbul, la stanza in cui la Christie aveva alloggiato per qualche tempo durante il suo viaggio in Oriente è stata trasformata in un piccolo museo di cimeli e ricordi della scrittrice.

Nello stesso anno, Christie inizia anche la stesura di La morte nel villaggio, il primo romanzo con protagonista Miss Marple, una vecchietta tranquilla e assennata che vive nel paese in apparenza molto tranquillo di St. Mary Mead; fragile di aspetto, ma esperta di criminologia e di natura umana, Jane Marple alterna l’attività investigativa al lavoro a maglia.

All'attrice inglese Margaret Rutherford è legata l'immagine cinematografica di Miss Marple, il personaggio di eccentrica investigatrice creato dalla scrittrice Agatha Christie.

All’attrice inglese Margaret Rutherford è legata l’immagine cinematografica di Miss Marple, il personaggio di eccentrica investigatrice creato dalla scrittrice Agatha Christie.

Nel 1949 diventa di pubblico dominio lo pseudonimo di Mary Westmacott, col quale Christie firmò diversi romanzi di carattere sentimentale destinati, seppur di un certo interesse, a riscuotere un successo inferiore.

Dal 1952 viene ininterrottamente rappresentata in un teatro londinese una sua commedia, The Mousetrap (Trappola per topi), ispirata a un racconto della raccolta Three Blind Mice and Other Stories. Christie ha scritto altri diciassette lavori teatrali. L’ultimo romanzo che ha come protagonista Hercule Poirot (Sipario) venne pubblicato poco prima della morte dell’autrice; è proprio in quel romanzo che Agatha decide di far morire il suo famoso investigatore. La notizia della morte di Poirot era peraltro apparsa sulla prima pagina del Times il 6 agosto dello stesso anno.

Agatha Christie è scomparsa il 12 gennaio 1976 a Wallingford nella sua casa di campagna; verrà sepolta nel cimitero di Cholsey, nell’Oxfordshire. Nella stessa tomba, due anni dopo, verrà tumulata anche la salma del marito. In vita Agatha Christie ha guadagnato più di 20 milioni di sterline.

La britannica Agatha Christie (a sinistra) e la neozelandese Ngaio Marsh (a destra), qui ritratte al Savoy Hotel di Londra nel 1960, sono considerate tra le maggiori scrittrici di romanzi polizieschi del XX secolo. Agatha Christie è la creatrice dei celeberrimi Hercule Poirot e Miss Marple, mentre il personaggio più famoso creato da Ngaio Marsh è l'ispettore Roderick Alleyn, coadiuvato nelle indagini dall'ispettore Fox.

La britannica Agatha Christie (a sinistra) e la neozelandese Ngaio Marsh (a destra), qui ritratte al Savoy Hotel di Londra nel 1960, sono considerate tra le maggiori scrittrici di romanzi polizieschi del XX secolo. Agatha Christie è la creatrice dei celeberrimi Hercule Poirot e Miss Marple, mentre il personaggio più famoso creato da Ngaio Marsh è l’ispettore Roderick Alleyn, coadiuvato nelle indagini dall’ispettore Fox.

 

Curiosità

  • Nel 1954 Agatha Christie viene premiata con il “Grand Master of the Mystery Writers of America”, famoso premio letterario americano.
  • Agatha Christie ha scritto anche una propria autobiografia, pubblicata postuma nel 1976 (La mia vita), dove non fa parola della sua scomparsa del 1926.
  • Nel 1979 uscì un film sulla vita dell’autrice, Il segreto di Agatha Christie con protagonista Vanessa Redgrave, incentrato proprio sulla misteriosa ‘fuga’ del ’26 dopo la scoperta dei tradimenti del marito.
  • Il personaggio di Hercule Poirot è talmente famoso che persino in Nicaragua è stato emesso un francobollo con l’effigie del celebre investigatore.
  • Dai suoi romanzi sono stati tratti moltissimi film e sceneggiati televisivi, adattamenti che però Agatha, in alcuni casi, non ha mostrato di gradire.

 

I romanzi preferiti dall’autrice

In risposta alla lettera di un ammiratore giapponese, nel 1972 Agatha Christie stilò la sua personale (e per certi versi sorprendente) classifica:

  • Dieci piccoli indiani
  • L’assassinio di Roger Ackroyd
  • Un delitto avrà luogo
  • Assassinio sull’Orient Express
  • Miss Marple e i 13 problemi
  • Verso l’ora zero
  • Nella mia fine è il mio principio
  • E’ un problema
  • Le due verità
  • Il terrore viene per posta

 

 

Fonti: Encarta, Wikipedia

 

E voi quali libri avete letto di Agatha Christie? Quali sono i vostri preferiti?

Lettere d’amore, Il Corriere della Sera: #3 Sibilla Aleramo e Dino Campana

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Cari amici, state seguendo le uscite della collana Lettere d’amore de Il Corriere della Sera? Vi ricordo che al prezzo  di € 6,90 + il prezzo del quotidiano potrete acquistare in edicola, ogni martedì, 20 volumi con le corrispondenze appassionate dei grandi dell’Ottocento e del Novecento, da Neruda a Kafka, da Einstein a Frida Kalho, da Pessoa a Edith Piaf. Abbiamo parlato della prima uscita, dedicata a Pablo Neruda, in questo articolo, e della seconda, dedicata a Rainer Maria Rilke e Lou Andreas Salomé, in questo articolo. Se perdete qualche volume potete ordinarlo direttamente qui.

 

Domani in edicola la terza uscita tutta italiana.

Quel viaggio chiamato amore, di Sibilla Aleramo e Dino Campana

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Per molti anni Sibilla Aleramo conservò gelosamente la corrispondenza che testimoniava la sua storia d’amore con Dino Campana, insieme ad alcuni versi e scritti del poeta marradese, qualche cartolina e una copia dedicata dei Canti. I problemi di salute mentale di Campana, responsabili della fine della relazione tra i due, non hanno in realtà influito sui sentimenti della Aleramo dapprincipio, che si prestò anche economicamente al sostegno dell’amante. Tuttavia, man mano che il tempo passava, divenne chiaro quanto una relazione del genere fosse insostenibile. Non si trattò di un abbandono repentino da parte della Aleramo, ma della maturazione di una consapevolezza. Senza fantasticherie macabre, questo libro ci guida in una storia d’amore così estrema, forte, in punta di piedi compiendo un viaggio, “un viaggio chiamato amore” come lo definì Campana stesso.

Qualche verso di Sibilla Aleramo:

Cattura

Sibilla Aleramo

Sibilla_Aleramo

Sibilla Aleramo è lo pseudonimo di Rina Faccio (Alessandria 1876 – Roma 1960), poetessa e scrittrice italiana. Autodidatta, si impegnò con intensità nelle problematiche della condizione femminile, tanto da essere definita femminista ante litteram. Sempre attiva nella vita sociale e politica, affiancò il poeta Giovanni Cena nel suo impegno filantropico e sociale nell’Agro romano, firmò nel 1925 il manifesto degli intellettuali antifascisti, militò a partire dal primo dopoguerra nel Partito comunista. Ebbe una vita sentimentale inquieta: si sposò nel 1893, ma dopo pochi anni lasciò la famiglia; intrecciò relazioni sentimentali con letterati e artisti, tra cui Vincenzo Cardarelli, Scipio Slataper, Giovanni Boine, Umberto Boccioni. Una relazione particolarmente intensa e drammatica fu quella con Dino Campana, di cui rimane la testimonianza dello scambio epistolare raccolto e pubblicato nel 1958 (Lettere). Il suo primo romanzo, Una donna (1906), di carattere autobiografico, riscontrò grande successo ed è ancora oggi considerato una delle sue prove più convincenti. I suoi scritti, sia in prosa sia in versi, possono essere ricondotti all’inquietudine che scaturisce dall’indagine autobiografica nel difficile rapporto con il mondo, caratteristiche riconducibili all’orizzonte espressionistico della letteratura vociana. Tra le sue opere si ricordano per la prosa Il passaggio (1919), Amo dunque sono (1927), Il frustino (1932), Dal mio diario 1940-44 (1945), Gioie d’occasione e altre ancora (1954); nel 1947 pubblicò la raccolta di poesie Selva d’amore, insignita del premio Viareggio, nella quale confluirono le prove poetiche degli anni precedenti, e ancora le poesie di Aiutatemi a dire del 1951 e di Luci della mia sera del 1956.

Dino Campana

dino-campanaDino Campana (Marradi, Firenze 1885 – Castel Pulci, Firenze 1932) fu un poeta italiano. Maestro elementare, frequentò le facoltà di chimica a Bologna e di farmacia a Firenze. Nel 1906, in seguito a disturbi nervosi che l’avrebbero perseguitato tutta la vita, fu ricoverato una prima volta nel manicomio di Imola. Dimesso anche se non guarito, iniziò una vita vagabonda tra Europa e America meridionale. Per sopravvivere fece i mestieri più umili e vari (poliziotto, meccanico, venditore di stelle filanti); a Saint-Gilles, in Francia, venne arrestato per vagabondaggio.

Verso la fine del 1912 cominciò a comporre i versi e le prose liriche che costituiscono il primo nucleo dei Canti orfici, una raccolta di straordinaria novità nel panorama della poesia italiana. Il manoscritto, intitolato Il più lungo giorno, che aveva sottoposto al giudizio di Giovanni Papini e Ardengo Soffici, fu perso da quest’ultimo durante un trasloco. Il testo dell’edizione del 1914 (stampata a sue spese) fu perciò ricostruito da Campana sulla base degli appunti preparatori, che erano numerosi per via della sua abitudine di scrivere e modificare ossessivamente le poesie. Campana riprese poi a girovagare, non solo in Italia. Nel 1917 venne arrestato per vagabondaggio a Novara e nel gennaio dell’anno seguente fu ricoverato nell’ospedale psichiatrico dove rimase fino alla morte, a Castel Pulci, nei pressi di Firenze.

La novità della sua poesia, legata più alle esperienze straniere che alla tradizione italiana, la sua formazione irregolare e da autodidatta, e la sua esistenza disordinata misero subito in difficoltà la critica che ne tentava un’inquadramento all’interno di schemi interpretativi. Nacque così un ‘mito’ che impedì a lungo una corretta valutazione della sua opera, considerata solo oggi di primissimo piano. Si tratta di una poesia sperimentale ma non avanguardistica, di una ricerca, cioè, nuova ma non deliberatamente provocatoria nei confronti del pubblico. Campana racconta esperienze visionarie in versi musicali in cui la componente coloristica è fondamentale. Ma ciò avviene non per un’operazione preliminare, fredda e programmatica: la sua è una poesia spontanea e vissuta, legata strettamente all’esistenza irregolare dell’autore (il tema del viaggio è centrale), che ricorre a figurazioni potenti, alla schietta rappresentazione di immagini primitive e ossessive. Il riferimento all’antica religione greca dei misteri che compare nel titolo della sua opera più famosa richiama la volontà di cantare e rivelare gli aspetti più profondi e segreti del reale.

Fonte: Encarta

 

 

Non perdete la quarta uscita, in edicola martedì prossimo:

Lettere alla fidanzata, di Fernando Pessoa.

Lettere d’amore, Il Corriere della Sera: #2 Rainer Maria Rilke e Lou Andreas Salomé

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Continuano le uscite della collana Lettere d’amore con Il Corriere della Sera, al prezzo  di € 6,90 + il prezzo del quotidiano. 20 volumi con le corrispondenze appassionate dei grandi dell’Ottocento e del Novecento, da Neruda a Kafka, daEinstein a Frida Kalho, da Pessoa a Edith Piaf. Vi ho parlato della prima uscita, dedicata a Pablo Neruda, in questo articolo. E se perdete qualche volume potete ordinarlo direttamente qui.

Oggi in edicola la seconda uscita.

Da qualche parte nel profondo, di Rainer Maria Rilke e Lou Andreas Salomé

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Si tratta della corrispondenza, compresa tra il 1897 e il 1926, tra il poeta e drammaturgo austriaco Rilke e la scrittrice e saggista tedesca Salomé.

Nelle numerose lettere che si scambiarono, selezionate in questa raccolta, il poeta si appoggia alla Salomé nello smarrimento del periodo parigino, nel ricorrente dubbio creativo, nella paura della malattia, riconoscendola come unica interlocutrice attenta e presente nei momenti decisivi del suo tormentato percorso. Non mancano pagine intrise di poesia:

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Rainer Maria Rilke

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Rainer Maria Rilke (Praga 1875 – Valmont, Montreux 1926) fu un poeta austro-tedesco di origine boema; il nitore, la musicalità e il rigoroso simbolismo del suo verso fanno di lui uno dei più importanti lirici moderni. Dopo un’infanzia solitaria e segnata dall’infelice esperienza dell’Accademia militare, studiò letteratura e storia dell’arte presso le università di Praga, Monaco e Berlino. Esordì come poeta con una raccolta di liriche d’amore intitolata Vita e canti (1894). Nel 1897 conobbe Lou Andreas-Salomé, con la quale fece due viaggi in Russia, dove incontrò Tolstoj. Tali esperienze trovarono espressione poetica in Storie del buon Dio (1900-1904). Dopo il 1900 Rilke purificò la sua poesia dallo sfumato lirismo che aveva in parte mutuato dai simbolisti francesi ed elaborò lo stile preciso e concreto che contraddistingue i componimenti del Libro delle immagini (1902, ampliato nel 1906) e del Libro d’ore (1905).

Trasferitosi a Parigi, nel 1902 conobbe lo scultore Auguste Rodin e lavorò come suo segretario dal 1905 al 1906. Da Rodin, Rilke imparò a considerare il lavoro dell’artista un’esperienza capace di trascendere l’angoscia della morte. Il frutto poetico di questo periodo fu raccolto in Nuove poesie (2 volumi, 1907-1908). Fino allo scoppio della prima guerra mondiale Rilke fece numerosi viaggi in Europa e in Africa, soggiornando dal 1910 al 1912 nel castello di Duino, nei pressi di Trieste, dove compose le prime due delle dieci Elegie duinesi (1923). Con la sua più celebre opera in prosa, un romanzo in forma di diario iniziato a Roma nel 1904 dal titolo I quaderni di Malte Laurids Brigge (1910), narrò con immagini altamente simboliche e ricche di spunti autobiografici le esperienze di vita parigina di un giovane scrittore danese.

Rilke risiedette a Monaco per quasi tutta la durata della prima guerra mondiale e nel 1919 si trasferì in Svizzera dove, con l’eccezione di qualche visita occasionale a Parigi e Venezia, rimase fino al termine dei suoi giorni, completando le Elegie duinesi e componendo i Sonetti a Orfeo (1923); questi due cicli poetici, considerati l’apice della sua produzione, cantano l’unità della vita e della morte, presentando la morte come trasformazione della vita in un’impalpabile realtà interiore.

Lou Andreas Salomé

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Lou Andreas Salomé (San Pietroburgo 1861 – Gottinga 1937) fu una scrittrice e psicoanalista tedesca. Frequentò l’università di Zurigo e cominciò presto a scrivere versi. Nel 1882 si recò a Roma, dove conobbe il filosofo Paul Rée e, attraverso di lui, Friedrich Nietzsche. Dopo il matrimonio, nel 1887, con il professore universitario Friedrich Carl Andreas, continuò a viaggiare e a scrivere, ed ebbe relazioni con personaggi in vista del mondo culturale, fra cui il poeta Rainer Maria Rilke. Nel 1911 conobbe Sigmund Freud e divenne sua confidente nonché discepola. Negli ultimi decenni della sua vita rimase accanto ad Andreas ed esercitò la psicoanalisi.

Benché sia autrice di otto romanzi, nei quali trattò temi quali la religione, il sesso e la psicologia femminile, è ricordata soprattutto per la sua opera saggistica. La monografia (1892) dedicata alle eroine di Henrik Ibsen e quella (1894) sulle opere di Nietzsche ricevettero il plauso della critica. Tra le altre opere figurano Il mio ringraziamento a Freud (1931) e Uno sguardo sulla mia vita (1951).

Fonte: Encarta

 

 

La terza uscita, in edicola martedì prossimo, sarà tutta italiana:

Quel viaggio chiamato amore – Lettere 1916-18, di Sibilla Aleramo e Dino Campana.

 

Lettere d’amore, Il Corriere della Sera: corrispondenze appassionate dei grandi dell’Ottocento e del Novecento – #1 Pablo Neruda

 

Il Corriere della Sera inaugura una nuova collana di libri dal titolo “Lettere D’amore”, in edicola dal 15 luglio al prezzo  di € 6,90 + il prezzo del quotidiano.

Si tratta di 20 volumi con le corrispondenze appassionate dei grandi dell’Ottocento e del Novecento, da Neruda a Kafka, da Einstein a Frida Kalho, da Pessoa a Edith Piaf.

Grazie a Corriere della Sera possiamo conoscere letterati, artisti, scienziati, personaggi in una nuova e sorprendente veste, quella di innamorati. Un viaggio in un sentimento forte, che da sempre smuove animi e continenti. Storie di attesa, di tenerezza, desiderio, di assenza e di follia. Perché chiunque abbia amato ha affidato almeno una volta nella vita la propria passione, i propri tormenti e le proprie illusioni a una lettera.

Il Corriere della Sera ha inoltre lanciato un’iniziativa collegata alla collana.

Sul  proprio sito, nella  sezione “cultura”,  la redazione ha pensato di dedicare uno spazio ai propri lettori, spazio nel quale condividere le proprie dichiarazioni, lettere d’amore, messaggi inviati, ricevuti o semplicemente i messaggi d’amore che più li ha emozionati. Questa è una cosa davvero interessante a mio parere anche a livello sociale, pedagogico – non dite poi che la formazione accademica non influenza l’approccio alle cose di una persona, perché nel mio caso è proprio così! Per esempio: come si è evoluta la comunicazione amorosa ai tempi del web? Passate a dare un’occhiata, cliccando qui.

La prima uscita: Pablo Neruda

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Che gioia vedere questo prato verde, queste montagne oscurate dalla nebbia del crepuscolo, e sentirmi io, in prima persona, libero da tanta stupidità, agile e solo. Ah! Se ci fossi tu, Albertina!

La prima uscita, in edicola martedì 15 luglio, è “Lettere d’amore ad Albertina Rosa” di Pablo Neruda, uno dei primi e segreti amori del poeta cileno.

L’amore tra i due risale al 1921 quando i giovani si trasferiscono a Santiago del Cile per frequentare i corsi dell’università. Per il poeta che viene dalla provincia è la scoperta di un amore cittadino, concreto, sessuale, fiorito nella misera vita studentesca. La passione divorante si riversa subito sulla carta e s’incendia soprattutto durante le vacanze, quando i due innamorati si separano per far ritorno alle rispettive famiglie. Il tempo e gli eventi non sembrano spezzare il legame: l’ultima lettera del poeta cileno è del luglio 1932, due anni dopo il suo matrimonio con Maria Antonieta Agenaar Vogelzanz e quattro anni prima di quello di Albertina con il poeta Ángel Cruchaga Santa María, amico intimo di Neruda. Le strade dei due si dividono ma in queste pagine l’amore di gioventù resta vivo per sempre.

Per molti anni ci si è chiesto chi fosse “Mariposa”, la “farfalla” cui sono dedicati alcuni dei versi d’amore più celebri di Pablo Neruda. Il mistero fu svelato due anni dopo la morte del poeta, quando Albertina Rosa Azócar Soto decise di pubblicare le lettere ricevuta da Neruda.

Il testo in italiano ora edito segue fedelmente gli originali e vale a documentare un momento particolarmente rilevante della biografia di Pablo Neruda.

La tua bella lettera lilla merita il mio inchiostro color ala di cocorita. Per fare il mio dovere con te, ti rispondo immediatamente, di giorno. Ma alla luce bianchissima del giorno non mi viene in mente niente niente che sia degno di Arabella. Per lo più vorrei parlarti nei baci. Così riuscirei a spiegarti il mio bisogno di te, la mia sete di te. Il desiderio di averti al mio fianco.

 

 

L’autore

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Pablo Neruda, pseudonimo di Ricardo Neftalí Reyes Basoalto (Parral 1904 – Santiago 1973), fu un poeta cileno, ritenuto tra le voci più significative del XX secolo. Figlio di un ferroviere, cominciò a comporre versi fin dall’adolescenza. Alla sua prima raccolta pubblicata in volume, Crepuscolario (1923), ancora legata alle forme estetizzanti del decadentismo, seguirono nel 1924 le Venti poesie d’amore e una canzone disperata, grazie alle quali Neruda si affermò come il più famoso giovane poeta dell’America latina. Nelle composizioni di Residenza sulla terra (1933), scritte dopo alcuni anni di servizio diplomatico in Estremo Oriente, il poeta diede vita a immagini cupe e disperate di un mondo distrutto dalla civiltà moderna. Se con quest’opera la sua poesia si orientò verso l’espressionismo e il surrealismo, in seguito la sua produzione sarebbe approdata a uno stile realista, sobrio ed essenziale.

Trascorso un periodo in Spagna all’epoca della guerra civile, Neruda ritornò in Cile, si iscrisse al Partito comunista e fu eletto senatore, ma nel 1948 dovette riparare in esilio a seguito di un processo politico intentatogli dal presidente del Consiglio Gonzales Videla. Il primo frutto di questi anni difficili fu Canto generale (1950), poema epico che celebra la storia e la natura dell’America latina dal presente al lontano passato precolombiano. In Italia tra il 1951 e il 1952, compose I versi del capitano (1952) e Le uve e il vento (1954), mentre dal 1952 al 1957, dopo esser tornato in Cile, compose le Odi elementari, in cui fece assurgere a dignità poetica gli oggetti più umili e gli aspetti più semplici del vivere quotidiano. Sostenitore di Salvador Allende, con l’avvento al potere dei socialisti ottenne la carica di ambasciatore del Cile in Francia. Tornato in patria nel 1972, dopo aver ricevuto, nel 1971, il premio Nobel per la letteratura e il premio Lenin per la pace, morì pochi giorni dopo il colpo di stato di Pinochet, che segnò la fine del governo Allende e l’instaurazione della dittatura.

Fonte: Encarta

 

Le prossime uscite

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La seconda uscita, in edicola il 22 luglio, invece è “Da qualche parte nel profondo” di Rainer Maria Rilke e Lou Andreas Salomé. Il poeta, drammaturgo e scrittore austriaco conosce a Monaco la Salomè, scrittrice e saggista tedesca di origine russa e amica di Nietzsche. Nelle numerose lettere che si scambiarono, selezionate in questa raccolta, il poeta praghese si appoggia a Lou nello smarrimento del periodo parigino, nel ricorrente dubbio creativo, nella paura della malattia, riconoscendola come unica interlocutrice attenta e presente nei momenti decisivi del suo tormentato percorso.

Una collezione preziosa, da non perdere.

Vi lascio l’indirizzo dello store del Corriere, dove potete prenotare una singola copia o addirittura tutte:

Buona lettura!

117 anni fa nasceva Giuseppe Tomasi di Lampedusa

Oggi, nell’anniversario della nascita, omaggiamo un grande scrittore italiano.

Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi.
– Tancredi Falconeri, nipote del Principe Fabrizio, ne “Il Gattopardo”

Giuseppe Tomasi di Lampedusa

lampedusaGiuseppe Tomasi di Lampedusa (Palermo 1896 – Roma 1957) fu uno scrittore italiano. Di antica nobiltà siciliana, ebbe educazione cosmopolita, studiando a Roma e a Palermo e compiendo numerosi viaggi all’estero. Grande conoscitore della cultura di Francia e Inghilterra, visse appartato a Palermo, sostanzialmente estraneo alla società letteraria.

Fu in questo isolamento che concepì e scrisse, nel 1957, Il Gattopardo. Ambientato in Sicilia, nel periodo che va dalla spedizione dei Mille all’unità d’Italia, con brevi lampi sugli anni successivi, tratteggia la decadenza di un mondo – quello dell’aristocrazia siciliana, riassunto e dominato dalla figura del protagonista, il principe Fabrizio Salina – e l’emergere di una nuova classe sociale – quella borghese, impersonificata dal “nuovo ricco” Calogero Sedara. Di impianto verista per la cura nella descrizione di paesaggi e ambienti, il romanzo è però tutto novecentesco per l’accento posto sul decadimento di quel mondo così immobile.

Rifiutato da Elio Vittorini per conto dell’editore Einaudi, il romanzo fu pubblicato postumo, nel 1958, da Giorgio Bassani per Feltrinelli e costituì il più clamoroso caso letterario del dopoguerra e il primo best-seller italiano, premiato con lo Strega nel 1959. Postumi furono pubblicati anche i Racconti (1961), più che altro raccolta di spunti e progetti vanificati dalla morte, le Lezioni su Stendhal (1977), l’Invito alle lettere francesi del Cinquecento (1979) e la Letteratura inglese (1990).

Il Gattopardo

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Il capolavoro di Tomasi di Lampedusa, Il gattopardo, ritratto dell’aristocrazia siciliana alla vigilia dell’unità d’Italia, venne rifiutato da Elio Vittorini e fu pubblicato postumo nel 1958. Ebbe un clamoroso successo, e una superba versione cinematografica realizzata nel 1963 da Luchino Visconti. Nella foto, il principe di Salina (Burt Lancaster) danza con la bella Angelica (Claudia Cardinale).

Approfondimenti

I Siciliani

Alle vicende del Gattopardo (1958), romanzo storico ‘fuori stagione’ di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, fanno da sfondo i Mille di Garibaldi che, sbarcati a Marsala e vinta la resistenza borbonica a Calatafimi, conquistano la Sicilia e procedono trionfalmente la loro avanzata verso il Volturno. L’Unità d’Italia da questione militare diviene allora questione politica ed emissari del nuovo re piemontese vengono inviati a prendere i contatti coi notabili dell’ex Regno delle Due Sicilie, affinché la transizione dei poteri avvenga all’insegna di una continuità di classe. È così che don Fabrizio, principe di Salina, riceve la visita di Aimone de Chevalley, segretario prefettizio, che gli offre a nome di Vittorio Emanuele II un seggio al Senato. Il principe declina la prestigiosa offerta e anzi indica, come ideale candidato a quella carica, il nome di Calogero Sedàra, sindaco di Donnafugata, il feudo dei Salina, e borghese emergente. Ma il colloquio tra don Fabrizio e Chevalley è soprattutto ricca occasione di riflessione sulla natura dell’animo dei siciliani, del loro ‘desiderio di immobilità voluttuosa’, di fatale attrazione per il passato in quanto morto e non foriero di nuovi turbamenti.

Alle quattro del pomeriggio il Principe fece dire a Chevalley che lo aspettava nello studio. Era questo una piccola stanza con ai muri sotto vetro alcune pernici imbalsamate, di quelle grigie a zampette rosse stimate rare, trofei di caccie passate; una parete era nobilitata da una libreria alta e stretta colma di annate di riviste matematiche; al di sopra della grande poltrona destinata ai visitatori, una costellazione di miniature di famiglia: il padre di Don Fabrizio, il principe Paolo, fosco di carnagione e sensuale di labbra quanto un Saraceno, con la nera uniforme di Corte tagliata a sghembo dal cordone di S. Gennaro; la principessa Carolina, già vedova, i capelli biondissimi accumulati in una pettinatura a torre ed i severi occhi azzurri; la sorella del Principe, Giulia, la principessa di Falconeri seduta su una panca da giardino, con alla destra la macchia amaranto di un piccolo parasole poggiato aperto per terra ed alla sinistra quella gialla di un Tancredi di tre anni che reca dei fiori di campo (questa miniatura Don Fabrizio se l’era cacciata in tasca di nascosto mentre gli uscieri inventariavano il mobilio di villa Falconeri). Poi più sotto, Paolo il primogenito, in attillati calzoni da cavalcare, in atto di salire su un cavallo focoso dal collo arcuato e dagli occhi sfavillanti; zii e zie varie non meglio identificati, ostentavano gioielloni o indicavano, dolenti, il busto di un caro estinto. Al sommo della costellazione, però, in funzione di stella polare, spiccava una miniatura più grande: Don Fabrizio stesso, poco più che ventenne con la giovanissima sposa che poggiava la testa sulla spalla di lui in atto di completo abbandono amoroso; lei bruna; lui roseo nell’uniforme azzurra e argentea delle Guardie del Corpo del Re sorrideva compiaciuto col volto incorniciato dalle basette biondissime di primo pelo.
Appena seduto Chevalley espose la missione della quale era stato incaricato: ‘Dopo la felice annessione, volevo dire dopo la fausta unione della Sicilia al Regno di Sardegna, è intenzione del governo di Torino di procedere alla nomina a Senatori del Regno alcuni illustri siciliani; le autorità provinciali sono state incaricate di redigere una lista di personalità da proporre all’esame del governo centrale ed eventualmente, poi, alla nomina regia e, come è ovvio, a Girgenti si è subito pensato al suo nome, Principe: un nome illustre per antichità, per il prestigio personale di chi lo porta, per i meriti scientifici, per l’attitudine dignitosa e liberale, anche, assunta durante i recenti avvenimenti.’ Il discorsetto era stato preparato da tempo, anzi era stato oggetto di succinte note a matita sul calepino che adesso riposava nella tasca posteriore dei pantaloni di Chevalley. Don Fabrizio però non dava segno di vita, le palpebre pesanti lasciavano appena intravedere lo sguardo. Immobile la zampaccia dai peli biondastri ricopriva interamente una cupola di S. Pietro in alabastro che stava sul tavolo.
Ormai avvezzo alla sornioneria dei loquaci siciliani quando si propone loro qualcosa, Chevalley non si lasciò smontare: ‘Prima di far pervenire la lista a Torino i miei superiori hanno creduto dover informare lei stesso, e farle chiedere se questa proposta sarebbe di Suo gradimento. Richiedere il suo assenso, nel quale le autorità sperano molto è stato l’oggetto della mia missione qui, missione che per altro mi ha valso l’onore e il piacere di conoscere Lei ed i suoi, questo magnifico palazzo e questa Donnafugata tanto pittoresca.’
Le lusinghe scivolavano via dalla personalità del Principe come l’acqua dalle foglie delle ninfee: questo è uno dei vantaggi dei quali godono gli uomini che sono allo stesso tempo orgogliosi ed abituati ad esserlo. ‘Adesso questo qui s’immagina di venire a farmi un grande onore’ pensava ‘a me, che sono quel che sono, fra l’altro anche Pari del Regno di Sicilia, il che dev’essere press’a poco come essere senatore. È vero che i doni bisogna valutarli in relazione a chi li offre: un contadino che mi dà il suo pezzo di pecorino mi fa un regalo più grande di Giulio Làscari quando m’invita a pranzo. Il guaio è che il pecorino mi dà la nausea; e così non resta che la gratitudine che non si vede e il naso arricciato dal disgusto che si vede fin troppo.’ Le idee sue in fatto di Senato erano del resto vaghissime; malgrado ogni suo sforzo esse lo riconducevano sempre al Senato Romano al senatore Papirio che aveva spezzato una bacchetta sulla testa di un Gallo maleducato, a un cavallo Incitatus che Caligola aveva fatto senatore, onore questo che soltanto suo figlio Paolo non avrebbe trovato eccessivo; lo infastidiva anche il riaffacciarsi insistente di una frase detta talvolta da Padre Pirrone: ‘Senatores boni viri, senatus autem mala bestia.’ Adesso vi era anche il Senato dell’Impero di Parigi, ma non era che una assemblea di profittatori muniti di larghe prebende. Vi era o vi era stato un Senato anche a Palermo ma si era trattato soltanto di un comitato di amministratori civici, e di quali amministratori! Robetta per un Salina. Volle sincerarsi: ‘Ma insomma, cavaliere, mi spieghi un po’ che cosa è veramente essere senatori. La stampa della passata monarchia non lasciava passare notizie sul sistema costituzionale degli altri stati italiani, e un soggiorno di una settimana a Torino due anni fa non è stato sufficiente a illuminarmi. Cosa è? un semplice appellativo onorifico, una specie di decorazione? o bisogna svolgere funzioni legislative, deliberative?’
Il Piemontese, il rappresentante del solo stato liberale italiano, s’inalberò: ‘Ma, Principe, il Senato è la Camera Alta del Regno! In essa il fiore degli uomini politici del nostro paese prescelti dalla saggezza del Sovrano, esaminano, discutono, approvano o respingono quelle leggi che il Governo o essi stessi propongono per il progresso del paese; esso funziona nello stesso tempo da sprone e da briglia, incita al ben fare, impedisce di strafare. Quando avrà accettato di prendervi posto, Lei rappresenterà la Sicilia alla pari dei deputati eletti, farà udire la voce di questa bellissima terra che si affaccia adesso al panorama del mondo moderno, con tante piaghe da sanare, con tanti giusti desideri da esaudire.’
Chevalley avrebbe forse continuato a lungo su questo tono se Bendicò non avesse da dietro la porta chiesto alla ‘saggezza del Sovrano’ di essere ammesso; Don Fabrizio fece l’atto di alzarsi per aprire ma lo fece con tanta mollezza da dar tempo al Piemontese di lasciarlo entrare lui; Bendicò, meticoloso, fiutò a lungo i calzoni di Chevalley; dopo, persuaso di aver da fare con un buon uomo si accovacciò sotto la finestra e dormì.
‘Stia a sentirmi, Chevalley; se si fosse trattato di un segno di onore, di un semplice titolo da scrivere sulla carta da visita e basta, sarei stato lieto di accettare; trovo che in questo momento decisivo per il futuro dello stato italiano è dovere di ognuno dare la propria adesione, evitare l’impressione di screzi dinanzi a quegli stati esteri che ci guardano con un timore o con una speranza che si riveleranno ingiustificati ma che per ora esistono.’
‘Ma allora, principe, perché non accettare?’
‘Abbia pazienza, Chevalley, adesso mi spiegherò; noi Siciliani siamo stati avvezzi da una lunghissima egemonia di governanti che non erano della nostra religione, che non parlavano la nostra lingua, a spaccare i capelli in quattro. Se non si faceva così non si sfuggiva agli esattori bizantini, agli emiri berberi, ai viceré spagnoli. Adesso la piega è presa, siamo fatti così. Avevo detto ‘adesione’ non ‘partecipazione’. In questi sei ultimi mesi, da quando il vostro Garibaldi ha posto piede a Marsala, troppe cose sono state fatte senza consultarci perché adesso si possa chiedere a un membro della vecchia classe dirigente di svilupparle e portarle a compimento; adesso non voglio discutere se ciò che si è fatto è stato male o bene; per conto mio credo che parecchio sia stato male; ma voglio dirle subito ciò che Lei capirà da solo quando sarà stato un anno fra noi. In Sicilia non importa far male o far bene; il peccato che noi Siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di ‘fare’. Siamo vecchi, Chevalley, vecchissimi. Sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori già complete e perfezionate, nessuna germogliata da noi stessi, nessuna a cui abbiamo dato il ‘la’; noi siamo dei bianchi quanto lo è lei, Chevalley, e quanto la regina d’Inghilterra; eppure da duemila cinquecento anni siamo colonia. Non lo dico per lagnarmi: è in gran parte colpa nostra; ma siamo stanchi e svuotati lo stesso.’
Adesso Chevalley era turbato. ‘Ma ad ogni modo questo adesso è finito; adesso la Sicilia non è più terra di conquista ma libera parte di un libero stato’.
‘L’intenzione è buona, Chevalley, ma tardiva; del resto le ho già detto che in massima parte è colpa nostra; Lei mi parlava poco fa di una giovane Sicilia che si affaccia alle meraviglie del mondo moderno; per conto mio mi sembra piuttosto una centenaria trascinata in carrozzella alla Esposizione Universale di Londra, che non comprende nulla, che s’impipa di tutto, delle acciaierie di Sheffield come delle filande di Manchester, e che agogna soltanto di ritrovare il proprio dormiveglia fra i suoi cuscini sbavati e il suo orinale sotto il letto.’
Parlava ancora piano, ma la mano attorno a S. Pietro si stringeva; l’indomani la crocetta minuscola che sormontava la cupola venne trovata spezzata. ‘Il sonno, caro Chevalley, il sonno è ciò che i Siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portar loro i più bei regali; e, sia detto fra noi, ho i miei forti dubbi che il nuovo regno abbia molti regali per noi nel bagagliaio. Tutte le manifestazioni siciliane sono manifestazioni oniriche, anche le più violente: la nostra sensualità è desiderio di oblio, le schioppettate e le coltellate nostre, desiderio di morte; desiderio di immobilità voluttuosa, cioè ancora di morte, la nostra pigrizia, i nostri sorbetti di scorsonera o di cannella; il nostro aspetto meditativo è quello del nulla che voglia scrutare gli enigmi del nirvana. Da ciò proviene il prepotere da noi di certe persone, di coloro che sono semi-desti; da ciò il famoso ritardo di un secolo delle manifestazioni artistiche ed intellettuali siciliane: le novità ci attraggono soltanto quando le sentiamo defunte, incapaci di dar luogo a correnti vitali; da ciò l’incredibile fenomeno della formazione attuale, contemporanea a noi, di miti che sarebbero venerabili se fossero antichi sul serio, ma che non sono altro che sinistri tentativi di rituffarsi in un passato che ci attrae appunto perché è morto.’
Non ogni cosa era compresa dal buon Chevalley; soprattutto gli riusciva oscura l’ultima frase: aveva visto i carretti variopinti trainati dai cavalli impennacchiati e denutriti, aveva sentito parlare del teatro di burattini eroici, ma anche lui credeva che fossero vecchie tradizioni autentiche. Disse: ‘Ma non le sembra di esagerare un po’, principe? io stesso ho conosciuto a Torino dei Siciliani emigrati, Crispi per nominarne uno, che mi son sembrati tutt’altro che dei dormiglioni.’
Il Principe si seccò: ‘Siamo troppi perché non vi siano delle eccezioni; ai nostri semi-desti, del resto avevo di già accennato. In quanto a questo giovane Crispi, non io certamente, ma Lei potrà forse vedere se da vecchio non ricadrà nel nostro voluttuoso vaneggiare: lo fanno tutti. D’altronde vedo che mi sono spiegato male: ho detto i Siciliani, avrei dovuto aggiungere la Sicilia, l’ambiente, il clima, il paesaggio. Queste sono le forze che insieme e forse più che le dominazioni estranee e gl’incongrui stupri hanno formato l’animo: questo paesaggio che ignora le vie di mezzo fra la mollezza lasciva e l’asprezza dannata; che non è mai meschino, terra terra, distensivo, umano, come dovrebbe essere un paese fatto per la dimora di esseri razionali; questo paese che a poche miglia di distanza ha l’inferno attorno a Randazzo e la bellezza della baia di Taormina, ambedue fuor di misura, quindi pericolosi; questo clima che c’infligge sei mesi di febbre a quaranta gradi; li conti, Chevalley, li conti: Maggio, Giugno, Luglio, Agosto, Settembre, Ottobre; sei volte trenta giorni di sole a strapiombo sulle teste; questa nostra estate lunga e tetra quanto l’inverno russo e contro la quale si lotta con minor successo; Lei non lo sa ancora, ma da noi si può dire che nevica fuoco, come sulle città maledette della Bibbia; in ognuno di quei mesi se un Siciliano lavorasse sul serio spenderebbe l’energia che dovrebbe essere sufficiente per tre; e poi l’acqua che non c’è o che bisogna trasportare da tanto lontano che ogni sua goccia è pagata da una goccia di sudore; e dopo ancora, le pioggie, sempre tempestose che fanno impazzire i torrenti asciutti, che annegano bestie e uomini proprio lì dove una settimana prima le une e gli altri crepavano di sete. Questa violenza del paesaggio, questa crudeltà del clima, questa tensione continua di ogni aspetto, questi monumenti, anche del passato, magnifici ma incomprensibili perché non edificati da noi e che ci stanno intorno come bellissimi fantasmi muti; tutti questi governi, sbarcati in armi da chissà dove, subito serviti, presto detestati e sempre incompresi, che si sono espressi soltanto con opere d’arte per noi enigmatiche e con concretissimi esattori d’imposte spese poi altrove; tutte queste cose hanno formato il carattere nostro che rimane così condizionato da fatalità esteriori oltre che da una terrificante insularità di animo.’
L’inferno ideologico evocato in quello studiolo sgomentò Chevalley più della rassegna sanguinosa della mattina. Volle dire qualche cosa, ma Don Fabrizio era troppo eccitato adesso per ascoltarlo.
‘Non nego che alcuni Siciliani trasportati fuori dell’isola possano riuscire a smagarsi: bisogna però farli partire quando sono molto, molto giovani: a vent’anni è già tardi; la crosta è già fatta, dopo: rimarranno convinti che il loro è un paese come tutti gli altri, scelleratamente calunniato; che la normalità civilizzata è qui, la stramberia fuori. Ma mi scusi, Chevalley, mi son lasciato trascinare e la ho probabilmente infastidito. Lei non è venuto sin qui per udire Ezechiele deprecare le sventure d’Israele. Ritorniamo al nostro vero argomento. Sono molto riconoscente al governo di aver pensato a me per il Senato e la prego di esprimere a chi di dovere questa mia sincera gratitudine; ma non posso accettare. Sono un rappresentante della vecchia classe, inevitabilmente compromesso col regime borbonico, e ad esso legato dai vincoli della decenza in mancanza di quelli dell’affetto. Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni; e che cosa se ne farebbe il Senato di me, di un legislatore inesperto cui manca la facoltà d’ingannare sé stesso, questo requisito essenziale per chi voglia guidare gli altri? Noi della nostra generazione dobbiamo ritirarci in un cantuccio e stare a guardare i capitomboli e le capriole dei giovani attorno a quest’ornatissimo catafalco. Voi adesso avete bisogno di giovani, di giovani svelti, con la mente aperta al ‘come’ più che al ‘perché’ e che siano abili a mascherare, a contemperare volevo dire, il loro preciso interesse particolare con le vaghe idealità politiche.’ Tacque, lasciò in pace San Pietro. Continuò: ‘Posso dare a Lei un consiglio da trasmettere ai suoi superiori?’
‘Va da sé, principe; esso sarà certo ascoltato con ogni considerazione; ma voglio ancora sperare che invece di un consiglio vorrà darci un assenso.’
‘C’è un nome che io vorrei suggerire per il Senato: quello di Calogero Sedàra; egli ha più meriti di me per sedervi; il casato, mi è stato detto, è antico o finirà con esserlo; più che quel che Lei chiama il prestigio egli ha il potere; in mancanza dei meriti scientifici ne ha di pratici, eccezionali; la sua attitudine durante la crisi del Maggio scorso più che ineccepibile è stata utilissima; illusioni non credo che ne abbia più di me, ma è abbastanza svelto per sapere crearsele quando occorra. È l’individuo che fa per voi. Ma dovete far presto, perché ho inteso dire che vuol porre la propria candidatura alla camera dei deputati.’ Di Sedàra si era molto parlato in Prefettura, le attività di lui quale sindaco e quale privato erano note; Chevalley sussultò: era un onest’uomo e la propria stima delle camere legislative era pari alla purità delle proprie intenzioni; per questo credette opportuno non fiatare, e fece bene a non compromettersi perché, infatti, dieci anni più tardi, l’ottimo don Calogero doveva ottenere il laticlavio. Benché onesto, però, Chevalley non era stupido; mancava sì di quella prontezza di spirito che in Sicilia usurpa il nome di intelligenza, ma si rendeva conto delle cose con lenta solidità, e poi non aveva l’impenetrabilità meridionale agli affanni altrui. Comprese l’amarezza e lo sconforto di Don Fabrizio, rivide in un attimo lo spettacolo di miseria, di abiezione, di nera indifferenza del quale per un mese era stato testimonio; nelle ore passate aveva invidiato l’opulenza, la signorilità dei Salina, adesso ricordava con tenerezza la propria vignicciuola, il suo Monterzuolo vicino a Casale, brutto, mediocre, ma sereno e vivente; ebbe pietà tanto del principe senza speranze come dei bimbi scalzi, delle donne malariche, delle non innocenti vittime i cui elenchi giungevano così spesso al suo ufficio; tutti eguali, in fondo, compagni di sventura segregati nel medesimo pozzo.
Volle fare un ultimo sforzo: si alzò e l’emozione conferiva pathos alla sua voce: ‘Principe, ma è proprio sul serio che lei si rifiuta di fare il possibile per alleviare, per tentare di rimediare allo stato di povertà materiale, di cieca miseria morale nelle quali giace questo che è il suo stesso popolo? Il clima si vince, il ricordo dei cattivi governi si cancella, i Siciliani vorranno migliorare; se gli uomini onesti si ritirano, la strada rimarrà libera alla gente senza scrupoli e senza prospettive, ai Sedàra; e tutto sarà di nuovo come prima, per altri secoli. Ascolti la sua coscienza, principe, e non le orgogliose verità che ha detto. Collabori.’
Don Fabrizio gli sorrideva, lo prese per la mano, lo fece sedere vicino a lui sul divano: ‘Lei è un gentiluomo, Chevalley, e stimo una fortuna averlo conosciuto; Lei ha ragione in tutto; si è sbagliato soltanto quando ha detto: ‘i Siciliani vorranno migliorare.’ Le racconterò un aneddoto personale. Due o tre giorni prima che Garibaldi entrasse a Palermo mi furono presentati alcuni ufficiali di marina inglesi, in servizio su quelle navi che stavano in rada per rendersi conto degli avvenimenti. Essi avevano appreso, non so come, che io posseggo una casa alla Marina, di fronte al mare, con sul tetto una terrazza dalla quale si scorge la cerchia dei monti intorno alla città; mi chiesero di visitare la casa, di venire a guardare quel panorama nel quale si diceva che i Garibaldini si aggiravano e del quale, dalle loro navi non si erano fatti una idea chiara. Vennero a casa, li accompagnai lassù in cima; erano dei giovanottoni ingenui malgrado i loro scopettoni rossastri. Rimasero estasiati dal panorama, della irruenza della luce; confessarono però che erano stati pietrificati osservando lo squallore, la vetustà, il sudiciume delle strade di accesso. Non spiegai loro che una cosa era derivata dall’altra, come ho tentato di fare a lei. Uno di loro, poi, mi chiese che cosa veramente venissero a fare, qui in Sicilia, quei volontari italiani. ‘They are coming to teach us good manners’ risposi ‘but wont succeed, because we are gods.’ ‘Vengono per insegnarci le buone creanze ma non lo potranno fare, perché noi siamo dèi.’ Credo che non comprendessero, ma risero e se ne andarono. Così rispondo anche a Lei; caro Chevalley: i Siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti: la loro vanità è più forte della loro miseria; ogni intromissione di estranei sia per origine sia anche, se si tratti di Siciliani, per indipendenza di spirito, sconvolge il loro vaneggiare di raggiunta compiutezza, rischia di turbare la loro compiaciuta attesa del nulla; calpestati da una decina di popoli differenti essi credono di avere un passato imperiale che dà loro diritto a funerali sontuosi. Crede davvero Lei, Chevalley, di essere il primo a sperare di incanalare la Sicilia nel flusso della storia universale? Chissà quanti imani mussulmani, quanti cavalieri di re Ruggero, quanti scribi degli Svevi, quanti baroni angioini, quanti legisti del Cattolico hanno concepito la stessa bella follia; e quanti viceré spagnoli, quanti funzionari riformatori di Carlo III; e chi sa più chi siano stati? La Sicilia ha voluto dormire, a dispetto delle loro invocazioni; perché avrebbe dovuto ascoltarli se è ricca, se è saggia, se è onesta, se è da tutti ammirata e invidiata, se è perfetta, in una parola?
‘Adesso anche da noi si va dicendo in ossequio a quanto hanno scritto Proudhon e un ebreuccio tedesco del quale non ricordo il nome, che la colpa del cattivo stato delle cose, qui ed altrove, è il feudalesimo; mia cioè, per così dire. Sarà. Ma il feudalesimo c’è stato dappertutto, le invasioni straniere pure. Non credo che i suoi antenati, Chevalley, o gli squires inglesi o i signori francesi governassero meglio dei Salina. I risultati intanto sono diversi. La ragione della diversità deve ritrovarsi in quel senso di superiorità che barbaglia in ogni occhio siciliano, che noi stessi chiamiamo fierezza, che in realtà è cecità. Per ora, per molto tempo, non c’è niente da fare. Compiango; ma, in via politica, non posso porgere un dito. Me lo morderebbero. Questi sono discorsi che non si possono fare ai Siciliani; ed io stesso, del resto, se queste cose le avesse dette lei, me ne sarei avuto a male.
‘È tardi. Chevalley: dobbiamo andare a vestirci per il pranzo. Debbo recitare per qualche ora la parte di un uomo civile.’
Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, Feltrinelli, Milano 1978.
Fonte: Encarta

Anniversario della nascita di Jane Austen

Oggi, 238 anni fa, nasceva Jane Austen. A pensarci bene è un sacco di tempo, no? E i suoi romanzi sono ancora letti e amati in tutto il mondo, si potrebbe dire anche in “chiave moderna” – non come ad esempio grandi autori che vengono studiati solo a scuola come Dante Alighieri. Chissà cosa avrebbe detto lei, davanti a questo successo mondiale e temporale?

Vediamo di approfondire un po’ la conoscenza di questa autrice, della quale personalmente ho letto quasi tutti i romanzi apprezzandoli molto.

Il celebre incipit di Orgoglio e pregiudizio:

 

È cosa nota e universalmente riconosciuta che uno scapolo in possesso di un solido patrimonio debba essere in cerca di una moglie. E per quanto poco si conoscano i sentimenti o le opinioni del gentiluomo che per la prima volta venga a trovarsi in ambienti sconosciuti, questa verità è talmente radicata nelle menti dei vicini che egli viene subito considerato legittimo appannaggio di una o l’altra delle loro figlie.

 

 

Jane Austen

 

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Jane Austen (Steventon, 16 dicembre 1775 – Winchester, 18 luglio 1817) è stata una scrittrice britannica, figura di spicco della narrativa preromantica. Ebbe grande influenza sullo sviluppo del romanzo inglese. Ricevette la tipica educazione che all’epoca si impartiva alle giovani di buona famiglia. Amante della lettura, lesse con passione i romanzi di Henry Fielding, Laurence Sterne, Samuel Richardson e le poesie di George Crabbe e William Cowper. Condusse una tranquilla vita di provincia, viaggiando poco, coltivando rare relazioni sentimentali (nessuna delle quali sfociò nel matrimonio) e intrattenendo uno stretto legame con la sorella Cassandra. Cominciò a scrivere giovanissima, e negli anni seguenti tornò spesso sui suoi romanzi, rielaborandoli prima di pubblicarli. Orgoglio e pregiudizio, ad esempio, uscito nel 1813, è il rifacimento delle giovanili First Impressions, mentre Ragione e sentimento (1811) è la riscrittura di Elinor and Marianne, composto tra il 1797 e il 1798.

Il 1811, anno in cui, dopo la morte del padre, si trasferì con la famiglia a Chawton, segnò l’inizio di un periodo d’intensa attività letteraria. Avvolta dalla tranquillità dei sereni affetti familiari, scrisse Mansfield Park (1814), Emma (1816) e, ultimo romanzo compiuto, Persuasione, pubblicato postumo insieme all’Abbazia di Northanger, scritto in precedenza.

Nel 1816 si manifestarono i primi sintomi della malattia che l’avrebbe portata alla morte, e nel 1817 la scrittrice si trasferì a Winchester. Benché ai margini dello stile romantico, molto apprezzato dai suoi contemporanei, le opere di Jane Austen, caratterizzate da acutezza di osservazione e sensibilità per i piccoli particolari della vita quotidiana, riscossero subito un notevole successo sia di pubblico sia di critica. Tra i suoi estimatori vi furono Walter Scott, che nel 1815 le riservò un apprezzamento entusiasta sulla ‘Quarterly Review’, e Samuel Taylor Coleridge.

Indifferente ai grandi avvenimenti storici dell’epoca e ai fermenti sociali di quegli anni, Jane Austen parodiò con tratti caricaturali di squisita levità i vizi e le mode del tempo. Così, nell’Abbazia di Northanger derise, nella figura della protagonista, accanita lettrice di romanzi gotici, l’amore per la narrativa del sovrannaturale e delle passioni esasperate che sarebbe culminata nelle opere di Ann Radcliffe e nel Frankenstein di Mary Shelley.

 

Cronologia delle opere

 

ANNO TITOLO GENERE
1811 Ragione e sentimento Romanzo, rifacimento di Elinor e Marianne
1813 Orgoglio e pregiudizio Romanzo, rifacimento del giovanile First Impressions
1814 Mansfield Park Romanzo
1816 Emma Romanzo
1818 L’abbazia di Northanger Romanzo, rifacimento di Susan, scritto nel 1803
1818 Persuasione Romanzo

Lo stile

 

La scrittura austeniana presenta poche scene descrittive e digressioni narrative, ma è caratterizzata dai dialoghi che l’autrice rende con il discorso diretto, con lo stile epistolare e con il discorso indiretto libero.
Quest’ultimo, fondendo il discorso diretto con la mediazione del narratore, fu utile all’autrice per rendere, in maniera ironica o drammatica, i pensieri e le parole dei protagonisti.
La mancanza dei verbi “dire” e “pensare” nella funzione di collegamento tra il narratore e il personaggio, danno l’illusione al lettore di essere nella mente dei protagonisti. La Austen utilizza ampiamente questa tecnica anche per illustrare il background dei personaggi.
Nell’uso del discorso diretto, la Austen assegna ad ogni personaggio dei caratteri distintivi che lo rendono riconoscibile dalle sue parole. Ad esempio l’Ammiraglio Croft in Persuasione è riconoscibile dallo slang navale mentre il Signor Woodhouse di Emma dal suo linguaggio perennemente ipocondriaco.

I dialoghi sono genericamente composti da periodi molto brevi e gli scambi di battute sono rapidi e incisivi. In questo senso, sono particolarmente rilevanti alcune conversazioni tra Elizabeth e Darcy in Orgoglio e pregiudizio.

Curiosità

 

  • Col termine Janeites si identificano gli appassionati di Jane Austen che elevano la loro adorazione per la scrittrice a fenomeno di culto. Il termine fu coniato per la prima volta da George Saintsbury nell’introduzione a Orgoglio e pregiudizio nell’edizione del 1894. Questo termine è stato ripreso anche da Rudyard Kipling nel racconto The Janeites. La scrittura di fanfiction e il ritrovo in club di lettura o fan site sono le principali attività dei Janeites.

  • Nel videogioco Saints Row IV, se tutte le missioni lealtà vengono completate prima del finale, Jane Austen viene rivelata essere la narratrice esterna.

Fonti: Encarta, Wikipedia

 

Oltre ai numerosi film tratti dai suoi libri, consiglio la visione del film Becoming Jane, che parla proprio della vita della Austen.

Anniversario della nascita di Oscar Wilde

Oggi 16 ottobre ricorre l’anniversario della nascita di Oscar Wilde, centocinquantanove anni fa.

Oscar Wilde

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Oscar Wilde (Dublino 1854 – Parigi 1900), scrittore irlandese, è stato uno dei maggiori esponenti del decadentismo (vedi approfondimento in fondo all’articolo).

La vita

Dopo gli studi classici al Trinity College di Dublino, Wilde frequentò l’università di Oxford, dove subì l’influsso della poetica di Walter Pater e John Ruskin. Spirito eccentrico e dandy di rara eleganza, cominciò a far parlare di sé negli ambienti mondani e fu preso di mira dalla rivista umoristica ‘Punch’, che ne mise in ridicolo vezzi e atteggiamenti. Per il suo acume e il fascino della sua conversazione brillante, ebbe tuttavia anche numerosi estimatori.

Alla pubblicazione del primo volume di poesie nel 1881, seguì un fortunato ciclo di conferenze negli Stati Uniti. Tornato in Inghilterra, Wilde si stabilì a Londra e nel 1884 sposò una facoltosa irlandese, dalla quale ebbe due figli. Nel 1895, all’apice della carriera, fu al centro di uno dei processi più chiacchierati del secolo, quello che lo vide imputato di sodomia, uno scandalo senza pari nell’Inghilterra vittoriana. Condannato a due anni di lavori forzati, ne uscì finanziariamente rovinato e psicologicamente provato. Trascorse gli ultimi anni della vita a Parigi sotto falso nome (Sebastian Melmoth) e, poco prima della morte, avvenuta per meningite, si convertì al cattolicesimo.

Dorian Gray

Alla prima fase produttiva di Wilde appartengono due volumi di fiabe scritte per i figli (Il principe felice, 1888; La casa dei melograni, 1891) e la raccolta di racconti Il delitto di lord Arthur Savile (1891). Il suo unico romanzo, Il ritratto di Dorian Gray (1891), è una storia melodrammatica di decadenza morale che si distingue per il brillante stile epigrammatico. Wilde non risparmia al lettore alcun particolare del declino del protagonista verso un abisso di corruzione, ma il finale rivela una presa di posizione dell’autore contro la degradazione dell’individuo; ciononostante, la critica lo accusò di immoralità.

Il teatro

Le opere teatrali più interessanti di Wilde sono le quattro commedie Il ventaglio di Lady Windermere (rappresentato per la prima volta nel 1892), Una donna senza importanza (1893), Un marito ideale (1895) e L’importanza di chiamarsi Ernesto (1895), tutte contraddistinte da un intreccio abilmente congegnato e dialoghi brillanti. Pur senza una solida preparazione drammaturgica alle spalle, Wilde dimostrò con queste opere un autentico talento naturale per la tecnica teatrale e una felice predisposizione alla farsa: le sue commedie sono un fuoco d’artificio di trovate e paradossi divenuti celebri. A queste si contrappone Salomé, dramma serio sul tema della passione ossessiva, originariamente scritto in francese, che, censurato in patria, fu rappresentato a Parigi nel 1896, con l’interpretazione della celebre attrice Sarah Bernhardt. Nel 1905 il compositore tedesco Richard Strauss ne trasse l’opera omonima.

Le ultime opere

Durante la prigionia, Wilde compose l’epistola De Profundis (pubblicata postuma nel 1905), amara confessione delle sue colpe passate. La ballata del carcere di Reading (1898) fu scritta dopo il rilascio e consegnata alle stampe in forma anonima. Considerata il suo capolavoro poetico, essa descrive con lingua magnificamente cadenzata la crudezza della vita dei reclusi e la loro disperazione. Per molti anni ancora dopo la morte, la figura di Oscar Wilde dovette portare il marchio infamante impostole dal puritanesimo vittoriano.

Curiosità

Oscar Wilde fu anche scrittore di fiabe per bambini, raccolte nei volumi Il principe felice e La casa dei melograni.

Cronologia opere

 

1878 Ravenna Poema
1880 Vera o i nichilisti Dramma romantico; rappresentato per la prima volta nel 1883
1881 Poesie Raccolta di poesie
1883 La duchessa di Padova Dramma romantico; rappresentato per la prima volta nel 1893
1888 Il principe felice e altre fiabe Raccolta di fiabe
1889 La decadenza della menzogna Saggio
1891 La casa dei melograni
L’anima dell’uomo sotto il socialismo
Il delitto di Lord Arthur Savile e altri racconti
Il ritratto di Dorian Gray
Intenzioni
Raccolta di fiabe
Saggio politico

Racconti

Romanzo
Raccolta di saggi

1892 Il ventaglio di Lady Windermere Commedia
1893 Una donna senza importanza Commedia
1894 Salomé Dramma; rappresentato per la prima volta nel 1896
1895 Un marito ideale
L’importanza di chiamarsi Ernesto
Commedia
Commedia
1898 La ballata del carcere di Reading Poema
1905 De Profundis Epistola; pubblicata postuma e solo in parte, pubblicata in versione integrale nel 1949

Leggiamo alcuni versi…

 

Ballata del carcere di Reading

Narratore, poeta, commediografo, Oscar Wilde sostenne il principio dell’indipendenza dell’arte da ogni scopo estraneo all’arte stessa. I versi qui riprodotti sono tratti dalla Ballata del carcere di Reading (1898), poema dell’amarezza e del rimpianto, ispirato dall’esperienza della prigionia.

 

E il lancinante rimorso e i sudori di sangue,

nessuno li conobbe al pari di me:

perché colui che vive più di una vita

deve morire anche più d’una morte.

Approfondimenti

 

Decadentismo

Corrente letteraria europea che ebbe origine in Francia e si sviluppò in Europa tra gli anni Ottanta dell’Ottocento e il primo decennio del Novecento. Trova un corrispettivo nella corrente artistico-architettonica che prese nomi diversi a seconda del paese in cui fiorì: Liberty in Italia, Art Nouveau in Francia, Jugendstil in Germania. Il termine ‘decadentismo’ nacque con l’accezione negativa di ‘decadenza’, sentita come il declino non soltanto letterario di un’intera civiltà, e ancora prima di diventare il titolo di una rivista letteraria francese (‘Le Décadent’, fondata nel 1886) era stato utilizzato dalla critica per definire l’opera di quegli scrittori che manifestavano un’insubordinazione al gusto e alla morale della borghesia, divenuta classe egemone e garante dello statu quo dopo l’esaurirsi della spinta rivoluzionaria del 1848. Due opere, in particolare, avevano suscitato grande scandalo in Francia a metà Ottocento: I fiori del male di Charles Baudelaire e Madame Bovary di Gustave Flaubert, entrambe del 1857.

Le radici filosofiche del decadentismo

Nato in un’epoca di spinte materiali e intellettuali contraddittorie, che vide rinnovamento del sistema produttivo e stagnazione economica, repressione delle masse popolari e attenzione per la questione sociale, il decadentismo ha radici filosofiche nelle correnti irrazionalistiche che, alla fine dell’Ottocento, convivevano con il razionalismo positivistico dal quale era nata la letteratura naturalistica (la raccolta collettiva Le serate di Médan fu pubblicata nel 1880). Due i grandi nomi della riflessione sulla componente irrazionale dell’agire umano: Henri Bergson, che conferì nuovo valore all’intuizione e concepì il tempo non come unità di misura dello scorrere dei fatti ma come dimensione soggettiva e psichica; e Friedrich Nietzsche, che nella Nascita della tragedia (1871) diede risalto e visibilità alla dimensione ‘dionisiaca’ (in opposizione a quella ‘apollinea’) dell’uomo, cioè a quanto vi è di cieco, irrazionale, animale nel comportamento umano.

Il culto della bellezza

In netto contrasto con i processi di democratizzazione contemporanei sostenuti dai socialisti (e in Italia, in ambito letterario, con le posizioni democratiche degli scapigliati milanesi, che pure partivano dallo stesso spirito antiborghese), il decadentismo ha aspirazioni aristocratiche, che si esprimono nel gusto estetizzante. Sul piano artistico l’estetismo si traduce nella ricerca di raffinatezza esasperata ed estenuata, non di rado con incursioni nel mondo antico o in paesi lontani per attingervi la bellezza che manca nel mondo circostante. D’altra parte l’idea della superiorità assoluta dell’esperienza estetica induce l’artista a tentare di trasformare la vita stessa in opera d’arte, dedicandosi al culto della bellezza in assoluta libertà materiale e spirituale, in polemica contrapposizione con la volgarità del mondo borghese.

C’è un libro che si può considerare il manifesto del decadentismo: Controcorrente (1884) di Joris-Karl Huysmans. Il romanzo racconta lo squisito stile di vita del protagonista, Des Esseintes, un sofisticato e perfezionista intenditore d’arte che vive in campagna isolato dal mondo. In Inghilterra Oscar Wilde costruì un personaggio altrettanto individualista nel Ritratto di Dorian Gray (1891), dove un cultore delle apparenze, innamorato della propria eccezionale bellezza, tenta di conservare per sempre la gioventù. L’elemento estetizzante è fondamentale anche nei Ritratti immaginari (1887) di Walter Pater.

In ambito poetico, il movimento trova dei precursori nei parnassiani, fautori in Francia di un classicismo estetizzante e di un’arte fine a se stessa, ed ebbe alcuni maestri riconosciuti: oltre a Baudelaire, Stéphane Mallarmé, teorico di una poesia simbolista pura e astratta, ‘perfetta’; Paul Verlaine, che nel 1873 rivendicò in un sonetto il fatto di essere egli stesso ‘l’Impero alla fine della decadenza’; e Arthur Rimbaud, incarnazione del ‘poeta maledetto’, che tradusse nelle sue forme più estreme l’opposizione alla società circostante.

Fonte: Encarta

L’età dell’innocenza – Edith Wharton

 

 

Eccomi con una nuova recensione.

L’ETÀ DELL’INNOCENZA

Edith Wharton

 

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Trama

Nel ricco mondo dell’alta società newyorkese di fine Ottocento un uomo e una donna si incontrano, si amano, si consumano di passione, si lasciano. E’ la storia di un amore distrutto dalle regole di una società ipocrita, dalle sue rigide convenzioni e dai pettegolezzi spietati. E’ la storia di una donna che per amore sarebbe andata contro tutto e tutti, e di un uomo che a quel mondo falso e pettegolo non ha saputo sottrarsi.

L’autrice

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Edith Wharton (New York 1862 – Saint-Brice-sous-Forêt, Val d’Oise 1937), scrittrice statunitense. Nel 1885, Edith Newbold Jones sposò il banchiere Edward Wharton, dal quale divorziò nel 1913. Nel 1902 pubblicò un romanzo storico, La valle della decisione, ma la sua fama letteraria si deve alla Casa della gioia (1905), popolata, come gran parte della sua narrativa successiva, da figure attinte al chiuso e rigido mondo sociale cui la scrittrice stessa apparteneva. Nel 1907 si stabilì definitivamente in Francia; nel 1911 diede alle stampe il romanzo breve Ethan Frome, tragica vicenda d’amore fra gente semplice ambientata in un gelido New England. Seguì una serie di altri romanzi, resoconti di viaggio, racconti (fra cui alcune memorabili ghost stories) e poesie. I romanzi comprendono L’usanza del paese (1913) e L’età dell’innocenza (1920), da cui nel 1993 il regista Martin Scorsese trasse un film di successo, che ridestò l’interesse per la scrittrice.

Edith Wharton ritrasse la società vittoriana con distacco ironico. Come il suo amico romanziere Henry James, che esercitò una profonda influenza sulla sua opera, l’interesse della scrittrice fu rivolto soprattutto al sottile intreccio delle emozioni in una società che censurava la libera espressione delle passioni. L’intensità tragica dei suoi racconti derivava dall’aver colto le contraddizioni di questo ambiente artificioso.

La mia opinione

L’età dell’innocenza è uno di quei libri che, da bravo classico, presenta uno stile elegante e discorsivo, tipico degli autori dell’epoca. Le descrizioni della vita newyorkese di quel periodo sono condite di pungente ironia e di acute osservazioni sui sentimenti umani. Tuttavia devo dire che la storia è un po’ piatta e non mi è piaciuta particolarmente. Dopo la lettura ho visto il film e, ancor più del libro, l’ho trovato di una noia quasi mortale. Peccato.

Valutazione:

2

Via col vento – Margaret Mitchell

Rossella: Voi non siete un gentiluomo!

Rhett: E voi non siete una signora; non è un titolo di demerito, le signore non mi hanno mai interessato.

Più volte in passato mi è capitato di sentir parlare del romanzo Via col vento; ho sempre ascoltato distrattamente e non mi è mai venuto in mente di leggerlo. E probabilmente se l’avessi letto da adolescente non l’avrei apprezzato molto. Ora invece finalmente l’ho letto e l’ho amato.

 

 

VIA COL VENTO

Margaret Mitchell

Mondadori

 

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L’autrice

 

 

MARGMITCHELL

Margaret Munnerlyn Mitchell (Atlanta, 8 novembre 1900 – 16 agosto 1949) fu una scrittrice e giornalista statunitense, che assurse alla notorietà nel 1936 con il suo romanzo Via col vento, che le valse il premio Pulitzer l’anno seguente e la trasposizione cinematografica nel celebre, omonimo film del 1939.

All’eta di 14 anni entra nel Washington Seminar, un collegio femminile, dove studia rivelando il suo talento. Compiuti i 18 anni si iscrive al corso superiore di medicina allo Smith College di Northampton, nel Massachusetts, ma gli studi vengono interrotti da un evento triste. Sua madre muore e lei ritorna a casa, ad Atlanta, dove nel 1922 sposa Berrien Kinnard Upshaw. Il matrimonio si rivela un fallimento e lui esce dalla sua vita lasciandole la libertà necessaria per ricominciare da capo.
Negli anni Venti, Margaret diventa una collaboratrice dell’Atlanta Journal Sunday Magazine: memorabile fu la sua intervista a Rodolfo Valentino – di cui ho parlato in questo articolo. Nel 1926 Margaret sposa John Marsh, un agente pubblicitario, e lascia il lavoro per poter dedicarsi alla letteratura. Nello stesso anno comincia a scrivere un romanzo, la cui lavorazione la terrà impegnata per dieci anni. Il libro viene stampato e distribuito nel giugno del 1936 col titolo Via col vento, prendendo a prestito il verso suggestivo di una poesia di Ernest Dowson. Ed è subito un successo strepitoso: in sole quattro settimane vengono vendute ben 180.000 copie.
Nel 1937, grazie al suo romanzo, la Mitchell vince il Premio Pulitzer e l’anno seguente è candidata al Premio Nobel per la letteratura. Visto il grande successo, quasi immediatamente partono le trattative col produttore cinematografico David O. Selznick, che dal libro vuole trarre un film. Margaret fa molta resistenza e non vorrebbe partecipare né alla stesura della sceneggiatura, né alla scelta del cast. Nel 1939, dal romanzo è stato tratto il film Via col vento con Vivien Leigh, Clark Gable, Olivia de Havilland e Leslie Howard – vedi approfondimento in fondo all’articolo.
Quando scoppia la seconda guerra mondiale, la Mitchell entra a far parte della Croce Rossa e diventa istruttrice di primo soccorso. Nel 1943 crea una Recreation Room a favore dei soldati di stanza nel Piedmont Park. Dopo la guerra, Margaret ritorna a casa con il proposito di riprendere a scrivere. La sera dell’11 agosto 1949, mentre attraversa una strada della sua città, un taxista ubriaco non si accorge di lei e la investe: Margaret Mitchell muore il 16 agosto 1949 dopo cinque giorni di coma. Sulla vita della scrittrice è stato realizzato un film tv: La travolgente storia d’amore di Margaret Mitchell (1994), interpretato da Shannen Doherty.

Fonte: Wikipedia

 

Via col vento – Trama

 

Rossella O’Hara è la viziata e capricciosa ereditiera della grande piantagione di Tara, in Georgia. Ma l’illusione di una vita facile e agiata si infrangerà in brevissimo tempo, quando i venti della Guerra Civile cominceranno a spirare sul Sud degli Stati Uniti, spazzando via in pochi anni la società schiavista. Il più grande e famoso romanzo popolare americano narra così, in un colossale e vivissimo affresco storico, le vicende di una donna impreparata ai sacrifici: la tragedia della guerra, la decimazione della sua famiglia, la necessità di dover farsi carico della piantagione di famiglia e di doversi adattare a una nuova società. E soprattutto la sua lunga, travagliata ricerca dell’amore e la storia impossibile con l’affascinante e spregiudicato Rhett Butler, avventuriero che lei comprenderà di amare solo troppo tardi.

Curiosità

 

 

Il romanzo Via col vento è destinato a essere immortale. Perché?

La cripta della civiltà, presso l’Università Oglethorpe ad Atlanta, Georgia, è considerata da tutti (in primo luogo dal celebre libro del Guinness dei Primati, che l’ha inserita in elenco nel 1990) la prima “capsula del tempo”, destinata ad essere aperta in una data precisa del futuro, il 28 maggio 8113.
Creata nel 1936, la cripta vanta dimensioni della cripta sono ragguardevoli, simili a quelle di uno spazioso loft. La camera è sigillata da una porta in acciaio inossidabile e chiusa ermeticamente. Il suo contenuto include un manuale per imparare l’inglese, la documentazione relativa a tutti gli sport, i divertimenti e i passatempi in uso durante il secolo scorso, filmati dei grandi della Terra, un uccello di plastica, il modellino di un treno, i manichini di un uomo e di una donna, due pipe, un gioco in scatola, 800 libri significativi su ogni argomento importante per il genere umano e 200 romanzi considerati rappresentativi della cultura umana tra cui anche Via col vento.

 

La mia recensione

 

Questo libro è un autentico capolavoro. Di primo acchito pare un romanzo d’amore ambientato durante la guerra di secessione americana – vedi approfondimento in fondo all’articolo, ma poi si rivela anche la struggente storia di un’amicizia tra due donne, il ritratto delle sofferenze cagionate dalla guerra. L’ambientazione è affascinante – soprattutto per ciò che riguarda Tara nei giorni d’oro e Atlanta durante l’assedio – e i personaggi sono analizzati con cura tramite punti di vista diversi, particolari e particolareggiati. L’autrice guida il lettore alla scoperta dell’anima degli uomini e delle donne della Confederazione degli Stati Uniti – quando ancora non erano tutti “Stati Uniti”; del rapporto di essi con gli schiavi neri – qui qualche osservazione mi ha dato un po’ fastidio ma capisco che non si tratta di discriminazione fine a se stessa quanto alla descrizione del rapporto che c’era all’epoca tra padroni e schiavi; delle intenzioni originarie del primo Ku Klux Klan; di un periodo importantissimo per la storia americana che la maggior parte degli europei conosce solo superficialmente. Si tratta di un romanzo pieno di dolore, di struggente malinconia per un passato spensierato che non può tornare.

La protagonista, Rossella O’Hara, possiede una personalità volitiva e audace che la rende una vera pioniera nella società in cui vive. Il suo iniziale egoismo, fine a se stesso, le darà la forza di affrontare e vincere sfide impossibili da superare per una donna di buona famiglia come tutte le altre; la sua franchezza cruda spinge il lettore a fare i conti con il proprio io, con la verità di ciò che è, senza barriere di sorta imposte dalla società. Temprata dalla vita e sostenuta dalla sua ardente personalità, Rossella subisce più trasformazioni fino a diventare fredda di fronte al pericolo, instancabile di fronte alle avversità, e soltanto alla fine una donna matura.

I personaggi che ho amato di più, oltre alla protagonista, sono stati: Geraldo O’Hara, padre di Rossella e uomo saggio nonostante lo spirito giovane e allegro; Melania Wilkes, cognata di Rossella e donna il cui aspetto minuto non ne pregiudica la forza d’animo, stabile punto di riferimento per tutti e rifugio sicuro da ogni sofferenza; Rhett Butler, incorreggibile mascalzone che non è soltanto un uomo bello e coraggioso, ma un grande pensatore che non ha problemi a esporre con cruda sincerità il proprio pensiero.

Un romanzo epico, malinconico e struggente, indimenticabile.

Per quanto riguarda il film la mia opinione è abbastanza positiva anche se, come è risaputo, i film non sono quasi mai all’altezza dei libri. Questo perché in un film non è facile riportare il tormento interiore dei protagonisti che invece un romanzo trasmette in maniera più vivida. E questo è anche il caso del film Via col vento. Suggerisco la visione del film solo dopo la lettura del romanzo, cosicché si possano comprendere appieno gli stati d’animo e le scelte di Rossella O’Hara. Devo dire che Clark Gable è assolutamente perfetto nel ruolo di Rhett Butler – anche se forse leggermente rabbonito rispetto al personaggio letterario – e Vivien Leigh è una superba Rossella, perfettamente capace delle espressioni crudeli o disperate che il ruolo richiede. Nel film la storia risulta leggermente mutilata, difatti mancano alcuni personaggi come Dilcey, Wade, Ella, Baldo, Will – quest’ultimo ha un ruolo portante nel momento in cui Rossella si trasferisce in maniera permanente ad Atlanta, lasciando Tara nelle sue mani – o alcuni fatti secondari che rendono più ricca la storia.

Valutazione:

5+

Approfondimenti

 

Via col vento – Il film

 

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Via col vento (Gone with the Wind) è un film drammatico diretto da Victor Fleming nel 1939.
Universalmente riconosciuto come uno dei film più famosi della storia del cinema, ha stabilito dei record che rimangono tuttora insuperati. Il film venne prodotto da David O. Selznick e distribuito dalla Metro-Goldwyn-Mayer; la sceneggiatura, in buona parte dovuta a Sidney Howard, è tratta dal romanzo omonimo di Margaret Mitchell, vincitore del premio Pulitzer nel 1937.
La lavorazione del film fu molto complessa e travagliata, come per molti film di quel periodo storico: complessivamente richiese circa due anni per poter essere realizzato e il suo completamento è dovuto principalmente al grande sforzo economico e lavorativo di Selznick, la cui intenzione era di farne un grande affresco storico, oltre che una semplice storia d’amore; per raggiungere il suo scopo Selznick vi dedicò quasi tutte le sue energie nel periodo della produzione. Proprio la grandiosità produttiva e il grande successo di pubblico rendono questo film una pietra miliare indiscutibile nella storia del cinema; si è trattato, infatti, del primo caso di successo planetario nella storia del cinema.
Ufficialmente la regia è attribuita a Victor Fleming, ma durante la produzione si sono succeduti George Cukor e Sam Wood. Lo stesso Selznick (considerato da molti il vero autore del film) ha avuto una forte presenza nella direzione così come su molti aspetti del film, tra cui anche la sceneggiatura, il montaggio e la scelta degli attori, a dimostrazione che questo più degli altri è il “suo” film.

 

I protagonisti

 

Cattura

Clark Gable e Vivien Leigh in una celebre scena di Via col vento (1939).

Quando Selznick propose il film alla Warner Bros., i due principali candidati ad interpretare le parti di Rossella e Rhett erano Bette Davis ed Errol Flynn. I due, tuttavia erano poco tempo prima venuti a lite e mal si sopportavano: Selznick avrebbe dovuto cambiare almeno uno dei due, ma poi gli accordi con la WB saltarono e Selznick fu costretto a ripiegare altrove. Una volta accordatosi con la MGM Selznick rimase indeciso se contattare Clark Gable o Gary Cooper, ma quando quest’ultimo rispose affermando:

Via col vento sta per diventare il più grande flop della storia del cinema, e sarà Clark Gable a perderci la faccia e non Gary Cooper.

 

il produttore non ebbe più dubbi e assegnò la parte a Clark Gable senza indugiare e con l’approvazione di tutto il pubblico americano; la MGM fu d’accordo fin dall’inizio e Gable venne scritturato. In quel periodo Gable stava divorziando da Ria Langham e la moglie voleva 400.000 dollari per concedere il divorzio al marito; questi, tuttavia, non era in grado di pagare una somma così alta tutta insieme, ma alla fine ricevette come compenso 400.000 per il divorzio, più 120.000 dollari per sé.

 

Clark Gable mentre legge Via col vento.

Clark Gable mentre legge Via col vento.

 

Molto più complicata e travagliata è stata la scelta per l’attrice che doveva interpretare Rossella. Furono provinate circa 1400 attrici, tra cui Paulette Goddard, Susan Hayward, Katharine Hepburn, Carole Lombard, Jean Arthur, Tallulah Bankhead, Norma Shearer, Barbara Stanwyck, Joan Crawford, Lana Turner, Joan Fontaine, Bette Davis, Alicia Rhett (alla quale poi andò il ruolo di Lydia Wilkes) e Loretta Young; al momento dell’inizio delle riprese nel dicembre 1938 non si aveva ancora un nome definitivo e si dovette cominciare senza la protagonista.

Vivien Leigh.

Vivien Leigh.

In mezzo a questo elenco di star hollywoodiane la parte venne assegnata alla poco conosciuta Vivien Leigh; questa ottenne un provino quando venne presentata quasi per caso al fratello del produttore, Myron Selznick, mentre si girava la scena dell’incendio di Atlanta. Alla fine rimasero in lizza due attrici: Paulette Goddard e appunto Vivien Leigh. Una leggenda vuole che la Goddard perse il ruolo perché non riuscì a dimostrare di essere realmente sposata a Charlie Chaplin, con cui conviveva, e questo per il moralista e capo della MGM Louis B. Mayer era del tutto inaccettabile. Nemmeno Vivien Leigh era sposata e conviveva con Laurence Olivier, ma a differenza della Goddard la storia non era nota al grande pubblico e per questo ottenne la parte e 25.000 dollari. I due si sposarono comunque poco tempo dopo, il 31 agosto 1940 come promesso a Mayer.

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Fonte: Wikipedia

Alcune scene del film

 

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Guerra di secessione

 

Guerra civile che oppose tra il 1861 e il 1865 gli Stati Uniti d’America (l’Unione) a undici stati secessionisti del Sud, organizzati nella Confederazione degli Stati Uniti d’America.

LE ORIGINI DEL CONFLITTO

Nella prima metà del XIX secolo gli stati del Nord e quelli del Sud erano portatori di tradizioni e interessi economici, sociali e politici profondamente diversi. La principale causa di contrasto tra le regioni agricole meridionali e quelle industriali del Nord era l’istituto della schiavitù. Perno del sistema socio-economico sudista, che annoverava al suo interno oltre quattro milioni di schiavi neri impiegati nelle piantagioni di cotone, tabacco e canna da zucchero, la schiavitù non rispondeva invece alle esigenze produttive delle regioni settentrionali, interessate alla meccanizzazione del lavoro, ed era dunque avversata per ragioni tanto ideali quanto di interesse economico.

Sulla questione, il compromesso del Missouri del 1820 stabilì che all’interno dei territori a ovest del Mississippi, da poco acquisiti dagli Stati Uniti, il parallelo dei 36° 30′ avrebbe costituito il confine tra stati schiavisti e stati liberi.

Il mutamento degli equilibri

Alla metà del secolo, tuttavia, nel Sud si guardava con sospetto all’azione del Congresso, dove i rappresentanti degli stati schiavisti costituivano ormai una minoranza. Lo scontento sudista era accresciuto dall’introduzione, in molti stati settentrionali, di leggi a tutela della libertà personale, che minavano l’efficacia delle norme varate per arginare il fenomeno della fuga degli schiavi (vedi Fugitive Slave Laws).

Non meno apprensione generavano i crescenti successi elettorali del Free-Soil Party, partito che si opponeva all’estensione della schiavitù nei territori acquisiti dopo la guerra con il Messico e contrastava l’ammissione nell’Unione di stati schiavisti di nuova costituzione. Tuttavia, nel 1857 la Corte Suprema decretò l’incostituzionalità di qualsiasi pretesa federale di proibire la schiavitù. Il 16 ottobre del 1859 John Brown, un ardente abolizionista, attaccò l’arsenale federale di Harpers Ferry, in Virginia, con l’intento di provocare una sollevazione degli schiavi. L’azione fu il pretesto per i sudisti di rivedere la propria posizione all’interno dell’Unione.

La secessione del Sud

In occasione delle elezioni presidenziali del 1860, il candidato repubblicano Abraham Lincoln si dichiarò contrario all’estensione della schiavitù. L’elezione di Lincoln alla presidenza dell’Unione rafforzò nel Sud l’opinione che per tutelare i propri interessi non esistesse altra via se non quella dell’indipendenza: nel marzo del 1861 sette stati (South Carolina, Mississippi, Florida, Alabama, Georgia, Louisiana, Texas) adottarono ordinanze di secessione dando vita agli Stati Confederati d’America ed eleggendo Jefferson Davis quale presidente.

Nel suo discorso inaugurale Lincoln dichiarò illegale la secessione, esprimendo l’intenzione di mantenere l’autorità e i possedimenti federali nel Sud. Quando, il 12 aprile 1861, l’artiglieria sudista aprì il fuoco per impedire i rifornimenti alla base militare federale di Fort Sumter (South Carolina), Lincoln ordinò l’invio di truppe per sedare la rivolta. Per tutta risposta, Virginia, Arkansas, North Carolina e Tennessee aderirono alla Confederazione.

LE OSTILITÀ

Le prime fasi del conflitto

Il 21 luglio del 1861 la vittoria dei sudisti nella battaglia di Bull Run (48 km a sud-ovest di Washington) costrinse i vertici politico-militari dell’Unione ad abbandonare ogni speranza di una guerra-lampo e a impegnarsi nella costituzione di un solido esercito. Di ciò Lincoln dette incarico al generale George Brinton McClellan.

Nella primavera del 1862 McClellan lanciò l’offensiva: occupata la penisola a sud-est di Richmond, fermò la marcia in attesa di rinforzi. Ciò permise al generale sudista Thomas J. “Stonewell” Jackson di passare il Potomac e di minacciare Washington. Gli uomini di Jackson e quelli dell’Armata confederata della Virginia settentrionale, comandati dal generale Robert E. Lee, attaccarono le truppe di McClellan, sconfiggendole nella battaglia dei Sette Giorni (25 giugno – 1° luglio).

Nei primi sei mesi del 1862 il generale dell’Unione Ulysses Grant riuscì prima a ottenere il controllo delle vie d’accesso alla valle del Mississippi in Tennessee e nell’Arkansas, poi a spingersi sino a Memphis. Nel corso del secondo semestre dell’anno Grant decise l’assalto di Vicksburg, l’ultima roccaforte lungo il corso del Mississippi rimasta ai confederati: in dicembre, la vittoriosa difesa della fortezza da parte dei suoi occupanti costituì la pagina finale delle vicende militari del 1862.

Le campagne del 1863

Assumendo il comando dell’Armata del Potomac, il generale Joseph Hooker mosse, nell’aprile del 1863, contro le forze del generale Lee in Virginia: nella battaglia di Chancellorsville (1-4 maggio) i confederati costrinsero Hooker alla ritirata. Intendendo indurre l’Unione a negoziare la pace, Lee mosse all’attacco verso nord.

In giugno Lee raggiunse le regioni meridionali della Pennsylvania, dove, nei pressi di Gettysburg, si combatté la battaglia considerata il punto di svolta dell’intera guerra. Il 1° luglio ebbero inizio le operazioni: il 3 luglio Lee decise di caricare al centro le linee nemiche, ma l’attacco fallì completamente. Ordinata la ritirata, Lee riuscì a riparare in Virginia. Il 1863 si chiudeva decisamente in favore delle forze dell’Unione.

Il piano d’attacco finale

Nominato comandante in capo di tutte le forze unioniste, Ulysses Grant si accinse a chiudere la morsa attorno alla Confederazione: l’Armata del Potomac, guidata dallo stesso Grant con la collaborazione del generale George Gordon Meade, avrebbe dato battaglia a Lee ancora una volta puntando su Richmond; il generale William Sherman si sarebbe invece mosso alla conquista di Atlanta (Georgia) partendo da Chattanooga; una terza armata, al comando del generale Philip Sheridan, avrebbe infine occupato la valle del fiume Shenandoah per tagliare i rifornimenti a Lee. La campagna finale ebbe inizio alla fine di marzo. Grant, bloccato poco a nord di Richmond, assediò Petersburg per oltre nove mesi.

Miglior corso per la causa dell’Unione ebbero gli avvenimenti nella valle dello Shenandoah e in Georgia, dove Sheridan e Sherman raggiunsero entro l’estate gli obiettivi loro assegnati. La marcia di Sherman verso il mare partì il 15 novembre da Atlanta in fiamme. Le truppe nordiste avanzarono distruggendo sistematicamente ogni cosa potesse sostenere lo sforzo bellico dei sudisti: nella primavera del 1865 furono invase le due Caroline.

All’inizio di aprile del 1865 Petersburg fu espugnata dagli unionisti (battaglia di Five Forks); con i rifornimenti tagliati, anche Richmond dovette capitolare. Lee si diresse allora a occidente; Grant però gli bloccò la strada e il 9 aprile lo costrinse alla resa.

L’ABOLIZIONE DELLA SCHIAVITÙ

Nel settembre del 1862 Lincoln annunciò che a partire dal 1° gennaio 1863 negli stati o parti di stati ancora coinvolti nella ribellione secessionista, gli schiavi sarebbero stati “liberi per sempre”. Il proclama di emancipazione fu giustificato come misura utile a indebolire la capacità produttiva del nemico e anticipare così la fine della guerra. Ma solo il 13° emendamento della Costituzione, ratificato nel dicembre 1865, avrebbe abolito la schiavitù in tutto il territorio degli USA.

IL DOPOGUERRA

L’8 dicembre 1863 Lincoln emanò il Proclamation of Amnesty and Reconstruction: in esso si stabiliva che, a eccezione degli alti ufficiali e dei funzionari governativi, a ogni sudista che avesse giurato lealtà alla Costituzione federale e obbedienza alla legislazione di guerra (compreso il proclama sulla schiavitù) fosse garantita l’amnistia.

Le dottrine secessioniste uscirono definitivamente screditate, mentre l’autorità del governo federale risultò enormemente accresciuta. Il Congresso poté varare le misure alle quali il Sud si era strenuamente opposto prima della guerra, comprese le concessioni di terre nei nuovi territori, l’assegnazione di contributi federali per il loro sviluppo, nonché la definizione dei più elevati dazi doganali mai stabiliti dal governo americano.

Dal punto di vista economico, la guerra incentivò la meccanizzazione della produzione e la concentrazione del capitale al Nord; inoltre, significò libertà per quasi quattro milioni di neri. Le radici culturali di tre secoli di schiavismo non poterono però essere estirpate definitivamente con le armi, e continuarono a generare tensioni e problemi nella società americana sino a tutto il XX secolo. Vedi Afroamericani.

Fonte: Wikipedia

Anniversario della nascita di Debussy

Oggi non parliamo di letteratura ma di musica, la quale essendo comunque arte ben si adatta agli argomenti di questo blog.

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Claude Debussy

 

Claude Achille Debussy (Saint-Germain-en-Laye, 1862 – Parigi, 1918), fu un compositore francese. Iniziò gli studi musicali al Conservatorio di Parigi all’età di dieci anni. Compì numerosi viaggi in tutta Europa e fu a Mosca nel 1879 come musicista privato. Durante il soggiorno in Russia, Debussy entrò in contatto con la musica di compositori quali Čajkovskij, Aleksandr Borodin, Milij Balakirev e Modest Musorgskij e con le tradizioni popolari.

Nel 1884 compose la cantata L’enfant prodigue. L’opera gli fece vincere il più importante riconoscimento culturale francese per giovani artisti, il Prix de Rome, che gli valse un soggiorno a Roma di due anni, durante il quale continuò a presentare regolarmente (ma senza successo) nuovi lavori alla commissione del premio. Tra questi, la suite sinfonica Printemps e una cantata, La demoiselle élue, composta su una poesia di Dante Gabriel Rossetti.

Nell’ultimo decennio del secolo, la fama di Debussy cominciò a consolidarsi. Tra le opere di questi anni spiccano il Quartetto per archi in sol minore (1893), e il Prélude à l’après-midi d’un faune (1894), basato sul poemetto di Stéphane Mallarmé.

L’opera Pelléas et Mélisande, dal lavoro teatrale omonimo di Maurice Maeterlinck, andata in scena nel 1902, consacrò definitivamente la fama del compositore francese. Dal 1902 al 1910 Debussy scrisse soprattutto per il pianoforte con uno stile che, rifiutando l’approccio tradizionale di tipo percussivo a questo strumento, ne sottolineava le capacità delicatamente espressive. Tra le importanti composizioni del periodo sono Estampes (1903), L’Isle joyeuse (1904), Images (due serie, 1905 e 1907), e numerosi preludi.

Nel 1909 Debussy scoprì di essere ammalato di un tumore che, nove anni dopo, lo portò alla morte. La maggior parte della produzione di questo ultimo periodo comprende musica da camera, con un gruppo straordinario di sonate (per violino e pianoforte, per violoncello e pianoforte, e per flauto, viola e arpa) in cui l’essenza del suo stile viene distillato in rarefatte strutture di gusto quasi neoclassico.

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Un precursore dello stile moderno

 

La musica dello stile maturo di Debussy anticipò molta musica moderna e fece di lui uno dei più importanti compositori a cavallo dei due secoli. Le sue innovazioni furono di tipo soprattutto armonico. Pur non essendo stato lui a ideare la scala di toni interi, fu il primo a utilizzarla con successo. Il suo trattamento degli accordi è rivoluzionario per i tempi: essi vengono disposti in modo da indebolire, anziché rafforzare, la percezione di una specifica tonalità, e vengono usati per il loro individuale colore ed effetto, piuttosto che funzionalmente all’interno di una progressione tradizionale. L’assenza di una tonalità fissa fornisce alla sua musica un carattere vago e sfumato che fece parlare di impressionismo musicale, in analogia con l’effetto pittorico dell’omonima corrente nelle arti visive. Debussy non creò una scuola compositiva, ma liberò la musica dalle limitazioni dell’armonia tradizionale; inoltre, la qualità delle sue composizioni sollecitò altri compositori a sperimentare nuove idee e tecniche.

Tra i numerosi lavori di rilievo di Debussy si ricordano inoltre i Cinq poèmes de Baudelaire (1887-1889) per canto e pianoforte, il poema sinfonico La Mer (1903-1905), il balletto Jeux (1912), le liriche per canto e pianoforte Trois ballades de F.Villon (1910) e Trois poèmes de Stéphane Mallarmé (1913), e la composizione per pianoforte En blanc et noir (1915).

La signora delle camelie – Alexandre Dumas

Appena terminata la lettura de La signora delle camelie.

 

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Alexandre Dumas (figlio)

 

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Alexandre Dumas (figlio) (Parigi 1824 – Marly-le-Roi 1895), scrittore francese, figlio naturale del celebre Alexandre Dumas (vedi approfondimento in fondo all’articolo) autore dei Tre moschettieri e del Conte di Montecristo, fu romanziere e drammaturgo al pari del padre. La sua prima opera letteraria fu un volume di poesie, Péchés de jeunesse (Peccati di gioventù, 1847). L’anno seguente fu pubblicato il romanzo La signora delle camelie, la cui messa in scena con il titolo Camille (1852) decretò il successo di Dumas come autore di teatro. La protagonista della commedia, una cortigiana che sacrifica la propria felicità per il bene dell’amante, fu interpretata da attrici famose come Sarah Bernhardt e, nella versione cinematografica Margherita Gautier (1936) di George Cukor, da Greta Garbo. La vicenda venne ripresa da Giuseppe Verdi nella Traviata nel 1853 (vedi approfondimento in fondo all’articolo).

Dumas continuò a scrivere romanzi, ma ebbe molto più successo come drammaturgo. Fu uno dei primi autori di ‘drammi a tesi’, opere in cui viene rappresentata in tutti i suoi possibili sviluppi drammatici una vicenda, sempre di ambientazione borghese, incentrata su problematiche morali o sociali di comune interesse (come, ad esempio, l’infedeltà coniugale o la prostituzione): in questo ricorrente impianto rappresentativo si evidenzia l’importanza didascalica ed educativa che l’autore conferisce alla funzione del drammaturgo. Nel 1874 venne eletto membro dell’Académie Française (vedi approfondimento in fondo all’articolo). Per il teatro scrisse anche Le demi-monde (1855), La question d’argent (1857) e Le père prodigue (1859).

Trama

Scritto nel 1848, quando l’autore non aveva che ventiquattro anni, il romanzo La signora delle camelie creò subito un mito, entrato nell’immaginario di intere generazioni e diventato protagonista delle scene, sia del teatro di prosa che del teatro d’opera, nonché degli schermi del cinema. Lo stesso Dumas ne realizzò una versione teatrale, affidandola a Sarah Bernhardt. Pochi anni dopo, Giuseppe Verdi saprà farne una trasposizione sublime, in musica, con La Traviata. Margherita Gautier, alias Violetta, è diventata così una figura a sé stante: un mito appunto, con il quale si sono confrontate dive come Eleonora Duse, Greta Garbo, Maria Callas.

La mia opinione

In questo libro troviamo la tecnica del racconto nel racconto, il che mi ricorda Cuore di tenebra di Conrad – che ho recensito qui. Lo stile di Dumas è semplice, scorrevole alla lettura e si eleva perlopiù quando l’autore ha da esprimere i sentimenti dei protagonisti. Ad ogni modo il romanzo ha il sapore del tempo passato, in esso ritroviamo i temi ricorrenti in quasi tutti gli autori dell’epoca: le rigide regole imposte dall’etichetta; la suddivisione in classi in base al patrimonio e alla rendita e la conseguente impossibilità di unione tra giovani di diverso rango; la necessità sociale di mantenere una parvenza d’onore per il proprio nome e la propria famiglia. Nel libro però troviamo anche la storia di un amore rapido quanto impetuoso, incontrollabile, che, seppur ostacolato dalla ragione, continua a crescere e alimentare l’animo dei protagonisti. Un libro che, come altri simili – vedi quelli della Austen, all’epoca dell’autore fece scalpore. Una piccola perla antica che porta impressa la fotografia dell’epoca, capace di sorprendere e commuovere.

Valutazione:

4

Approfondimenti

 

Alexandre Dumas (padre)

 

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Alexandre Dumas (padre) (Villers-Cotterets, Aisne 1802 – Puys, Dieppe 1870), fu un romanziere e drammaturgo francese, famoso soprattutto per i romanzi storici, tra i quali la trilogia I tre moschettieri (1844), Vent’anni dopo (1845), Il visconte di Bragelonne (1848-1850), e La maschera di ferro (1850), che evocano l’epoca di Luigi XIII; Il conte di Montecristo (1844-45), oggetto di innumerevoli traduzioni e adattamenti teatrali e La regina Margot (1845), ambientato durante le guerre di religione.

Figlio di un generale, aveva scarsa istruzione ma, impiegatosi presso il duca d’Orléans a Parigi, lesse accanitamente, in particolare romanzi d’avventura del XVI e XVII secolo. Dopo aver assistito a vari spettacoli di una compagnia di attori shakespeariani, cominciò a scrivere per il teatro. La notorietà giunse con Enrico III e la sua corte; il dramma, messo in scena dalla Comédie-Française nel 1829, annunciava la rivoluzione romantica che l’anno dopo avrebbe fatto irruzione sui palcoscenici francesi con l’Ernani di Victor Hugo. Seguirono Christine de Fontainebleau (1830), Antonio (1831), La torre di Nesle (1832), Catherine Howard (1834) e L’alchimista (1839).

La sua attività di narratore, inaugurata nel 1838 da Le capitaine Paul, fu straordinariamente prolifica, e benché molti romanzi pubblicati a suo nome siano frutto di una collaborazione o scritti da altri su idee sue, quasi tutti portano l’impronta del suo genio e della sua inventiva. In Belgio, dove si rifugiò per sfuggire ai creditori, Dumas scrisse ventidue volumi di memorie (pubblicati tra il 1852 e il il 1854), che offrono un vivido ritratto del suo tempo. Difensore dell’indipendenza italiana, seguì Garibaldi nella spedizione dei Mille. Dopo questa esperienza, che confluì nelle Memorie di Garibaldi (pubblicate nel 1861), si lanciò in operazioni finanziarie che si rivelarono tutte fallimentari. Tornò allora a Parigi, dove trascorse gli ultimi anni della sua vita facendosi mantenere dal figlio Alexandre.

La Traviata

 

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Un momento di La traviata di Giuseppe Verdi, nell’allestimento svoltosi al Teatro alla Scala di Milano nella stagione 1989-90 per la regia di Liliana Cavani, le scene di Dante Ferretti, i costumi di Gabriella Pescucci e la direzione musicale di Riccardo Muti. Con quest’opera, composta nel 1853 su libretto di Francesco Maria Piave, Verdi completò la cosiddetta “Trilogia popolare”, formata anche da Rigoletto e Il trovatore.

 

Il Teatro alla Scala di Milano è uno dei più famosi teatri d’opera del mondo. Fin dal 1778, anno della sua fondazione, la Scala ha ospitato molte prime di opere composte dai più famosi musicisti e dirette da grandi maestri. Ogni anno la Scala accoglie migliaia di spettatori appassionati. Nel testo seguente viene proposta la trama di La traviata (1853) di Giuseppe Verdi.

Atto primo

Salotto in casa di Violetta Valéry, affascinante e corteggiata mondana del ricco milieu parigino. È in corso un fastoso ricevimento. Fra gli ultimi ospiti, arrivati in ritardo perché intrattenutisi a giocare in casa di Flora Bervoix, il visconte Gastone di Letorières presenta a Violetta Alfredo Germont, suo fervido ammiratore: tanto innamorato – le confida Gastone – che quando recentemente fu ammalata egli venne ogni giorno a informarsi segretamente della sua salute. Violetta, commossa per questa insolita devozione, scioglie amabilmente la timidezza del giovane che, sollecitato dagli amici, improvvisa poi un brindisi alla bellezza e alla gioia di vivere.

Finita la cena, mentre gli ospiti si avviano alle danze nelle sale attigue, Violetta è colta da un improvviso malore. Alfredo, rimasto solo con lei, la esorta affettuosamente ad aver più cura di sé, assicurandola che lui saprebbe come custodire gelosamente la sua vita e dichiarandole teneramente il suo amore.

Violetta, sorpresa, finge disinvoltura, rispondendogli che da lei potrà ottenere soltanto simpatia e amicizia. In realtà è rimasta turbata da quella confessione: togliendosi un fiore dal seno, lo offre ad Alfredo perché lo riporti quando sarà appassito. Il giovane, esultante, comprende che è un complice invito a ritornare l’indomani.

S’è fatta l’alba e gli ospiti, reduci dalle danze, si congedano.

Nella solitudine, Violetta ripensa intensamente alle parole d’Alfredo: qualcuno, per la prima volta, le esprime un affetto sincero; dovrà ascoltarlo, lei, abituata a trascorrere fra le gioie effimere e i piaceri mondani? dovrà mutar vita? No: risolve di non assecondare questa folle illusione. Ma, nel fondo dell’anima, sente che è nato il vero amore.

Atto secondo

Quadro primo – Casa di campagna presso Parigi

Violetta e Alfredo vivono in intimità il loro idillio, lontani dalle frequentazioni e dalla mondanità della capitale. Alfredo esprime la pienezza della sua gioia per questa felice situazione che dura ormai da tre mesi: un sentimento improvvisamente offuscato dalla notizia – che gli riferisce Annina, la cameriera – di essere andata a Parigi, per ordine di Violetta, a vendere cocchi, cavalli ed altre proprietà per fronteggiare le spese del loro soggiorno in villa. Alfredo, ferito nell’orgoglio, decide di partire immediatamente per regolare la faccenda, imponendo ad Annina il silenzio.

Entra Violetta leggendo una lettera dell’amica Flora Bervoix che, scoperto il ritiro dei due amanti, la invita a una festa per quella sera. Sarà un’inutile attesa, sorride Violetta. Si annuncia intanto una visita. È Giorgio Germont, il padre di Alfredo, che si presenta a Violetta con atteggiamento sprezzante, convinto che la donna viva alle spalle del figlio. Con fierezza, Violetta mostra a Germont l’atto di vendita dei propri beni. Germont resta favorevolmente impressionato da questo gesto, tuttavia le chiede di rinunciare ad Alfredo per non rovinare la felicità di un’altra sua figlia, il cui matrimonio con un giovane di “buona famiglia” minaccia di naufragare se non sarà troncata la scandalosa relazione del fratello.

Violetta rivendica i diritti del suo amore, racconta della sua salute gravemente compromessa, resiste con disperazione alle incalzanti richieste di Germont, ma alla fine si arrende e accetta rassegnata di sacrificare la propria felicità per il bene di Alfredo e dei suoi cari. A Germont, profondamente commosso, promette di affrontare da sola l’immenso dolore ma di non rivelare mai ad Alfredo le ragioni dell’improvviso distacco.

Si appresta quindi a scrivere ad Alfredo la lettera d’addio quando questi la sorprende e le chiede il motivo della strana inquietudine. Violetta gli risponde con uno straziante slancio d’amore e si allontana in fretta.

Gli fa recapitare poi un biglietto in cui afferma, mentendo, di voler tornare all’antica vita brillante e alle antiche amicizie: il giovane è sconvolto; sopraggiunge Germont ma a nulla valgono le affettuose parole di consolazione del padre che gli ricorda i giorni sereni trascorsi nella natia Provenza, dove lo invita a ritrovare i cari affetti domestici.

Scorgendo sul tavolo il biglietto di Flora, Alfredo esce precipitosamente per recarsi alla festa e vendicarsi dell’affronto.

Quadro secondo – Salone in casa di Flora Bervoix

È in corso una grande festa in maschera. Violetta vi partecipa al braccio del barone Douphol, suo vecchio protettore. Non sospetta di trovarvi Alfredo e si turba nel vederlo, ma il giovane finge indifferenza e si scatena al tavolo da gioco dove lo assiste una sfacciata fortuna, mentre con vaghe allusioni provoca il risentimento di Douphol. L’invito alla cena scongiura un alterco e tutti si dirigono verso la sala da pranzo. Subito dopo rientra Alfredo, invitato a un colloquio da Violetta. Lo scongiura di andarsene, di non sfidare l’ira del barone, gli confessa anche – se volesse capire – che teme soprattutto per la sua vita, ma Alfredo replica che se ne andrà soltanto se lei vorrà seguirlo. Violetta è costretta a rivelargli che ha giurato di non rivederlo mai più e, poiché Alfredo insiste per sapere chi avesse avuto il diritto di imporle tale giuramento, Violetta lascia intendere che era stato il barone. Fuori di sé per la gelosia e la disperazione, Alfredo chiama a raccolta i convitati e, confessando la sua vergogna per avere acconsentito che una donna disperdesse la fortuna per lui, getta ai piedi di Violetta una borsa di denaro, proclamando di averla così ripagata. Violetta cade svenuta mentre l’indignazione generale accoglie il gesto di Alfredo. Germont, sopraggiunto, rimprovera il figlio, già umiliato e pentito, e lo trascina via, seguito da Douphol che chiede soddisfazione per l’insulto all’amica.

Atto terzo

Camera da letto di Violetta

Violetta è malata, ormai senza speranza, vegliata dalla fedele Annina. È un’alba livida d’inverno. Giunge il dottore, l’amico Grenvil, che cerca di infonderle coraggio e speranza, ma confessa ad Annina che la fine è imminente.

Violetta rilegge per l’ennesima volta l’affettuosa lettera che il vecchio Germont le ha inviato e in cui la ringrazia per aver mantenuto la promessa, la informa che nel duello il barone è stato ferito e le annuncia il prossimo arrivo di Alfredo, cui ha rivelato finalmente la verità, per chiederle perdono. Mentre giunge dalla strada l’eco del carnevale, Violetta fissa mesta la sua pallida immagine nello specchio e si strugge al ricordo dei giorni felici. Ma ecco Annina che entra per prepararla a una grande emozione: subito dopo la segue Alfredo, che si precipita fra le braccia di Violetta e sogna ancora, con lei, un radioso avvenire.

Violetta, al colmo della gioia, vorrebbe vestirsi e uscire per la città in festa ma le vengono meno le forze. Capisce che le resta ancora poco da vivere e, mentre accorre Germont per stringerla al cuore come una figlia, essa dona ad Alfredo un ritratto degli anni sereni, pregandolo di conservarlo in memoria di chi l’ha tanto amato e di offrirlo poi alla giovane che diverrà sua sposa: sono presenti anche Annina e il Dottore. Improvvisamente si sente invasa da una forza misteriosa, si alza in un estremo anelito di vita e ricade esanime tra le braccia di Alfredo.

Académie Française

 

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Istituzione culturale fondata nel 1795 durante la Rivoluzione francese. Destinato alla riorganizzazione delle accademie, l’Institut de France originariamente comprendeva tre classi che si occupavano rispettivamente di fisica e matematica, di scienze morali e politiche, e di letteratura e belle arti. Oggi è suddiviso in cinque accademie, ciascuna delle quali promuove uno o più settori dell’arte, della letteratura, della filosofia o della scienza.

Le cinque accademie svolgono un’attività autonoma e si riuniscono una sola volta l’anno, il 25 ottobre. Dal 1805 le riunioni hanno sede nel Palais de l’Institut a Parigi. L’istituto possiede un notevole patrimonio immobiliare e artistico per effetto di donazioni e lasciti di benefattori; ciò gli consente di conferire ogni anno premi a personalità che hanno conseguito risultati di rilievo nei settori di competenza delle cinque accademie.

ACADÉMIE FRANÇAISE

Voluta nel 1635 dal cardinale Richelieu allo scopo di stabilire un modello di lingua francese, l’Accademia di Francia pubblicò nel 1694 la prima edizione del suo autorevole Dizionario, rivisto più volte anche con l’aggiunta di nuovi volumi. Nel 1980 la scrittrice Marguerite Yourcenar fu la prima donna eletta a far parte dell’Accademia, composta da 40 membri, detti immortels.

ACADÉMIE DES INSCRIPTIONS ET BELLES-LETTRES

Fu creata nel 1663 allo scopo di portare avanti gli studi storici su iscrizioni e documenti antichi, sulla numismatica e sulle lingue antiche e moderne. Questa sezione è composta da 40 membri.

ACADÉMIE DES SCIENCES

Fondata nel 1666, promuove ricerche nell’ambito delle scienze matematiche, come geometria e astronomia, e delle scienze fisiche, comprese chimica, botanica e medicina. I membri sono 130.

ACADÉMIE DES BEAUX-ARTS

Fu istituita nel 1648, per incoraggiare le belle arti e gli studi di estetica, comprende 50 membri.

ACADÉMIE DES SCIENCES MORALES ET POLITIQUES

Unica sezione fondata contemporaneamente all’Institut de France nel 1795, si articola in cinque dipartimenti: storia e geografia, legislazione e giurisprudenza, etica, filosofia ed economia politica. È composta da 50 membri.

Cuore di tenebra – Joseph Conrad

Altro libro a 0,99 euro della Newton Compton.

CUORE DI TENEBRA

Joseph Conrad

Newton Compton

 

L’autore

 

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Joseph Conrad è lo pseudonimo di Teodor Józef Konrad Korzeniowski (Berdičev, Polonia, oggi Ucraina 1857 – Bishopsbourne, Kent 1924), romanziere di origine polacca naturalizzato britannico nel 1886, ritenuto uno dei maggiori scrittori della narrativa moderna. Di famiglia nobile, rimase orfano molto giovane e, appena diciassettenne, lasciò la Polonia per andare a Marsiglia e imbarcarsi come semplice marinaio su un mercantile. Dopo quattro anni entrò nella Marina britannica, salendo di grado fino a diventare capitano di lungo corso. Non ebbe un’esistenza facile: oltre alle difficoltà giovanili, negli anni della maturità dovette affrontare la malattia della moglie, Jessie George, e fare i conti con gli scarsi guadagni che gli venivano dal mestiere di scrittore.

L’esperienza maturata nei lunghi viaggi, soprattutto nell’arcipelago malese e sul fiume Congo, che Conrad risalì nel 1890, si tradusse in una serie di opere scritte in inglese – lingua che apprese da adulto – e spesso ambientate a bordo di una nave, nelle quali l’autore trattò il tema della lotta tra il bene e il male ed espresse una cupa visione della vita, il senso di solitudine e isolamento dell’individuo e una concezione sostanzialmente nichilista del destino umano. La narrazione, sovente affidata a un personaggio testimone degli eventi ma non protagonista, presenta l’uso sapiente delle fratture cronologiche e della tecnica del ‘racconto nel racconto’.

Il suo primo romanzo, La follia di Almayer, fu pubblicato nel 1895. Fra i suoi volumi più noti si ricordano Il negro del ‘Narciso’ (1897); Lord Jim (1900), nel quale affrontò il tema della paura e del riscatto dell’onore personale; il racconto Cuore di tenebra (1902), centrato sull’essenza misteriosa e perversa dell’animo umano; Tifone (1903) e Nostromo (1904), ancora di tema marinaro; L’agente segreto (1907) e Con gli occhi dell’Occidente (1911), di argomento politico; Vittoria (1915) e La linea d’ombra (1917), ambientati nei mari tropicali.

Fonte: Encarta

Cuore di tenebra

 

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Trama

 

Marlow racconta di aver avuto l’incarico di sostituire un capitano fluviale ucciso dagli indigeni nell’Africa centrale. Si imbarca su una nave francese e, giunto alla stazione della compagnia, vede come gli indigeni muoiano di stenti e di sfruttamento. Dopo un lungo viaggio di duecento miglia sul fiume rintraccia Kurtz, un leggendario agente capace di procurare più avorio di ogni altro. In realtà Kurtz, uomo solo e ormai folle, è quasi morente. Viene convinto a partire, ma muore sul battello che lo trasporta, dopo aver pronunciato un discorso che non può nascondere “la tenebra del suo cuore”.

La mia opinione

 

Cuore di tenebra possiede tutto il fascino dei classici, della narrazione d’altri tempi. Lo si percepisce già dalle prime pagine, dalle prime righe del racconto del capitano Marlow. Proprio il fatto che si tratti di un racconto “orale”, in prima persona, conferisce allo scritto il potere di catturare e trascinare senza che il lettore se ne renda conto. Le metafore che Conrad usa per descrivere la natura selvaggia e incontaminata sono ricchissime ma mai ripetitive, ammalianti e poetiche senza diventare tediose. Palpitante, viva, è la descrizione delle figure umane che animano le foreste, parti integranti della natura in un tutt’uno che non distingue vegetazione da esseri umani. Un ritratto preciso e appassionato di ciò che i coloni incontrarono quando si avventurarono in terre sconosciute nonché una ricerca sviscerata degli aspetti più oscuri dell’animo umano. Alle volte la narrazione mi ha ricordato lo stile di Gabriel García Márquez.

Valutazione:

4

Il ballo – Irène Némirovsky

Salve followers, parliamo oggi di uno dei volumetti a 0,99 cent editi da Newton Compton. Sono sicura che la maggior parte di voi ha sentito parlare di questa iniziativa, io l’ho particolarmente apprezzata. Perché? Oltre al motivo che salta subito all’occhio e cioè il basso costo dei libricini, c’è anche un altro aspetto scaturito proprio dal primo: grazie infatti ai 0,99 cent c’è stata una buona accoglienza nel pubblico e, trattandosi perlopiù di classici, si è aumentata la diffusione di questo genere che per esempio le giovani generazioni scansano a priori. Ma ora veniamo a noi.

Il ballo

Irène Némirovsky

Newton Compton

 

L’autrice

 

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Irène (vero nome Irma Irina) Némirovsky, figlia di un ricco banchiere ebreo ucraino – Leonid Borisovitch Némirovsky (1868-1932) e di Anna Margoulis (1887-1989) -, venne allevata dalla sua governante francese Zezelle, che fece del francese quasi la sua seconda lingua madre, dal momento che la madre di Irene non fu mai interessata alla sua educazione. Imparerà poi sia il russo che l’inglese. Nel 1913 la famiglia ottenne il permesso di trasferirsi a San Pietroburgo, che diventerà poi Pietrogrado. Nel gennaio del 1918, i Soviet misero una taglia sulla testa del padre e la famiglia fu costretta a scappare (si travestirono da contadini) evitando la Rivoluzione Russa. Trascorse poi un anno in Finlandia e un anno in Svezia. Nel luglio del 1919 i Némirovsky si trasferirono in Francia dopo un avventuroso viaggio su di una nave. A Parigi, Irène Némirovsky andò a vivere in un quartiere chic, nel XVI arrondissement. Una governante inglese si occupò della sua educazione. Superò l’esame di maturità nel 1919, nel 1921 si iscrisse alla Facoltà di Lettere della Sorbonne. Conosceva sette lingue. Aveva iniziato a scrivere in francese sin da quando aveva 18 anni e, nell’agosto del 1921, pubblicò il suo primo testo sul bisettimanale Fantasio. Nel 1923, la Némirovsky scrisse la sua prima novella, l’Enfant génial (ripubblicata con il nome di Un enfant prodige nel 1992), che sarà pubblicata nel 1927. Riprese quindi i suoi studi ottenendo nel 1924 la laurea in lettere alla Sorbonne. Nel 1926 pubblicò il suo primo romanzo, Le Malentendu.
Nel 1926, nel municipio del XVI arrondissement prima e poi alla sinagoga di Rue de Montevideo, Irène Némirovsky sposò Michel Epstein, un ingegnere russo emigrato, divenuto poi banchiere, da cui avrà due figlie: Denise nel 1929 ed Élisabeth nel 1937. Il contratto matrimoniale stipulato le permetterà di ottenere i diritti d’autore fin dalla pubblicazione delle sue opere.
Irène Némirovsky divenne celebre nel 1929 con il suo romanzo David Golder. Il suo editore, Bernard Grasset, la introdusse subito nei salotti e negli ambienti letterari francesi. Lì incontrò Paul Morand, che pubblicherà presso Gallimard quattro delle sue novelle con il titolo Films parlés. David Golder fu adattato nel 1930 per il teatro ed il cinema (David Golder fu interpretato da Harry Baur).
Ne Le Bal, 1930, descrisse il passaggio difficile di un’adolescente all’età adulta. L’adattamento al cinema di Julien Duvivier rivelerà Danielle Darrieux. Di successo in successo, Irène Némirovsky diventò una promessa della letteratura, amica di Tristan Bernard e di Henri de Régnier.
Nel 1933, abbandonò la casa editrice Grasset per Albin Michel e cominciò a pubblicare alcune novelle sul Gringoire.
Sebbene fosse una scrittrice francofona riconosciuta, membro totalmente integrato della società francese, il governo francese le rifiuterà la nazionalità richiesta per la prima volta nel 1935.
Si convertì al cattolicesimo il 2 febbraio 1939 nella cappella dell’Abbazia di Sainte-Marie a Paris. Scrisse poi per il settimanale di destra Candide, con il quale interromperà la collaborazione quando venne pubblicato il primo Statuto degli ebrei, nell’ottobre del 1940, mentre Gringoire, divenuto apertamente antisemita, continuerà a pubblicarla, ma sotto pseudonimo.
Vittime delle leggi antisemite varate nell’ottobre del 1940 dal governo Vichy, Michel Epstein non poté più continuare a lavorare in banca e a Irène Némirovsky fu proibito pubblicare. Dopo la primavera i coniugi Epstein si trasferirono a Issy-l’Évêque, nel Morvan, dove avevano messo al riparo nel settembre del 1939, le loro figlie. Némirovsky scrisse ancora diversi manoscritti. Fu considerata un’ebrea per la legge e dovette applicare la stella gialla sui suoi abiti. Solo Carbuccia, sfidando la censura, pubblicò le sue novelle fino al 1942. Il 13 luglio 1942, Irène fu arrestata dalla guardia nazionale francese. Michel Epstein mandò un telegramma il 13 luglio del 1942 a Robert Esménard e André Sabatier presso Albin Michel per chiedere aiuto.
Fu trasferita a Toulon-sur-Arroux, dove rimase imprigionata due notti. Il 15 luglio, fu trasportata al campo d’internamento di Pithiviers. Némirovsky fu autorizzata a scrivere e spedì una cartolina a suo marito, in cui non si lamenta delle condizioni difficili. Fu deportata il giorno dopo a Auschwitz, dove venne trasferita nel Rivier (l’infermeria di Auschwitz in cui venivano confinati i prigionieri troppo ammalati per lavorare) per essere poi uccisa il 17 agosto 1942. Suo marito (così come André Sabatier e Robert Esménard) intraprese numerosi procedimenti per farla liberare, ma fu arrestato lui stesso nell’ottobre del 1942, deportato ad Auschwitz assieme alla sorella e gasato al suo arrivo, il 6 novembre 1942.

Fonte: Wikipedia

Il ballo

 

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Trama

 

Per i Kampf l’organizzazione del ricevimento, a cui sono invitati i maggiorenti della città, è un’occupazione serissima.
Tutto deve funzionare alla perfezione, come il meccanismo di un prezioso orologio. Proprio per questo, il ballo, che dovrebbe segnare l’ingresso della famiglia nell’alta società parigina, è un sogno tanto per la madre, volgare e arcigna parvenue, quanto per la quattordicenne Antoinette, che però ne rimane esclusa. Con una scrittura precisa e senza fronzoli, Irène Némirovsky racconta la vendetta che Antoinette saprà prendersi.

La mia opinione

 

Un racconto piuttosto breve ma non per questo privo di contenuti. Ricco di tagliente ironia, Il ballo ci mostra ancora una volta ciò che la Némirovsky ha cercato di comunicare in quasi tutti i suoi scritti: le assurde regole imposte dall’etichetta; la volontà ostinata di apparire ciò che non si è e il pensiero di meritarlo per diritto di nascita; la frivolezza degli adulti vista, in questo caso, tramite gli occhi di una ragazza di quattordici anni. Antoniette alla fine si rende conto che gli adulti che tanto la intimorivano non sono meglio di lei, anzi forse peggio. L’autrice non smentisce la sua capacità di tramandare nei dettagli e in modo affascinante le atmosfere parigine dei primi decenni del Novecento, soprattutto degli anni a cavallo tra le due guerre che per alcuni furono anni di ricchezza facile, di illusione, di sogni realizzati con fatica e poco dopo infranti nell’ultimo conflitto mondiale.

Valutazione:

4

Jane Eyre

JANE EYRE – Charlotte Brontë

Non sono un uccello; e non c’è rete che possa intrappolarmi: sono una creatura umana libera, con una libera volontà, che ora esercito lasciandovi.

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Qualche settimana fa vi avevo parlato del romanzo “Cime tempestose” di Emily Brontë, sorella di Charlotte. Ad esso avevo assegnato un bel punteggio di 8; questo libro invece mi è piaciuto di più, sia per stile che per contenuti. Ma andiamo per ordine.

Jane è orfana e ha vissuto un’infanzia infelice a casa della zia e un’adolescenza difficile in un severo istituto femminile. Diventata adulta diviene finalmente “libera” e viene assunta in casa del signor Rochester come governante. Sin da subito sono evidenti i contrasti nel rapporto con il padrone che, avendo notato in lei una mente particolarmente intelligente e brillante, la tratta in un certo senso come sua “pari” e ne rimane segretamente affascinato. Tuttavia la vita in casa Rochester non è rosea e tranquilla, vi sono dei segreti di cui nessuno, a parte Rochester, è a conoscenza.

Come dicevo prima, nel confronto – inevitabile – tra gli scritti delle sorelle Emily e Charlotte, lo stile di quest’ultima appare elegante come quello di Emily, ma sovente meno tedioso e meno “pesante”; mancano quei passaggi prolissi e troppo descrittivi che mi avevano a volte annoiata in “Cime tempestose”, dunque la lettura ne risulta agevolata, più serena e accattivante.

In secondo luogo la grande differenza sta nei personaggi: in “Cime tempestose” i protagonisti sono egoisti, egocentrici, alle volte “cattivi”, danno all’intero romanzo un tetro riverbero; in “Jane Eyre” i personaggi sono più amabili, ci si affeziona a loro più facilmente. Jane infatti non è altera, civettuola e viziata come Cathy; tutt’altro, è una donna dal fascino inconsapevole, arguta e determinata, un’eroina moderna e solitaria, forte. Oltretutto ben note sono le atmosfere gotiche di “Cime tempestose” con i suoi spettri che incutono tacito timore. “Jane Eyre” lo trovo più simile agli scritti austeniani come ad esempio “Orgoglio e pregiudizio”, uno dei miei preferiti.

Assolutamente da non perdere per gli amanti dei romanzi d’amore.

Tra l’altro, sempre dopo aver letto il libro, consiglio la visione del film da esso tratto nel 2011, molto gradevole e fedele al romanzo.

Valutazione:

5

Cime tempestose

Salve amici, eccoci qui con una nuova recensione. Vi parlo di un libro che ho appena terminato di leggere.

CIME TEMPESTOSE – Emily Brontë

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Il mio amore per Heathcliff è simile alle rocce eterne ai piedi degli alberi; fonti di poca gioia visibile ma necessarie. Io sono Heathcliff; lui è sempre nella mia mente, non come un piacere, così come io non sono sempre un piacere per me, ma come il mio stesso essere.

Heathcliff è uno zingaro trovato dal signor Earnshaw durante un viaggio; questi lo accoglie in casa sua dove il bambino si trova a combattere le prevaricazioni di Hindley – figlio maggiore di Earnshaw – , mitigate dall’affetto di Cathy, sua sorella.

I caratteri di Heathcliff e Cathy sono somiglianti; entrambi paiono freddi e distaccati con tutti, egoisti; in verità con il passare degli anni si rendono conto di essere indispensabili l’uno per l’altra. Alla morte di Earnshaw, Hindley degrada Heathcliff a garzone di stalla, cosa che lo porta ad allontanarsi da Cathy. Questa difatti ama il benessere; ragion per cui cede presto alle avance del ricco Edgar Linton. Heathcliff, frustrato dal fatto di non essere in grado di offrire a Cathy ciò che desidera, parte in cerca di fortuna, diventando ricco. Al ritorno però scopre che Cathy ed Edgar sono convolati a nozze. Seguiranno vendette e dissapori, menzogne e tradimenti, brevi istanti di passione e una morte che non ha pietà per nessuno.

In verità avevo sempre sentito parlare dei protagonisti di questo romanzo come personaggi non “buoni” come quasi sempre è per i protagonisti di un romanzo sentimentale; questa la ragione per cui non mi ero ancora decisa a leggerlo. Tuttavia devo dire che, nonostante Heathcliff e Cathy vantino davvero caratteristiche discutibili, la narrazione dell’autrice le fa apparire come accettabili, di importanza minore rispetto all’amore che provano l’uno per l’altra. La storia mi è piaciuta molto e meriterebbe pure un 10 se non fosse che la scrittura alle volte è pesante, persino tediosa in certi tratti. Forse questo è l’unico difetto giacché Emily Brontë possiede rare abilità nell’intrecciare vicende e personaggi; geniale il modo di narrare dal punto di vista della governante – sempre presente nelle scene importanti – che, dopo anni, racconta la storia al nuovo affittuario di Heathcliff.

In Italia il romanzo è stato tradotto per la prima volta nel 1926 con il titolo de “La tempestosa”, titolo molto azzeccato dato il carattere “tempestoso”, irascibile, infantile, a volte isterico di Cathy. Leggendo questa opera, una serie di finezze nascoste tra le righe danno quasi l’impressione di essere a teatro e assistere in prima persona ad uno spettacolo. Il ché potrebbe essere sia un pregio che un difetto, a seconda delle preferenze personali e di come ci si ponga nei confronti della voce narrante.

Il romanzo oscilla tra gli elementi eroici del romanticismo, come la passione folle, ad elementi gotici, come la presenza di spettri e un pizzico di paranormale. L’amore è una contraddizione continua, narrato come un sentimento feroce, prepotente, crudo, proprio come il personaggio di Heathcliff. A fargli da contro altare c’è Cathy, che pare dominarlo, anche dopo la morte.

Un romanzo di spessore, accettabile ai giorni nostri ma che fece scalpore all’epoca della scrittrice.

Da “Cime tempestose” sono stati tratti numerosi film, alcuni dei quali molti recenti. Io ho visto quello del 1939. Tralasciando la qualità di immagini e audio, l’adattamento mi è parso gradevole, emozionante, con il sapore antico dei film d’epoca adattissimo in questo caso, anche se il personaggio di Cathy nel film risulta un po’ piatto. Del resto credo sia difficile riuscire a dar vita ad una donna che, sotto lo strato di civilizzazione, è assolutamente indomita e selvaggia.

Valutazione:

5

Orgoglio e pregiudizio – Jane Austen

Lui rimase seduto per alcuni istanti e poi, dopo essersi alzato, si mise a camminare per la stanza. Elizabeth era meravigliata, ma non disse una parola. Dopo un silenzio durato diversi minuti, le si avvicinò con fare agitato e cominciò a dire: «Ho lottato invano. Non ci riesco, non reprimerò i miei sentimenti. Dovete consentirmi di dirvi con quale ardore io vi ami e vi ammiri.»

ORGOGLIO E PREGIUDIZIO

Jane Austen

orgoglio e pregiudizio

Trama

Elizabeth Bennet è carina, brillante, una perfetta ragazza da marito. Ma, a differenza delle sorelle e in barba ai consigli della madre, non smania per darsi in sposa al primo pretendente. Ha un sogno: vuole innamorarsi e una vera eresia per i suoi tempi – sposare l’uomo che ama. Non sembra cosa facile, ma quando si presenta alla porta di casa Bennet un nuovo interessante vicino, il giovane Mr Darcy, il più appare fatto. Lui è bello, intelligente, pieno di fascino, eppure le cose tra i due non riescono a ingranare e tra fraintendimenti, pettegolezzi, reciproche incomprensioni sembra proprio che Lizzy e Darcy non vogliano rassegnarsi ad ammettere quello che i loro cuori hanno già perfettamente capito.

Recensione

Qualcuno di voi potrebbe pensare che sia una noia ripescare romanzi vecchi di secoli per leggerli oggi. Eppure non sono d’accordo. Nel mondo attuale, intasato di scrittori più o meno tali che pubblicano ogni sorta di scritto pur – ahimè – di discutibile qualità, il valore e la maestria degli scrittori di un tempo risalta ancora di più. In questo caso parliamo di Jane Austen e del suo romanzo più famoso: “Orgoglio e pregiudizio” – titolo originale “Pride and prejudice” – pubblicato nel 1813, in realtà rifacimento dell’opera giovanile “First impressions”.

Il mio voto la dice lunga sull’opinione che mi sono fatta su questo romanzo e, più in generale, sulla sua autrice. Ritengo che se un’opera sia stata capace di attraversare indenne e ancora splendente i confini del tempo e dello spazio, un valore deve averlo davvero. Ma parliamo della trama.

Elizabeth è la secondogenita di una buona famiglia, i Bennet. È una ragazza intelligente e sicura delle sue idee, non si lascia influenzare completamente da ciò che la società dell’epoca impone per una giovane donna come invece accade per le sue sorelle minori. Jane, sua sorella maggiore, dal cuore candido e altruista, è molto legata a lei ed è la sua confidente. La vita di Elizabeth si svolge tra passeggiate in campagna, visite dei vicini – durante le quali sopporta con imbarazzo i discorsi egoistici e superficiali di sua madre – ed eleganti balli. Proprio ad uno di questi balli conosce due gentiluomini da poco giunti nella cittadina di campagna dove vive: il signor Bingley e il signor Darcy. Il primo affabile e cortese, riscuote subito la simpatia dell’intera comunità; il secondo, orgoglioso e riservato, attira a sé le antipatie delle signore. Da quel momento in avanti Elizabeth e Jane hanno spesso a che fare con loro e le loro amiche, dame sciocche e superficiali pronte a pugnalarle alle spalle. Elizabeth – decisa contro ogni logica del tempo a non fare un matrimonio per convenienza ma per amore – scoprirà che nulla è come appare e ogni cosa può celare in realtà sentimenti ben diversi. “Orgoglio e pregiudizio”, titolo assolutamente perfetto per un’avventura romantica ed elegante, dal sapore autentico e d’altri tempi.

La parte iniziale della narrazione appare un po’ lenta e funge da introduzione ai personaggi e allo stile di vita. Jane Austen descrive con pungente vivacità i modi di pensare dell’epoca e i comportamenti della società “bene”, con i pregiudizi radicati e le distinzioni di ceto. Il romanzo prende vita dopo i primi venti capitoli e da quel momento in avanti cattura il lettore in un’atmosfera curiosa ed affascinante per noi che apparteniamo ad un secolo così diverso da quello in cui si svolgono le vicende. Pesanti risultano a volte i dialoghi sulle virtù e i difetti dell’animo umano, dei quali l’autrice riesce a disquisire sapientemente. Tuttavia ogni difetto è compensato dall’intreccio della trama e dalla descrizione dei personaggi, dai sentimenti profondi che con abilità la scrittrice riesce a trasmettere senza parole mielose e superflue. A mio avviso una grande opera. Una lettura consigliata oggi più che mai.

Valutazione:

5